23 Luglio 2019

SANTA BRIGIDA DI SVEZIA, RELIGIOSA
 PATRONA D’EUROPA – FESTA

Gal 2,19-20; Sal 33 (34); Gv 15,1-8


Santa Brigida - Dal Martirologio: Santa Brigida, religiosa, che, data in nozze al legislatore Ulfo in Svezia, educò nella pietà cristiana i suoi otto figli, esortando lo stesso coniuge con la parola e con l’esempio a una profonda vita di fede. Alla morte del marito, compì numerosi pellegrinaggi ai luoghi santi e, dopo aver lasciato degli scritti sul rinnovamento mistico della Chiesa dal capo fino alle sue membra e aver fondato l’Ordine del Santissimo Salvatore, a Roma passò al cielo.

Colletta: Signore, nostro Dio, che hai rivelato a santa Brìgida la sapienza della croce nella contemplazione amorosa della passione del tuo Figlio, concedi a noi tuoi fedeli di esultare di gioia nella manifestazione gloriosa del Signore risorto. Egli è Dio, e vive e regna con te...

I capitoli 13 -17 del Vangelo di Giovanni custodiscono due discorsi di Gesù enunciati durante l’ultima cena. Queste sue ultime parole, proprio perché pronunciate prima della sua beata passione, possono essere considerate come il suo testamento.
Gesù «sta per lasciare i suoi discepoli, sta per fare ritorno al Padre. Egli ha già insegnato loro che non li abbandonerà, ma tornerà da loro con il Padre e lo Spirito della verità, per dimorare nel loro cuore. I discepoli possono vivere sempre vicini al Maestro, anche se non lo vedranno con gli occhi del corpo; anzi essi dovranno rimanere intimamente uniti al loro Signore, se vorranno portare molto frutto» (Salvatore Alberto Panimolle).
L’immagine della vigna richiama numerosi passi dell’Antico Testamento nei quali il popolo d’Israele viene definito una vigna (Cf. Sal 80,15; Is 3,14; 5,1-7; 27,2; Ger 2,21; 6,9; 11,17; Ez 15,2; 17,5-10; 19,10; Os 10,1; Na 2,2). Sir 24,17 raffigura la Sapienza a una vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori danno frutti di gloria e ricchezza».
Nel brano giovanneo il Padre è l’agricoltore e poiché nella parabola si parla di una vite, può essere inteso in senso più restrittivo come vignaiolo. Il Figlio è la «vite vera» (Cf. Sal 84,16).
Se i Profeti paragonavano Israele a una vigna ed esprimevano rincrescimento per la scarsità e la cattiva qualità dei frutti, Gesù nel paragonare se stesso alla «vite vera» e i discepoli ai tralci vuole suggerire ai suoi amici che in avvenire non ci sarà più scarsezza di frutti per difetto della vigna; una fecondità che sarà donata anche alla sua Chiesa, ai suoi discepoli: se resteranno fedelmente uniti lui, essi faranno frutti abbondanti e duraturi.

