1 Aprile 2019

Lunedì della IV Settimana di Quaresima


Oggi Gesù ci dice: “Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e il Signore sarà con voi. (Cfr. Am 5,14 - Acclamazione al Vangelo).

Dal Vangelo secondo Giovanni 4,43-54: Gesù abbandona la Samaria: in questa terra ostica e pagana, ad una donna aveva rivelato di essere il Messia, e i samaritani avevano accolto con gioia la parola del giovane rabbi di Nazareth: «Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”. E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”» (Gv 4,39-42).
Credono per la sua parola: “non c’è bisogno di miracoli per aderire a Cristo e credere nella sua missione [4,48]; la parola che ci trasmette da parte di Dio [12,49] deve essere sufficiente per convertirci [6,66-69; 15,22]” (Bibbia di Gerusalemme).
Giunto a Cana di Galilea, la sua compassione verso i malati lo muove a pietà ed esaudisce la preghiera di un funzionario del re, “gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire”.
Accoglienza che non è scevra da un aperto rimprovero: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete»”.
Il racconto evangelico si chiude felicemente: la conversione di questa famiglia è un seme di speranza, è il fuoco nascosto sotto la cenerà che divamperà subito dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Molti crederanno in Gesù, si convertiranno, lo seguiranno una pletora di discepoli lo seguirà fin sulla Croce, immolando, soci di Cristo, la loro vita per la conversione e salvezza del mondo.

Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao - Alain Marchadur (Vangelo di Giovanni): La situazione angosciosa (vv. 46-47). Da Cana a Cafarnao ci sono circa venticinque chilometri. Il padre del ragazzo malato è designato con una parola che caratterizza spesso una persona di sangue reale, o semplicemente al servizio di un re (qui Erode il tetrarca). Può essere anche un soldato: in questo caso, non sarebbe un giudeo. Suo figlio è dunque lontano e sta per morire (vv. 47-49).
Il dialogo (vv. 48-50). Alla supplica dell’uomo, Gesù risponde con una massima più generale sulla fede imper­fetta di quelli che vogliono «segni e prodigi» (espressione frequente nell’Antico Testamento che si rivolge qui a una fede troppo legata alla spettacolarità). Per mettere alla prova la fede dell’uomo, Gesù prende le distanze dalla sua domanda, come aveva fatto con la propria madre (2,4). Alla seconda richiesta dell’uomo, Gesù risponde accordandogli non la sua presenza, ma la sua parola: «Va’! Tuo figlio vive» (v. 50). L’uomo credette alla parola, il che lo distingue dagli scettici del versetto 48.
Il miracolo accertato (vv. 51-53). L’efficacia della parola di Gesù è verificata: nell’ora in cui Gesù diceva «tuo figlio vive», il ragazzo viveva. Da allora il funzionario regio credette in maniera assoluta, nza riserve e incondizionatamente (con la sua famiglia al completo).
Conclusione (v. 54). La fine del racconto si ricollega al primo segno di Cana, come già l’inizio (v. 46). La struttura dei due miracoli è del resto molto simile: Gesù arriva in Galilea; gli viene fatta una richiesta; a prima vista, egli sembra rifiutare; l’interlocutore di Gesù insiste nella sua domanda; Gesù compie allora un segno clamoroso; ne consegue la fede di un gruppo più numeroso. Nessun discorso commenta il miracolo che si realizza nel mistero e nel segreto.
Intento teologico di Giovanni. Questo segno è descritto chiaramente come un’opera indiscutibile di Gesù, al pari della guarigione del cieco (cap. 9) a della risurrezione di Lazzaro (cap. 11). Il segno è constatato da parecchie persone. Gesù è veramente il Signore della vita, la luce del mondo. Bisogna però andare oltre la dimensione prodigio a dei segni per giungere a una fede totale nel ignare: si deve superare la fede legata ai segni per accedere alla ala fede, la fede nella parola di Gesù.

Va’, tuo figlio vive - Marco Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): Per due volte si ripete: «Il tuo bambino vive... Il figlio tuo vive»: e questo viene chiamato «segno» (4,54). Come la prima volta a Cana. è rivelazione della gloria di Gesù, qui di Gesù donatore di vita.
Un bambino riceve di nuovo la vita, rivive. Nella dinamica del vangelo questo è «segno» che Gesù può davvero donare «la vita eterna», cioè la vita definitiva a chi crede in lui, a chi accoglie la sua testimonianza, a chi lo accetta come il definitivo Rivelatore di Dio, come colui che Dio ha mandato «perché chiunque crede in lui - nel Figlio - abbia la vita eterna» (3,19.36). E questa è ora la situazione dell’ufficiale regio e di tutta la sua famiglia: Egli credette, e tutta la sua famiglia. «Credette», detto cosi senza spiegazione alcuna indica adesione totale a Gesù. Il discepolo è colui che crede.
«Venne tra la sua gente». La maggioranza non lo accolse, ma alcuni lo accolsero e si aprirono al dono di Dio. È una verità che vale in modo particolare per Israele, ma anche per il mondo intero (vedi 3,16-21).

