15 Luglio 2019 - Lunedì XV Settimana T. O.

SAN BONAVENTURA, VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA – MEMORIA

 Es 1,8-14.22; Sal 123 (124); Mt 10,34-11,1


San Bonaventura, Vescovo e Dottore della Chiesa: Nacque a Bagnorea, oggi frazione di Bagnoregio, nel Lazio nel 1221. Da bambino fu gravemente ammalato e la madre ne ottenne la guarigione per intercessione di san Francesco. Entrato dal giovane nell’Ordine dei Minori, nel 1257 fu eletto Ministro Generale dell’Ordine, che in pochi decenni aveva avuto uno sviluppo prodigioso. Creato cardinale e consacrato vescovo di Albano nel 1273, partecipò al secondo Concilio di Lione che, anche per opera sua, segnò un ravvicinamento tra latini e greci. Morì a Lione il 15 luglio 1274, assistito dal Pontefice Gregorio X, presente al Concilio. La santità, la dottrina e la spiritualità di san Bonaventura, il suo ardente amore ai misteri dell’umanità di Cristo, lasciarono una profonda impronta nella pietà cristiana, e gli meritarono il titolo di “Dottore Serafico”.

Colletta: Dio onnipotente, guarda a noi tuoi fedeli riuniti nel ricordo della nascita al cielo del vescovo san Bonaventura, e fa’ che siamo illuminati dalla sua sapienza e stimolati dal suo serafico ardore. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Oggi, i temi del Vangelo ci mettono in difficoltà. Innanzitutto, se pensavamo a Gesù come a un Re pacifico dobbiamo cambiare idea, Gesù non è venuto a portare la pace, ma la spada. Se immaginavamo un Gesù costruttore di comunione dobbiamo ricrederci, Gesù è venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera. Se credevamo di vivere in un mondo incantato, Gesù ci mette in guardia: i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Ma a scottarci è la condizione per intraprendere un serio discepolato cristiano: amare Dio al di sopra degli affetti più cari, se è necessario “abbandonarli”. E ancora, tra i tanti beni, molti superflui e caduchi, quello che conta veramente è la croce, non la croce sporadica, ma quella di ogni giorno (Lc 9,23). Solo un vita crocifissa è feconda, soltanto una vita crocifissa, si può dire realmente cristiana. E infine, la “carità spicciola”, che non consiste nel bicchiere di acqua fresca, o nel po’ di pane, ma nella “carità preveniente”. È assai facile all’uscita del centro commerciale dare pochi centesimi all’accattone di turno, questo mette a posto la propria coscienza, altro è vivere sempre con gli occhi aperti, scrutando, guardando a destra e a manca, per scovare l’infelice, il povero, il barbone, il sofferente bisognosi di tutto, dal bicchiere d’acqua fresca alla carezza, dalla parola di conforto alla medicina. Altro è dare cinque chili di pasta alla Caritas perché la dia ai poveri, altro è aprire l’uscio della propria casa per accogliere il clochard, e se necessario ripulirlo dagli insetti che lo assediano, dal lavargli i piedi, e dopo averlo rifocillato concedergli un riposo ristoratore tra linde lenzuola fresche di bucato. Forse questo significa “non tenere per sé la propria vita”, e perderla significa fare del proprio cuore la dimora del puro amore cristiano.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,34-11,1: In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.

Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): A mettere la pace sulla terra; l’infinito δοῦναι (tradotto con: «a mettere») ha qui il senso di stabilire, far regnare la pace. Ma la divisione; Matteo ha un’immagine più rude, poiché parla di «spada». Il Salvatore vuole semplicemente affermare che per gli uomini è giunto il momento della decisione; la dichiarazione non sembra limitata agli ebrei, i quali pensavano ad un Messia che avrebbe instaurato un regno di pace e di tranquillità (cf. Isaia, 9,5-6; Zaccaria, 9,10), ma a tutti, perché questa divisione è determinata dalle esigenze stesse del messaggio di salvezza (cf. Lc., 2,34-35).

Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me - Nel linguaggio di ogni giorno la parola croce ha assunto un valore negativo; infatti, nell’immaginario collettivo, rappresenta tutto quello che umilia l’uomo, tutto quello che lo aliena dal benessere e dalla felicità, lasciandolo in balia della angoscia e della disperazione, affogandolo miseramente nel dolore  e nella sofferenza.
Con cattivo gusto, anche una persona molesta viene chiamata croce. Per il cristiano, invece, la croce è la somma di tutte le sofferenze patite dal Cristo e che la professione cristiana inequivocabilmente comporta. In una ottica soprannaturale, le croci umane incollate all’unica Croce sulla quale è stato appeso il prezzo del nostro riscatto (Col 2,14; 1Tm 2,6), e che con essa si fondono, sono redenzione, libertà e riscatto.
Senza farsi cogliere dalla tentazione di strappare qualche pagina scomoda, scorrendo il Vangelo si ci accorge che la croce non è un accessorio più o meno ingombrante, ma è la condizione necessaria per seguire il Maestro. Dio «ti ha chiamato», scriveva Tauler, «a seguirlo e quindi devi portare una croce dietro a Lui, sia quella che sia. Se ne fuggi una, incorri in un’altra più pesante... Questa è la Via più vera, più sicura e più breve che si possa percorrere, che lo stesso sommo Maestro di ogni verità ha trovato, Lui stesso l’ha percorsa e l’ha insegnata a noi» (Divine Istituzioni, 4).
In fondo, il sì alla croce è un sì a Cristo. Un sì alla croce è morire all’uomo vecchio e al peccato (Rom 6,6.11); è morire alla carne (1Pt 3,18); è morire a tutti gli elementi del mondo e a quella parte di noi che appartiene alla terra (Col 2,20; 3,5): un sì alla croce è un sì alla vita nuova che è iniziata nel battesimo. La croce, così, è germe di risurrezione.

