11 Luglio 2019

San Benedetto Abate, Patrono d’Europa

Pr 2,1-9; Sal 33 (34); Mt 19,27-29

San Benedetto è il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco. Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola. Paolo VI lo proclamò patrono d’Europa (24 ottobre 1964). (Avvenire)

Colletta: O Dio, che hai scelto san Benedetto abate e lo hai costituito maestro di coloro che dedicano la vita al tuo servizio, concedi anche a noi di non anteporre nulla all’amore del Cristo e di correre con cuore libero e ardente nella via dei tuoi precetti. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Ecco, noi abbiamo lasciato tutto - Nel cuore dell’uomo, qualche volta, si annida la tentazione di “commercializzare” tutto. In un mondo come il nostro che vola sulle ali degli affari, del commercio o del denaro, quello di trasformare tutto in un “business” è ormai un’idea fissa. Spesso nel dare si cela la segreta speranza di ricevere qualcosa in contraccambio. In questa trappola può finire anche il dono di sé a Dio: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”.
Dio non è da meno, ma certamente nel segno opposto. Il Signore, in questo senso, è un perdente: nell’intrattenersi con gli uomini ci ha rimesso sempre e l’ultima vicenda, quella del Calvario, la dice lunga. Al contrario, con grande magnanimità, ricompensa anche i più piccoli sforzi compiuti dall’uomo, ma quest’ultimo non sempre riceve quello che spesso si aspetta dal suo Creatore.
L’uomo crede di poter ricevere oro o argento, salute o bellezza, ma non comprende che sono beni caduchi, temporanei, che conducono spesso alla disperazione, all’egoismo o alla violenza, così come la sete del comando o l’ingordigia insaziabile del potere: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (Gc 4,1-2).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 19,27-29: In quel tempo, Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».

Alla domanda di Pietro, umanamente interessata, Gesù risponde con una promessa che si farà realtà nella rigenerazione del mondo: voi, miei amici (Gv 15,15), siederete su dodici troni a giudicare le tribù d’Israele. I Dodici saranno associati a Gesù nel giudicare le tribù d’Israele. La lista delle cose lasciate per il regno di Dio certamente non è esaustiva. Ai piccoli sacrifici Dio risponde con doni incommensurabilmente incomparabili: Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.

E noi? - Claude Tassin (Vangelo di Matteo): Come nel capitolo 18, Pietro interviene e, sulla risposta di Gesù, si inserirà di nuovo una parabola. Che cosa avverrà di coloro che hanno abbandonato le loro sicurezze umane per seguire il Cristo? Questa è la domanda. Matteo propone dapprima al v. 28 un’affermazione attinta alle stesse fonti di Luca (cfr. Lc 22,30) e che riguarda il caso specifico dei dodici apostoli. Quando verrà il mondo nuovo, letteralmente «la rigenerazione», fioritura conclusiva del regno, allora il Figlio dell’uomo sarà rivelato nella sua piena statura e i Dodici formeranno una corte associata al suo potere. Nel linguaggio biblico, il verbo «giudicare» ha il senso più vasto di governare, poiché il compito principale dei capi tribù consisteva in pratica nel risolvere i contrasti. I Dodici parteciperanno al governo del mondo nuovo (cosa che Luca lascia capire) o al giudizio che deciderà l’ammissione degli eletti? Dal confronto con Mt 25,31, è senza dubbio il secondo senso che si deve qui intendere. Paolo stesso dichiara che la comunità cristiana parteciperà al giudizio del mondo (cfr. 1Cor 6,2), come altri testi giudaici antichi associano i giusti al giudizio finale degli empi. Al tribunale del Figlio dell’uomo compariranno «le dodici tribù d’Israele». Al tempo di Gesù non ne esistevano che due; le altre dieci erano disperse e mescolate al mondo pagano. Ma scegliendo dodici uomini, come nuovi capostipiti, Gesù intendeva veramente ricostituire il popolo di Dio nella sua totalità. Sotto la penna di Matteo l’espressione significa certamente questo: i Dodici, membri d’Israele divenuti discepoli del Messia, saranno i più idonei per giudicare la condotta di tutto Israele in rapporto a Gesù. In ogni caso, non si tratta del giudizio della Chiesa; infatti, ricordiamolo, Matteo non considera questa come un «nuovo Israele» che si sostituisce a Israele. Il v. 29 riprende i dati di Marco. I Dodici non detengono il privilegio della piena vita eterna: la promessa è valida per tutti coloro che avranno accettato sacrifici affettivi e rinuncia materiale allo scopo di meglio legarsi al Cristo. Infatti il discepolo non coltiva la rinuncia come tale. Ma alcuni vincoli diventano talmente forti - per uno la famiglia, per altri il conto in banca - che impediscono una relazione vivente con il Cristo.

