6 Febbraio 2019

 Mercoledì IV Settimana T. O.

Oggi Gesù ci dice: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono.» (Gv 10,27).

Vangelo - Dal vangelo secondo Marco 6,1-6: Incredulità, pregiudizi, alterigia, arroganza... una poltiglia fangosa, malevola, che riempie il cuore dei nazaretani, una poltiglia che oscura, annebbia la mente, accorcia la vista impedendo di vedere il volto di Dio, spezza il passo e interdice all’uomo di incontrarsi con Dio. È quanto successo agli abitanti di Nazareth, Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? Una domanda che resterà irrisolta, affonderà come zavorra nelle loro menti, loro che credevano di conoscere, di sapere, loro che erano abituati a sentenziare, a condannare, a giudicare... pensieri contorti che precipitosamente spingono i cuori ad aborrire la verità, a rigettare la salvezza, e a concepire malsani pensieri tinti di sangue: Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù (Lc 4,29).

Gesù venne nella sua patria - Marco si riferisce a  Nazaret, una località che non è menzionata né nell’Antico Testamento, né in Giuseppe Flavio, né nel Talmud. È nominata per la prima volta nel Nuovo Testamento come patria di Gesù e dei suoi parenti (Cf. Mt 2,23; Mc 1,9; 6,3; Lc 2,51).
Il racconto della visita di Gesù a Nazaret lo si trova anche in Matteo e in Luca. Quest’ultimo, a differenza dei primi due, ha elaborato un racconto eccessivamente sovraccarico.
Molti, ascoltando, rimanevano stupiti: quello che dicono o pensano i molti è una sintesi del ministero di Gesù: predicazione e miracoli. Ma lo stupore nasce dal fatto che sono note le origini di Gesù: praticamente si erano fermati alla “carne” (Cf. 2Cor 5,16) ed è naturale che questa “conoscenza carnale” generasse nella loro mente una cascata di domande.
Per i nazaretani Gesù è un tekton: un mestiere che comportava l’abilità professionale di svolgere simultaneamente la professione di falegname, di fabbro e di muratore.
Figlio di Maria: questa espressione contraria l’uso ebraico, che identifica un uomo in rapporto a suo padre. L’uso improprio, forse, vuole mettere in risalto la fede dell’evangelista Marco e della sua comunità, secondo cui il Padre di Gesù è Dio (Cf. Mc 1,1.11; 8,38; 13,32; 14,36).
Se è vero che Paolo e tutti e quattro gli evangelisti parlano dei fratelli e delle sorelle del Signore, è anche vero che gli autori sacri parlano solo e sempre di fratelli di Gesù, mai di figli di Maria. Solo Gesù è detto figlio di Maria (Mc 6,3) e Maria è detta solo e sempre madre di Gesù, e non di altri (Cf. Gv 2,1; 19,25; At 1,14).
I Vangeli ci hanno tramandato i nomi dei cosiddetti fratelli di Gesù che sono: Giacomo, Giuseppe (o Joses), Giuda (non Giuda Iscariota, il traditore) e Simone (Cf. Mt 13,56; Mc 6,3). Gli stessi Vangeli però ci informano anche di chi erano figli (Cf. Mt 27,55-56; Mc 15,40-41; ecc.) per cui senza ombra di dubbio possiamo affermare che essi non sono figli di Maria, la madre di Gesù, ma suoi nipoti, figli d’una sorella ben menzionata da Giovanni (Cf. Gv 19,25). Oltretutto, si conosce la scarsità di termini ebraici indicanti i vari gradi di parentela: fratello e sorella potevano indicare anche parenti di secondo grado. Anche la Settanta (traduzione greca della Bibbia) adopera il termine greco adelfos per tradurre il termine ebraico ah, anche quando si tratta in modo palese di cugini o anche di parenti (Cf. Gen 13,8; 1Cr 23,21; ecc.).
Il rifiuto di Gesù come profeta, ha un logorante crescendo: ad iniziare sono i parenti, poi i compaesani e infine i Giudei. La meraviglia di Gesù «denota il suo stupore per l’incredulità dei paesani; una cosa sorprendente e inaspettata per lui. Marco non ha preoccupazioni teologiche circa la prescienza divina di Gesù, ma ce lo presenta nella sua realtà storica. Questi non poté compiere miracoli, perché i nazaretani non si aprirono con fede alla missione affidatagli dal Padre: l’onnipotenza di Dio risulta condizionata dall’incredulità dell’uomo: “Come la sua potenza è la nostra salvezza, così la nostra incredulità è la sua impotenza” [Gnilka]» (Angelico Poppi). Nonostante questo insuccesso, Gesù continua a percorre «i villaggi d’intorno insegnando»: monito ed esempio per quei i credenti pronti a scoraggiarsi anche per il più piccolo disagio.

Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?  - Bruno Maggioni: Chiamarsi “fratelli” tra persone dello stesso gruppo, della stessa stirpe, della stessa fede è un dato pressoché universale ma il modo di intendere la fraternità può essere differente. Nel Nuovo Testamento i cristiani sono detti fratelli 160 volte. Quali sono i tratti principali che identificano la fraternità evangelica? Gesù supera il cerchio ristretto della fraternità del sangue indicando una fraternità inedita e profonda: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). La nuova “famiglia di Gesù” supera ogni legame di sangue, perché ciò che la costituisce è l’obbedienza al Padre suo. Il legame fraterno si stabilisce anzitutto con Gesù (“questi è per me fratello...”), non anzitutto fra i discepoli. I discepoli sono fratelli fra loro perché ciascuno è inserito nella medesima famiglia di Gesù.
Nel grande affresco del giudizio universale (Mt 25,31-45) il discorso sembra allargarsi ulteriormente. Gesù infatti chiama “miei fratelli” tutti i bisognosi (affamati, assetati, nudi, forestieri, ammalati e carcerati). La famiglia di Gesù è dunque più ampia di coloro che esplicitamente lo riconoscono. Non solo l’obbedienza al Padre suo, ma anche il bisogno “rende” suoi fratelli. E questo è possibile perché il costitutivo ultimo della fraternità evangelica non è ciò che l’uomo fa per Dio, ma lo sguardo di Dio che si posa su di lui: uno sguardo paterno, che non discrimina e “fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45). Così è lo sguardo del Padre e così deve essere lo sguardo dei suoi figli: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Questa fraternità cristiana - che sorprende per la sua radicalità - discende da una comune paternità. Si comprende di essere fratelli perché figli dello stesso Padre. Ed è a partire dal Padre che si comprende l’estensione della fraternità. Costituita dalla paternità di Dio, padre di tutti gli uomini, alla fraternità cristiana non è mai concesso di chiudersi in se stessa e divenire una ragione di discriminazione, distinguendo tra “noi” e “gli altri”.

Fratelli del Signore: John McKenzie (Dizionario Biblico): I fratelli di Gesù sono menzionati in Mt 12,46; 13,55s; Mc 3,31; 6,3; Lc 8,19; Gv 2,12; 7,3ss; 20,17; At 1,14; 1Cor 9,5; Gal 1,19. Se ne nominano quattro: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Mt 13,55; Mc 6,3). La tradizione della perpetua verginità di Maria ha sempre respinto l’idea che questi fratelli fossero suoi figli; l’idea di alcuni pochi Padri per i quali erano figli di un precedente matrimonio di Giuseppe è priva di qualsiasi fondamento. Il termine greco adelphos, fratello (adelphe, sorella) è usato, in gran parte, come si usano fratello e sorella in italiano. In questo caso, comunque, bisogna ricorrere allo sfondo ebraico-aramaico dei vangeli: i termini greci esprimono spesso il loro uso semitico. Le parole ebraiche per indicare le distinzioni dei diversi gradi di parentela non sono né numerose né esatte come nelle nostre lingue moderne: vediamo spesso in esse riflessi dell’antico uso nomade nel quale tutti i membri di una tribù o di un clan venivano chiamati fratelli, come il capo della tribù o del clan, lo sceicco, veniva talvolta detto padre. Dei quattro «fratelli» menzionati per nome, è evidente che Giacomo e Giuseppe non sono figli né di Giuseppe né di Maria madre di Gesù. Un’al­tra Maria è madre di ambedue: essa si trovava nel gruppo ai piedi della croce (Mt 27,56; Mc 15,40). Nell’elenco degli apostoli, Giacomo è detto figlio di Alfeo (Mt 10, 3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1, 13). Inoltre, non vi è mai menzione di altri figli, ed è difficile spiegare come mai Gesù avrebbe raccomandato Maria alle cure del discepolo Giovanni (Gv 19, 26) se avesse avuto altri figli. Nei vangeli e nell’uso linguistico non vi è nulla che si opponga alla tradizione della perpetua verginità di Maria: tale tradizione si spiegherebbe molto difficilmente se queste allusioni fossero state intese nel senso di fratelli o di sorelle uterini. L’esatto grado di parentela fra Gesù e i suoi cosiddetti «fratelli» non si può ricostruire.

