7 Dicembre 2018

Venerdì della I Settimana di Avvento


Oggi Gesù ci dice: «Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele.» (I Lettura).

Dal Vangelo secondo Matteo 9,27-31: I miracoli sono sempre legati alla fede, ma non è la fede dell’uomo che guarisce, ma la potenza di Dio. Se la fede ne è la condizione perché Dio operi i miracoli, è la parola di Cristo che guarisce. Avere fede significa confessare la propria impotenza e proclamare nel contempo la propria fiducia nella potenza e nella misericordia di Dio. Fede è rifiuto di contare su se stessi per contare unicamente su Dio. Il grido degli ammalati che invocano il Cristo esprime sempre questo duplice atteggiamento.

Figlio di Davide - Catechismo della Chiesa Cattolica n. 439: Numerosi ebrei ed anche alcuni pagani che condividevano la loro speranza hanno riconosciuto in Gesù i tratti fondamentali del “figlio di Davide” messianico promesso da Dio a Israele (Mt 2,2; 9,27; 12,23; 15,22; 20,30; 21,9.15). Gesù ha accettato il titolo di Messia cui aveva diritto (Gv 4,25-26; 11,27), ma non senza riserve, perché una parte dei suoi contemporanei lo intendeva secondo una concezione troppo umana (Mt 22,41-46), essenzialmente politica (Gv 6,15; Lc 24,21).

Figlio di Davide, abbi pietà di noi - CCC 2616: La preghiera a Gesù è già esaudita da lui durante il suo ministero, mediante segni che anticipano la potenza della sua morte e della sua risurrezione: Gesù esaudisce la preghiera di fede, espressa a parole (dal lebbroso; da Giairo; dalla Cananea; dal buon ladrone) oppure in silenzio (da coloro che portano il paralitico; dall’emoroissa che tocca il suo mantello; dalle lacrime e dall’olio profumato della peccatrice). La supplica accorata dei ciechi: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi » (Mt 9,27) o: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me» (Mc 10,47) è stata ripresa nella tradizione della Preghiera a Gesù: «Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di me peccatore!». Si tratti di guarire le malattie o di rimettere i peccati, alla preghiera che implora con fede Gesù risponde sempre: «Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato!». Sant’Agostino riassume in modo mirabile le tre dimensioni della preghiera di Gesù: «Prega per noi come nostro Sacerdote; prega in noi come nostro Capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in lui la nostra voce, e in noi la sua voce».

Figlio di Davide: Giovanni Paolo II (Angelus, 5 gennaio 1997): È un titolo, potremmo dire, di famiglia. Attraverso Giuseppe, suo padre putativo, Gesù è collegato con l’intera catena umana che di figlio in padre giunge fino al re Davide. Questa relazione genealogica sottolinea la concretezza dell’incarnazione: facendosi uomo, il Verbo eterno di Dio è entrato a pieno titolo nella famiglia umana, ponendosi nel solco di una particolare tradizione familiare. Anche in questo ha voluto essere uno di noi, sperimentando quel singolare legame che, annodando le generazioni, consente a ogni persona di sentirsi radicata non solo nel tempo e nello spazio, ma anche in un benefico tessuto di memorie e di affetti. Oltre, però, a questo significato antropologico, il titolo di “figlio di Davide” riveste anche un senso specifico che getta luce sul disegno di Dio. Ci ricorda infatti che l’evento cristiano è il vertice di una storia di salvezza che Dio attua progressivamente fin dall’Antico Testamento, offrendo al popolo ebreo una speciale “alleanza” e facendolo portatore di promesse salvifiche che, in Gesù di Nazaret, sarebbero state realizzate per l’intera umanità. Quando dunque i contemporanei lo chiamano “figlio di Davide”, riconoscono che in lui si compiono le promesse antiche, proclamano la definitiva realizzazione della speranza messianica. Ogni uomo può ormai attingere a questa speranza, facendo suo il grido che nel Vangelo si ritrova sulle labbra del cieco Bartimeo: “Gesù, figlio di David, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Invocando il “figlio di David”, l’umanità può ritrovare la luce degli occhi del cuore.