La malattia - Gaetano Favaro: La malattia nella tradizione ebraico-cristiana è una delle for­me del male e del dolore che col­piscono l’esistenza. Dio non vuole la malattia, perché quello che ha fatto è buono (Gn 1,31; Sap 1,13-14) ed egli è amante della vita (Sap 11,26). La malattia è, in ultima analisi, legata a una caduta dell’uomo (Gn 3) e può indurre l’uomo a interrogare Dio e a vederlo come un avversario crudele (Gb 10,16-17). Dio non dà una risposta esauriente ai problemi speculativi sul male dell’esistenza, ma conduce l’uomo a intuire la sua bontà anche nell’esperienza della malattia e del dolore (Gb 42,5). Gesù è venuto per liberare l’uo­mo da ogni male (Mc 5), perdona il peccato e guarisce dalle malat­tie (Mc 2,1-12); egli nega che la malattia sia dovuta al peccato della persona che ne è colpita (Gv 9). Le guarigioni di Gesù sono un segno della sua vittoria su Satana, il peccato e la morte (Lc 13,10-17) e dell’irruzione del Regno di Dio. A questa missione egli ha associato gli apostoli e i discepoli (Lc 10,9; Mt 10,1; Mc 6,13; Lc 9,1-6; Mc 16,17s.). Anche Giacomo (Gc 5,14), Paolo (1Cor 12,28-30) e la Chiesa apostolica hanno assunto tale orientamento (cfr. At 3,11ss.; 9,32ss.; 14,8ss.; 19,11s). In questo contesto la guarigione e la salute richiamano e rimandano alla salvezza degli ultimi tempi (Col 1,24; Rm 8,19-21). La risurrezione di Cristo è il segno escatologico della méta verso cui la storia è orientata. Gli esseri umani, creati a immagine di Cristo, sono chiamati a partecipare alla pienezza della vita del Risorto. Malattia e salute sono mistero perché rimandano a una totalità che supera l’oggetto delle analisi sperimentali. La malattia rivela il continuo morire dell’uomo e offre al credente ulteriori possibilità di salvezza totale, di senso e di speranza che vanno al di là del desiderio di vita.

L’ospedale ha sempre qualcosa del Calvario - Giovanni Paolo II (Insegnamenti, 4 Febbraio 1985). Ogni grave malattia solitamente attraversa periodi di scoraggiamento radicale, nei quali sorge la domanda sul perché della vita, proprio perché ci si sente da essa sradicati. In queste circostanze, la presenza silenziosa e orante degli amici ci sostiene fermamente. Ma in ultima istanza solo l’incontro con Dio sarà in grado di rivolgere anche al cuore più profondamente ferito ineffabili parole di speranza.
Quando noi, come Gesù, afflitti dalla nostra situazione, gridiamo interiormente: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,2), solo da lui possiamo ricevere la risposta che acquieta e conforta a un tempo. È la consolazione che riscontriamo nel servo di Dio in mezzo al dolore: “Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” (Is 53,10).
La croce di Cristo proietta pertanto un raggio di luce sul mistero del dolore umano; solo nella croce l’uomo può avere una risposta all’angustiato appello che nasce dal cuore di chi soffre. Lo hanno ben compreso i santi, che hanno saputo accettare il dolore e, talvolta, lo hanno ardentemente desiderato per associarsi alla passione del Signore, facendo proprie le parole dell’apostolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Identificato con Cristo sulla croce l’uomo può sperimentare che il dolore è un tesoro e la morte un guadagno (Fil 1,2); può verificare come l’amore dignifica, rende dolce il dolore e redime (cfr. “Salvifici Doloris”, 24).
Questa è la consolazione dei credenti, quando la grazia di Dio ci fa vivere di fede, sorregge la nostra speranza e infiamma la nostra carità. così diviene già realtà in noi la liberazione che ci ha ottenuto Gesù, giacché, in maniera misteriosa ma efficace, in un certo senso, la morte diventa vita per noi. E’ la morte generosa del grano che produce il raccolto abbondante della redenzione (cfr. Gv 12,24). È ciò che esprime il cantico di Isaia in modo così vivo: “Dopo il suo intimo tormento... il giusto mio servo giustificherà molti... perciò io gli darò in premio le moltitudini” (Is 53,11.12). L’ospedale ha sempre qualcosa del Calvario, poiché, unite al sacrificio del Redentore, vi si offrono le vite per la redenzione del mondo: come Gesù, il nostro “Agnello immolato” (cfr. Ap 5,6) offri la sua al Padre per tutti noi peccatori, e per quanti soffrono e si associano alla sua sofferenza e al mistero della sua redenzione.

Benedetto XVI (Messaggio, 21 Novembre 2010): Cari ammalati e sofferenti, è proprio attraverso le piaghe del Cristo che noi possiamo vedere, con occhi di speranza, tutti i mali che affliggono l’umanità. Risorgendo, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice. Alla prepotenza del Male ha opposto l’onnipotenza del suo Amore. Ci ha indicato, allora, che la via della pace e della gioia è l’Amore: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Cristo, vincitore della morte, è vivo in mezzo a noi. E mentre con san Tommaso diciamo anche noi: “Mio Signore e mio Dio!”, seguiamo il nostro Maestro nella disponibilità a spendere la vita per i nostri fratelli (cfr 1Gv 3,16), diventando messaggeri di una gioia che non teme il dolore, la gioia della Risurrezione.
San Bernardo afferma: “Dio non può patire, ma può compatire”. Dio, la Verità e l’Amore in persona, ha voluto soffrire per noi e con noi; si è fatto uomo per poter compatire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue. In ogni sofferenza umana, allora, è entrato Uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; in ogni sofferenza si diffonde la consolatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio per far sorgere la stella della speranza (cfr Lett. enc. Spe salvi, 39).
A voi, cari fratelli e sorelle, ripeto questo messaggio, perché ne siate testimoni attraverso la vostra sofferenza, la vostra vita e la vostra fede.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Dio non può patire, ma può compatire”.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti, fa’ che la comunità dei tuoi figli si edifichi con questi segni misteriosi della tua presenza e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno. Per il nostro Signore Gesù Cristo...