… alla rigenerazione del mondo - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Il detto è formulato con termini del vocabolario profetico e con immagini tratte dalla storia ebraica. Nella rigenerazione (del mondo) = παλιγγενεσία (rinascita, nuova nascita, palingenesi; il termine ricorre due sole volte nel Nuovo Testamento, cioè qui e Tito, 3,5); l’idea, non già il termine, risale al Vecchio Testamento, nel quale l’èra messianica è presentata come un rinnovamento (cf. Isaia, 65,17; 66,22, dove si parla di cieli nuovi e terra nuova). S. Paolo dà all’idea un valore spirituale; per l’apostolo credente è una «nuova creazione» (cf. 2Corinti, 5,17). Cristo, accennando a questa palingenesi, intende riferirsi al regno messianico che sarà stabilito sopra la terra, non già al regno celeste (cf. Lc., 22,28-30). Le parole: quando il Figlio sederà sul suo trono di gloria, richiamano l’immagine di Daniele, 7,9 e significano che Gesù presiederà dal cielo il suo regno stabilito sopra la terra. In questo governo del regno Cristo glorioso in cielo assocerà i suoi apostoli durante la loro esistenza e dopo la loro morte. Sederete anche voi su dodici troni per giudicare le dodici tribù d’Israele; Cristo usa un linguaggio ispirato alla storia d’Israele: giudicare significa nella Bibbia governare, reggere, non già l’atto particolare di pronunziare una sentenza (i Giudici d’Israele sono capi di tribù; cf. il libro dei Giudici); le dodici tribù d’Israele designano il nuovo Israele, l’Israele di Dio (come dice S. Paolo, cf. Galati, 6,16); dodici non indica una quantità numerica, ma l’intero Israele; il popolo d’Israele era considerato tradizionalmente come costituito da dodici tribù, anche quando queste non esistevano più. Nel regno messianico, cioè nella Chiesa, gli apostoli avranno un posto di privilegio e di governo. Non si può pensare all’ultimo giudizio (giudizio finale), perché questo è riservato unicamente al Figlio (cf. Gio., 5,27).

Chiunque avrà lasciato case - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): La seconda risposta di Gesù riguarda ciò che abbiamo lasciato per lui, cioè a motivo dell’intima unione con lui e del servizio alla sua parola. I legami familiari e le ricchezze terrene sono nominati e posti sullo stesso piano. Che i figli abbiano lasciato i genitori o il contadino il podere e i campi, tutto viene valutato alla stessa stregua e l’enumerazione potrebbe essere più lunga. Quel che importa non è ciò che si lascia, ma il motivo per cui lo si lascia: il rapporto con il Messia, il nostro totale impegno alla sua sequela. Cosa e quanto si esiga, è differente per ciascuno, ma nessuno abbandona qualcosa per Gesù senza venirne ricambiato al centuplo; non perché il discepolo debba lavorare per amore di questo guadagno, ma perché crede sempre più alla ricchezza e alla magnanimità di Dio, che supera sempre quella degli uomini. Noi non lavoriamo per il premio, ma per Dio, che è sempre il più grande dei premi. Qui non si fa distinzione tra il premio terreno e il premio eterno (come in Mc 10,30). Matteo nomina soltanto il premio unico e globale della vita vera, la vita eterna. Questa è il centuplo di tutto ciò che quaggiù si può lasciare. Il giovane ricco aveva posto domande sulla via per giungere alla vita eterna (19,16). Gesù lo aveva invitato a lasciare le sue ricchezze e a seguirlo, ciò che appunto hanno fatto i discepoli; essi hanno lasciato molto di più che dei beni terreni, quindi hanno la promessa di avere «in eredità la vita eterna». Queste parole aprono alla speranza chi cerca seriamente la salvezza. L’uomo non può avere la sicurezza definitiva di conseguire la salvezza giungendo alla piena comunione con Dio: rimane sempre una tensione tra la speranza e la consapevolezza della propria insufficienza di fronte alle richieste di questa speranza. Nonostante questa nostra insicurezza, queste parole ci danno una certa sicurezza liberatrice. Chi può dire, come Pietro, di aver lasciato realmente qualcosa per Gesù, può riferire a sé questa promessa del premio. Se Dio non dimentica le minime azioni, tanto meno dimenticherà la grande azione di chi rinuncia a persone e a beni per seguire Gesù. Nella «nuova creazione» del mondo, tutto questo si manifesterà mediante un radicale capovolgimento di valori. Molti che qui erano i primi, là saranno gli ultimi, cioè saranno respinti. E molti che erano gli ultimi, saranno i primi, cioè coeredi con Cristo del regno di Dio. Chi avrà lasciato tutto, guadagnerà tutto; chi avrà cercato la propria vita, la perderà; chi l’avrà perduta, la troverà.

Ecco, noi abbiamo lasciato tutto… - Giovanni Paolo II (Omelia, 8 Ottobre 2000): “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28). Questa affermazione di Pietro esprime la radicalità della scelta che è richiesta all’apostolo. Una radicalità che si chiarisce alla luce del dialogo esigente, fatto da Gesù con il giovane ricco. Quale condizione per la vita eterna, il Maestro gli aveva additato l’osservanza dei comandamenti. Di fronte al suo desiderio di maggiore perfezione, aveva risposto con uno sguardo di amore e una proposta totalitaria: “Va, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 10,21). Su questa parola di Cristo calò, come un oscurarsi improvviso del cielo, la tristezza del rifiuto. Fu allora che Gesù pronunciò una delle sue sentenze più severe: “Com’è difficile entrare nel regno di Dio!” (Mc 10,24). Sentenza che egli stesso, di fronte allo sbigottimento degli apostoli, mitigò, facendo leva sulla potenza di Dio: “Tutto è possibile presso Dio” (Mc 10,27). L’intervento di Pietro diventa espressione della grazia con cui Dio trasforma l’uomo e lo rende capace di un dono totale. “Abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,28). È così che si diventa apostoli. Ed è così che si sperimenta anche l’avverarsi della promessa di Cristo circa il «centuplo»: l’apostolo che ha lasciato tutto per seguire Cristo vive già su questa terra, nonostante le immancabili prove, un’esistenza realizzata e gioiosa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questo sacramento
ci hai dato il pegno della vita eterna,
fa’ che, secondo lo spirito di san Benedetto,
celebriamo fedelmente la tua lode
e amiamo i fratelli con carità sincera.
Per Cristo nostro Signore.