18 Luglio 2019

Giovedì XV Settimana T. O.

Es 3,13-20; Sal 104 (105); Mt 11,28-30

Colletta:  O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità. perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Il brano evangelico ha come cornice gli ripetuti inviti della Sapienza: «Io sono la madre del bell’amore e del timore della conoscenza e della santa speranza; eterna, sono donata a tutti i miei figli, a coloro che sono scelti da lui. Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele» (Sir 24,18-19); «Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola» (Sir 51,23).
Per trovare un po’ di ristoro, a quanto pare non vi son altre strade se non quella che conduce al Cuore di Cristo, sopra tutto quando i cuori degli uomini sono sotto il peso della sofferenza, della stanchezza, quando gemono nella morsa del dolore, o quando vilmente sono fatti oggetto di umilianti obbrobri. Non la consolazione umana alleggerisce il gravame della afflizione, ma soltanto quella divina. Ma vi è un’altra considerazione. Agli innumerevoli maestri, ai sedicenti guru che dicono di insegnare la via per giungere a un perfetto equilibrio psico-somatico, si contrappone il Vangelo che ci suggerisce che l’unica scuola valida è il Cuore divino di Gesù, soltanto Gesù è la Via che conduce l’uomo al Padre. Bisogna imparare da lui, soltanto da lui si apprendere la sublime arte della ascetica cristiana che porta alla santità e alla salvezza. E infine, il giogo di Gesù è dolce e il suo peso è leggero; nella sacra Scrittura il giogo è la Legge (Ger 5,5; Sir 51,34; At15,10). Il giogo di Gesù è il giogo del Regno di Dio che egli ha annunciato e imposto ai suoi discepoli. Tutto il brano evangelico richiama Sir 51,26-27: «Sottoponete il collo al suo giogo e la vostra anima accolga l’istruzione: essa è vicina a chi la cerca. Con i vostri occhi vedete che ho faticato poco e ho trovato per me un grande tesoro».

Dal Vangelo secondo Matteo 11,28-30: In quel tempo, Gesù disse: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Venite a me... Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di leggi e precetti meramente umani (Mt 15,9); una giustizia ipocrita, ma strisciante da sempre in tutte le religioni. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono stanchi e oppressi, in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, le condizioni che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno, senza infingimenti o accomodamenti: «Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”» (Lc 9,23). È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre stoltezza o scandalo (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti, anche cristiani, tendono a porre al centro di tutta la loro vita, spesso disordinata, le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o avvinti dai loro gusti e programmi, tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità capricciosa di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
Gesù è mite e umile di cuore: è la via maestra per tutti i discepoli, è la via dell’annichilimento (Cf. Fil 2,5ss), dell’incarnarsi nel tempo, nella storia, nel quotidiano dei fratelli, non come maestri arroganti o petulanti, ma come servi (Cf. 1Cor 9,22).

Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero -  Claude Tassin (Vangelo di Matteo): L’appello di quelli che soffrono (11,28-30) - «Venite a me!». Questo era già l’invito della sapienza divina (cfr. Pro 9,5; Sir 24,18). Ma il Dio dei profeti chiamava anche il suo popolo a trovare in lui il conforto (Is 50,4; Ger 6,16): lo stesso fa qui Gesù.
Nel giudaismo, l’immagine del giogo si applicava a diverse realtà: si parlava del giogo della legge, dei comandamenti o del regno dei cieli, tutto ciò che l’uomo si impone con gioia per rispondere alle esigenze di Dio. Se i farisei ritenevano che il giogo della legge non aveva nulla di un fardello e di una schiavitù, Matteo ritiene invece che il loro insegnamento grava pesantemente sui piccoli (cfr. Mt 23,4).
«Prendere il giogo» del Cristo non è trovare una quiete beata, ma procedere finalmente nella pace e nella tranquillità con colui che rifiuta di far pesare il proprio potere, che si mostra dolce e umile, come dicono le beatitudini (cfr. 5,3-4) e la profezia del re mite (cfr. 21,5). Il discorso della montagna non perde nulla del suo vigore; ma tutto diventa possibile se la guida si impegna lei stessa lungo la via che ha tracciato, a differenza di coloro che non muovono neppure con un dito pesi che loro stessi impongono (23,4).
Uno «scriba cristiano» ha dovuto comporre questi vv. 28-30 ispirandosi a Sir 51,23-27 e Matteo li rivede pren­dendo come bersaglio l’ascendente dei farisei. Le due controversie che seguono mostrano in che cosa il «giogo» di Gesù è dolce, pieno di misericordia, quando, ad esempio, si tratta di applicare la legge del sabato.