Chi avrà trovato la sua vita la perderà: e chi avrà perduto la sua vita... - Ancora un paradosso che sconcerta i benpensanti. La parola di Gesù non lascia spazio ad equivoci: seguire Cristo, vivere la sua Parola, significa rischiare la vita terrena per guadagnare quella eterna. Potremmo dire che in queste parole si pone un’esplicita condizione: chi vuole trovare la Vita, quella vera, deve saper fare gettito della propria vita terrena. Questo imperativo evangelico ha un sapore squisitamente ascetico.
«Chi ama la propria vita - scriveva san Tommaso - in questo mondo, aspirando cioè ai beni del mondo, la perderà rispetto ai beni eterni... Chi nega alla sua anima i beni presenti e sopporta per Dio quelli che sembrano mali in questo mondo, la conserverà per la Vita eterna» (In Jo. ev. exp., XII).
Quando si rinunzia a una vita fondata sull’egoismo, sulla violenza, sulla corsa alle ricchezze, al potere, agli onori e alle medaglie, ci si avvia alla Vita vera, dove l’uomo vecchio è sepolto e dove rinasce nuova creatura: morti con Cristo, vivremo con lui. Sapientemente Eckhart diceva che il cristiano deve saper perdere la propria vita per tre motivi: «Il primo è che io devo rinunciarvi nella misura in cui è mia, giacché in quanto è mia non è di Dio. In secondo luogo quando non è perfettamente fissa, radicata e riflessa in Dio... Infine quando l’anima ha il desiderio di se stessa... anziché di Dio, che le è assolutamente al di sopra. Perciò il Cristo dice: “Chi ama la propria vita la porterà alla perdizione”». 

Franco De Carlo (Vangelo secondo Matteo): Chi accoglie voi accoglie me - [10,40-42] Il seguito del lungo intervento di Gesù verte sui risvolti dell’accoglienza, indicata dal verbo dechomai (accogliere); che assume allo stesso tempo un carattere cristologico e teologico (v. 40). Dio Padre viene qui per la prima volta definito in modo indiretto come Colui che ha inviato Gesù. Dapprima l'evangelista aveva sottolineato che Gesù inviò (apesteilen) i Dodici (Mt 10,5); poi è lo stesso protagonista a riconfermare questa prospettiva: ego apostellà hymas («io invio voi», v. 16). Ora il lettore viene istruito sul fatto che lo stesso protagonista è stato inviato da Dio (v. 40).
Ricompare il motivo della ricompensa per mezzo del termine misthos, che viene associato alla categoria del profeta (prophētēs) e del giusto (idikaios, v. 41).
L'intero capitolo di Mt 10 si chiude associando il motivo della ricompensa con la tematica della cura dei «piccoli» (mikroi): «E chi qualora dissetasse uno di questi piccoli con una sola coppa di fresca (acqua) a nome di discepolo, amen dico a voi: “Non affatto perderebbe la ricompensa sua [ton misthon autau]»), v. 42.
Questa dinamica verrà ribadita successivamente nel dialogo di Gesù con i suoi discepoli in Mt 18: «E chi eventualmente accogliesse un (solo) bambino (paidion) tale nel nome mio, accoglie me (eme dechetai)» (v. 5)221, che riconferma l’incipit di questa pericope: «Chi accoglie voi me accoglie (eme dechetai), e chi me acco­glie accoglie chi inviò me» (Mt 10,40).

I Vangeli (Ed. Àncora): Una duplice accoglienza (vv. 40-42) - La vita dei discepoli non è solo segnata dalla persecuzione. L'istruzione missionaria di Gesù infatti trova un epilogo positivo nel motivo dell'accoglienza riservata ai discepoli. Se la reazione di molti dinanzi ai missionari è la persecuzione, la reazione di altri invece è la solidarietà. Vi sono alcuni in grado di accogliere l'operato dei discepoli. Questi, accogliendo i discepoli, in realtà accolgono Gesù stesso e anche il Padre (accogliere Cristo quando si accoglie un essere umano sarà un tema importantissimo in Mt 25, specie nella parabola del giudizio finale dei vv. 31-46). Nel giudaismo l'inviato di un uomo è un altro se stesso. L'inviato dunque comunica la presenza di colui che lo ha inviato. Come Gesù comunica la presenza del Padre che è nei cieli, così i discepoli comunicano al mondo la sua presenza. Anche il dono di un bicchiere di acqua fresca basta a riconoscere in essi un cuore semplice che fa di loro dei potenziali discepoli. Come chi nella storia di Israele ha accolto profeti e giusti partecipando alla loro stessa dignità e ricevendo la loro stessa ricompensa, così chi concede accoglienza ai discepoli di Gesù è degno di ricompensa. Questa non è la riconoscenza o la gratitudine umana, ma piuttosto una ricompensa di natura più ampia che immette nell'orizzonte del destino ultimo dell'uomo che è la vita eterna.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada” (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Signore Dio nostro, la comunione ai tuoi santi misteri
susciti in noi la fiamma di carità,
che alimentò incessantemente la vita di san Bonaventura
e lo spinse a consumarsi per la tua Chiesa.
Per Cristo nostro Signore.