Maria “sempre Vergine” - Catechismo della Chiesa Cattolica: n. 499 L’approfondimento della fede nella maternità verginale ha condotto la Chiesa a confessare la verginità reale e perpetua di Maria anche nel parto del Figlio di Dio fatto uomo. Infatti la nascita di Cristo “non ha diminuito la sua verginale integrità, ma l’ha consacrata”. La Liturgia della Chiesa celebra Maria come la “Aeiparthenos”, “sempre Vergine”.
n. 500 A ciò si obietta talvolta che la Scrittura parla di fratelli e di sorelle di Gesù. La Chiesa ha sempre ritenuto che tali passi non indichino altri figli della Vergine Maria: infatti Giacomo e Giuseppe, “fratelli di Gesù” (Mt 13,55) sono i figli di una Maria discepola di Cristo, la quale è designata in modo significativo come “l’altra Maria” (Mt 28,1). Si tratta di parenti prossimi di Gesù, secondo un’espressione non inusitata nell’Antico Testamento.
n. 501 Gesù è l’unico Figlio di Maria. Ma la maternità spirituale di Maria si estende a tutti gli uomini che egli è venuto a salvare: “Ella ha dato alla luce un Figlio, che Dio ha fatto “il primogenito di una moltitudine di fratelli” (Rm 8,29), cioè dei fedeli, e alla cui nascita e formazione ella coopera con amore di madre”.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): vv. 4-5 Un profeta rimane senza onore soltanto nella sua patria; il proverbio conferma un’esperienza assai comune: la familiarità e la vicinanza con le persone che eccellono creano gelosie, invidie, freddezze ed ostilità. Seneca diceva: «vile habetur quod domi est» (De Benef., III, 3). Bisogna tuttavia notare che Gesù si riconosce «profeta» e si proclama tale davanti ai suoi concittadini. A motivo dell’incredulità e della freddezza dei Nazaretani il Maestro non compì nessun miracolo nella sua città; il miracolo infatti suppone generalmente la fede o buone disposizioni d’animo e ne è la ricompensa. Soltanto qualche infermo, che non condivideva l’atteggiamento dei suoi concittadini, poté beneficiare della presenza di Gesù facendosi imporre le mani al suo passaggio. Sembra tuttavia che nessun miracolo sensazionale fu compiuto dal Salvatore in quella visita alla città dov’era cresciuto.
v. 6a Si stupiva della loro incredulità; lo stupore in Gesù era reale; a Nazareth infatti egli incontrò per la prima volta una folla sorda ed ostile all’annunzio della buona novella, e questo fatto lo sorprese. Gesù, come uomo, aveva quella che i teologi chiamano «scienza sperimentale» che aumentava con l’esperienza o la constatazione dei fatti; queste cognizioni nuove che il Maestro aveva come uomo erano per lui causa di stupore.
v. 6b Il Maestro, allontanatosi da Nazareth, si diresse verso il lago e Cafarnao; lungo il cammino egli evangelizzava i villaggi che toccava al suo passaggio.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, forza dei martiri, che hai chiamato alla gloria eterna san Paolo Miki e i suoi compagni attraverso il martirio della croce, concedi anche a noi per loro intercessione di testimoniare in vita e in morte la fede del nostro battesimo. Per il nostro Signore...