Il giogo di Gesù - Franco de Carlo (Vangelo secondo Matteo): Gesù è il Messia, molto diverso dagli scribi e dai farisei del suo tempo: questi ultimi infatti caricavano i poveri di pesi opprimenti, che essi non toccavano nemmeno con un dito mentre Gesù offre un giogo utile e un carico leggero. La tradizione giudaica paragonava l’osservanza della Tōrāh al portare il ōl malkǔt haššāmāyim («giogo del regno dei cieli»): il comandamento dell’ amore, con cui Gesù interpreta tutta la legislazione precedente, diventa la chiave di lettura non solo del comportamento umano e del rituale religioso, ma pure della stessa natura del legislatore.
Secondo lo stile ebraico, Mt 11,25-30 è una berākâ, cioè una benedizione a Dio, in cui per 5 volte ricorre il termine pater e per 2 volte il termine zygos (giogo), che nella tradizione giudaica indicava l’osservanza gioiosa, sebbene pesante, della Tōrāh scritta e orale, codificata nei seicentotredici precetti. Al tempo di Gesù, l’osservanza di tutte le prescrizioni della Tōrāh, codificate dalla tradizione orale, era un giogo pesante: seicentotredici miswōt (precetti), di cui duecentoquarantotto positivi, corrispondenti al numero delle membra del corpo umano, e trecentosessantacinque negativi, uno per ogni giorno dell’anno solare. I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi, perché incapace d’osservare tutti i precetti prescritti e quando un non ebreo domandava di convertirsi all’ebraismo, gli si diceva che portare il giogo della Tōrāh fosse duro al fine di scoraggiarlo. Il giogo rappresentava anche la fatica quotidiana dello studio della Tōrāh, che equivaleva all’osservanza di tutti i comandamenti, presi nella loro totalità. Gesù invece è un rabbi che non scoraggia, anzi invita a prendere quel giogo che egli stesso si è preoccupato di far fruttificare, rendendolo leggero da portare e avendo ridotto «tutta la Tōrāe i Profeti», cioè tutta la rivelazione scritta e orale, tutti i seicentotredici precetti, a due soltanto, i quali sono due aspetti di un solo comandamento: quello dell’amore. Nel tempo della nuova alleanza il «peso» dell’osservanza è trasformato, perché il miswat ha’ahàbà («comandamento/precetto dell’amore») riassume la Tóràh e i Profeti, cioè tutta la realtà, inclusi gli esclusi e gli impuri, tutti coloro cioè che la religione ufficiale dichiarava pregiudizialmente irrecuperabili, mentre Gesù li dichiara «beati», cioè destinatari privilegiati dell’azione di Dio. In questo progetto sono compresi anche coloro che erano discriminati ed estromessi dalla società religiosa di allora. Gli interlocutori del protagonista sono quindi coloro che sono tenuti ai margini della società: apo sophōn kai synetōn («da sapienti e intelligenti»).

L’umiltà del Figlio di Dio - M. F. Lacan (Dizionario di Teologia Biblica): Gesù è il messia umile annunziato da Zaccaria (Mt 21, 5). È il messia degli umili che egli proclama beati (Mt 5,4 = Sal 37,11; gr. prays = l’umile che la sottomissione a Dio rende paziente e mite). Gesù benedice i bambini e li presenta come modelli (Mc 10,15s). Per diventare come uno di questi piccoli cui Dio si rivela e che, soli, entreranno nel regno (Mt 11,25; 18,3s), bisogna mettersi alla scuola di Cristo, «maestro mite ed umile di cuore» (Mt 11,29).
Ora questo maestro non è soltanto un uomo; è il Signore venuto a salvare i peccatori prendendo una carne simile alla loro (Rom 8,3).
Lungi dal cercare la propria gloria (Gv 8,50), egli si umilia fino a lavare i piedi dei suoi discepoli (Gv 13,14ss); egli, che è eguale a Dio, si annienta fino a morire in croce per la nostra redenzione (Fil 2,6ss; Mc 10,45; cfr. Is 53). In Gesù si rivela non soltanto la potenza divina senza la quale noi non esisteremmo, ma la carità divina senza la quale noi saremmo perduti (Lc 19,10).
Questa umiltà («segno di Cristo», dice S. Agostino), è quella del Figlio di Dio, quella della carità. Bisogna seguire la via di questa «nuova» umiltà, per praticare il comandamento nuovo della carità (Ef 4,2; 1Piet 3,8s; «dov’è l’umiltà, ivi è la carità », dice S. Agostino). Coloro che «si rivestono di umiltà nei loro rapporti reciproci» (1Piet 5,5; Col 3,12) cercano gli interessi degli altri e prendono l’ultimo posto (Fil 2,3s; 1Cor 13,4s). Nella serie dei frutti dello Spirito, Paolo pone l’umiltà accanto alla fede (Gal 5,22s); queste due virtù (tratti essenziali di Mosè, secondo Eccli 45,4) sono di fatto connessi, essendo entrambi due atteggiamenti di apertura a Dio, di sottomissione fiduciosa alla sua grazia ed alla sua parola.

Il missionario deve avere i sentimenti di Gesù: Ad Gentes 24: Alla chiamata di Dio l’uomo deve rispondere in maniera tale da vincolarsi del tutto all’opera evangelica, «senza prender consiglio dalla carne e dal sangue». Ed è impossibile dare una risposta a questa chiamata senza l’ispirazione e la forza dello Spirito Santo. Il missionario diventa infatti partecipe della vita e della missione di colui che «annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo» (Fil 2,7); deve quindi esser pronto a mantenersi fedele per tutta la vita alla sua vocazione, a rinunciare a se stesso e a tutto quello che in precedenza possedeva in proprio, ed a «farsi tutto a tutti». Annunziando il Vangelo ai pagani, deve far conoscere con fiducia il mistero del Cristo, del quale è ambasciatore: è in suo nome che deve avere il coraggio di parlare come è necessario, senza arrossire dello scandalo della croce. Seguendo l’esempio del suo Maestro, mite e umile di cuore, deve dimostrare che il suo giogo è soave e il suo peso leggero. Vivendo autenticamente il Vangelo, con la pazienza, con la longanimità, con la benignità, con la carità sincera, egli deve rendere testimonianza al suo Signore fino a spargere, se necessario, il suo sangue per lui. Virtù e fortezza egli chiederà a Dio, per riconoscere che nella lunga prova della tribolazione e della povertà profonda risiede l’abbondanza della gioia. E sia ben persuaso che è l’obbedienza la virtù distintiva del ministro di Cristo, il quale appunto con la sua obbedienza riscattò il genere umano.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il missionario, seguendo l’esempio del suo Maestro, mite e umile di cuore, deve dimostrare che il giogo di Gesù è soave e il suo peso leggero.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che per la comunione a questi santi misteri
si affermi sempre più nella nostra vita
l’opera della redenzione.
Per Cristo nostro Signore.