Dal Vangelo secondo Giovanni 15,1-8: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Gesù è la vite vera - Bendetto Prete (I Quattro Vangeli):  Io sono la vite vera; «io sono...» è la nota formula di rivelazione che ricorre di frequente nel quarto vangelo (cf.: io sono la luce del mondo; io sono il pane di vita, ecc.). L’insegnamento che Gesù propone con l’immagine della vite (verss. 1-6) contiene elementi allegorici ed elementi parabolici; tuttavia nel racconto prevalgono gli elementi allegorici. La vite richiama l’immagine della vigna, immagine molto usata, particolarmente dai profeti, per illustrare le relazioni tra Israele, il popolo eletto, e Jahweh suo Dio (cf. Osea, 10,1-2; Isaia, 5,1-7; 27,2-5; Geremia, 2,21-22; 12,10-11; Ezechiele, 15,1-8; 17,5-10; 19,10-14;Salmo, 80 [79],9-17); tuttavia l’immagine della vigna, nei testi indicati, serve a mettere in luce il contrasto tra l’amore di Dio per Israele e l’incorrispondenza di questo popolo. Israele è una vigna che ha deluso le aspettative di Dio e che non ha dato il raccolto atteso; di conseguenza questo popolo sarà punito con l’abbandono e la rovina. La formula usata da Cristo si ricollega alle formule che ricorrono nei libri sapienziali. L’Ecclesiastico applica il simbolo della vite alla Sapienza divina ed invita gli uomini ad andare a nutrirsi dei suoi frutti (cf. Ecclesiastico, 24,17, 18,20). Il Salvatore impiega l’immagine della vigna per strutturarne una parabola del regno dei cieli (cf. Mt., 20,1-8; 31,28-31,33-41; Mc., 12,1-12; Lc., 20,9-19) e trae dal «frutto della vite» l’Eucaristia, il sacrificio della Nuova Alleanza (Mt., 26,29; Mc., 14,25; Lc., 22,16). La novità dell’immagine usata nel presente testo consiste nell’affermazione che Gesù è la vite vera. Dallo sviluppo del racconto si vedrà come questa vite è una vite che comunica la vita; in tal modo la formula che ricorre sulle labbra del Maestro richiama l’altra nella quale egli afferma: «Io sono il pane della vita» (Giov., 6,35). Il Padre mio è l’agricoltore; noi avremmo detto: vignaiolo; in Palestina, data l’estensione della cultura della vite, ogni agricoltore era vignaiolo, doveva cioè occuparsi della vigna.

L’evangelista Giovanni, nel riprendere l’immagine della vite, vuole illustrare e sottolineare soprattutto la necessità dell’unione profonda dei discepoli con Gesù. E lo fa usando con insistenza l’espressione rimanere in. Un’espressione a lui tanto cara da ripeterla ben cinque volte in questo brano.
Rimanere in, per l’autore del IV Vangelo, indica prima di tutto una relazione personale tra Gesù e i suoi discepoli-amici (Cf. Gv 8,31.35; 15,9-10.15; Sap 3,9), ma per comprendere il senso della esortazione nella sua valenza più pregnante occorre ricordare che l’invito è preceduto da due oscure e dolorose profezie fatte da Gesù prima di consegnarsi nelle mani dei carnefici: quella della sua morte (Cf. Gv 12,1-7) e quella dell’apostasia di un suo discepolo (Cf. Gv 13,21-30).
Gesù, dunque, mentre si avvicina la sua ultima ora, l’ora dei suoi nemici («l’impero delle tenebre» Lc 22,53; Cf. Lc 4,13), raccomanda ai suoi amici di rimanere uniti a lui e lo fa intenzionalmente perché «vuole impedire che la sua passione e la sua morte imminenti interrompano il rapporto che lega lui ai discepoli, quelli che lo hanno seguito durante il suo ministero in Palestina. Ma si rivolge anche chiaramente a tutti i suoi discepoli futuri, ai membri della sua Chiesa, per affermare con forza la necessità che essi restino uniti a lui e al suo Vangelo, che non interrompano il canale che comunica a loro la sua vita: solo così essi prenderanno parte già fin d’ora al grande dono della vita eterna [11,25-26]» (Don Alfonso Sidoti).
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto: solo se il credente-tralcio, potato amorevolmente dal Padre, rimane unito alla Vite divina potrà portare abbondanti frutti di vita eterna: «Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rom 6,5). In altre parole, restare uniti a Gesù significa ricevere il dono della lettura intelligente e sapienziale della sua passione e della sua morte: il discepolo conoscerà «lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11).
In questo è glorificato il Padre mio: ogni volta che i discepoli si sforzano, con l’aiuto della grazia, di portare copiosi frutti, il loro agire è anche manifestazione della gloria del Padre (Cf. Gv 14,3).

Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano: Un’allusione chiara al giudizio particolare prima e universale dopo: «Nel giorno del giudizio, alla fine del mondo, Cristo verrà nella gloria per dare compimento al trionfo definitivo del bene sul male che, come il grano e la zizzania, saranno cresciuti insieme nel corso della storia. Cristo glorioso, venendo alla fine dei tempi a giudicare i vivi e i morti, rivelerà la disposizione segreta dei cuori e renderà a ciascun uomo secondo le sue opere e secondo l’accoglienza o il rifiuto della grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica 680-681). Gli uomini, lasciata la vita terrena, vanno incontro al giudizio divino (cfr. Mt 25,31-46) e qui conoscono il loro ultimo destino: se sono rimasti uniti alla vite vera ricevono il regno preparato per loro fin dalla creazione del mondo; se sono rami secchi sono gettati nel fuoco eterno, preparato per i diavoli e per i suoi angeli. Un monito che non deve atterrirci e non deve essere considerato fuori moda. Il giudizio finale è «una realtà, un evento al quale saremo sottoposti anche noi. Se la nostra vita è contrassegnata dalla sterilità di fede, se noi siamo tralci infruttuosi, veniamo già ammoniti sulla sorte che ci attende alla fine dei nostri giorni. Sempre, ma soprattutto nei momenti forti della vita dobbiamo riflettere sul giudizio, non per rattristarci o disperarci, ma per stimolarci a una conversione sincera e profonda» (Salvatore Alberto Panimolle). Dove poi vengono gettati i rami secchi è ben conosciuto: «Gesù parla ripetutamente del fuoco inestinguibile che è riservato a chi, fino alla fine della vita, rifiuta di credere e di convertirsi. La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, il fuoco eterno. La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita, e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1034-1035). Un discorso altamente magistrale che richiama l’uomo ad una precisa responsabilità e a un sapienziale discernimento: l’uomo se ha scelto di restare unito a Cristo nella vita terrena, lo sarà per sempre nella vita eterna; diversamente la separazione terrena sarà eterna nella più drammatica disperazione.

La spiritualità dei laici in ordine all’apostolato - Apostolicam actuositatem  4: Siccome la fonte e l’origine di tutto l’apostolato della Chiesa è Cristo, mandato dal Padre, è evidente che la fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro unione vitale con Cristo, secondo il detto del Signore: «Chi rimane in me ed io in lui, questi produce molto frutto, perché senza di me non potete far niente» (Gv 15,5). Questa vita d’intimità con Cristo viene alimentata nella Chiesa con gli aiuti spirituali comuni a tutti i fedeli, soprattutto con la partecipazione attiva alla sacra liturgia. I laici devono usare tali aiuti in modo che, mentre compiono con rettitudine i doveri del mondo nelle condizioni ordinarie di vita, non separino dalla propria vita l’unione con Cristo, ma crescano sempre più in essa compiendo la propria attività secondo il volere divino. Su questa strada occorre che i laici progrediscano nella santità con ardore e gioia, cercando di superare le difficoltà con prudenza e pazienza. Né la cura della famiglia né gli altri impegni secolari devono essere estranei alla spiritualità della loro vita, secondo il detto dell’Apostolo: «Tutto quello che fate, in parole e in opere, fatelo nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie a Dio e al Padre per mezzo di lui» (Col 3,17). Tale vita richiede un continuo esercizio della fede, della speranza e della carità. Solo alla luce della fede e nella meditazione della parola di Dio è possibile, sempre e dovunque, riconoscere Dio nel quale «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28), cercare in ogni avvenimento la sua volontà, vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo, giudicare rettamente del vero senso e valore che le cose temporali hanno in se stesse e in ordine al fine dell’uomo.
Quanti hanno tale fede vivono nella speranza della rivelazione dei figli di Dio, nel ricordo della croce e della risurrezione del Signore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. (Vangelo)
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, presente e operante nei tuoi sacramenti,
illumina e infiamma il nostro spirito,
perché ardenti di santi propositi
portiamo frutti abbondanti di opere buone.
Per Cristo nostro Signore.