Avvenga per voi secondo la vostra fede - Catechismo della Chiesa Cattolica: 176-184: La fede è un’adesione personale di tutto l’uomo a Dio che si rivela. Comporta un’adesione della intelligenza e della volontà alla Rivelazione che Dio ha fatto di sé attraverso le sue opere e le sue parole.
“Credere” ha perciò un duplice riferimento: alla persona e alla verità; alla verità per la fiducia che si accorda alla persona che l’afferma.
Non dobbiamo credere in nessun altro se non in Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
La fede è un dono soprannaturale di Dio. Per credere, l’uomo ha bisogno degli aiuti interiori dello Spirito Santo.
“Credere” è un atto umano, cosciente e libero, che ben s’accorda con la dignità della persona umana.
“Credere” è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre”.
“Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata”.
La fede è necessaria alla salvezza. Il Signore stesso lo afferma: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16).
“La fede è una pregustazione della conoscenza che ci renderà beati nella vita futura”.

Va’, la tua fede ti ha salvato! - La fede, che Gesù richiede fin dall’inizio del suo ministero (cf. Mc 1,15) e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede. Un movimento di fiducia e di abbandono necessario per ottenere innanzi tutto la salvezza: «Credere in Gesù Cristo e in colui che l’ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati [Mc 16,16; Gv 3,36; Gv 6,40]. “Poiché senza la fede è impossibile essere graditi a Dio” [Eb 11,6] e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non “persevererà in essa sino alla fine” (Mt 10,22; Mt 24,13)”» (CCC 161).
Da qui la necessità di perseverare nella fede: «La fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito, mette in guardia Timoteo: combatti «la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede» (1Tm 1,18-19). Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; [cf. Mc 9,24; Lc 17,5; Lc 22,32] essa deve operare “per mezzo della carità” [Gal 5,6; cf. Gc 2,14-26] essere sostenuta dalla speranza [cf. Rom 15,13] ed essere radicata nella fede della Chiesa» (CCC 162).

La fede un dono di Dio: Se la fede è dono di Dio significa forse che Dio lascia qualcuno da parte? Questo è impossibile, perché Dio vuole che «tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità« (1Tm 2,4). E nel vangelo di Giovanni leggiamo questa parola di speranza proferita da Gesù: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,31).
L’affermazione la fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente quindi non deve trarre in inganno: se la fede è una grazia, cioè «una virtù soprannaturale da Dio infusa» (CCC 153), è anche un atto umano: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse [come, per esempio, quando un uomo e una donna si sposano], per entrare così in reciproca comunione. Conseguentemente, ancor meno è contrario alla nostra dignità “prestare, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà a Dio quando si rivela” [Concilio Vaticano I: Denz.-Schönm., 3008] ed entrare in tal modo in intima comunione con lui» (CCC 154).
Tra grazia e atto umano v’è l’ampio spazio della responsabilità dei credenti di fronte alle nuove forme religiose inequivocabilmente aggressive. Se lo scenario sembra avvicinarsi al catastrofico non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa ci insegna che con esse è necessario confrontarsi proprio sul piano culturale, dottrinale, teologico. Ma senza indulgere a falsi ecumenismi.
Scrive Massimo Introvigne: «Sia il pessimismo radicale che demonizza l’interlocutore e chiude anticipatamente la discussione, sia l’ottimismo ingenuo che rischia di condurre più che verso la conversione verso sincretismi infecondi, “doppie appartenenze” inaccettabili, tentativi sterili di conciliare l’inconciliabile. Fermezza e dialogo sono invece i due atteggiamenti di cui deve essere capace chi intende rivolgersi agli adepti dei nuovi movimenti religiosi e magici, senza blandirli né incoraggiarli, ma insieme prendendoli, come ogni uomo merita, assolutamente sul serio».
Fermezza e dialogo dunque, e se è vero, come diceva Cicerone, che siamo nati «con l’istinto dell’unione, dell’associazione e della comunanza propri del genere umano», è anche vero che è da sciocchi voler dialogare a tutti i costi con chi ti vuole tagliare la testa per convincerti al suo credo. Allora, fermezza, dialogo e intelligenza!

Ma essi, appena usciti, ne diffusero la notizia in tutta quella regione...: Card. Crescenzio Sepe (Omelia, 24 ottobre 2004): Nell’Eucaristia, la Chiesa scopre la sua fondamentale vocazione missionaria giacché, come recita il Messaggio di questa Giornata, “per evangelizzare il mondo, c’è bisogno di apostoli “esperti” nella celebrazione, adorazione e contemplazione dell’Eucaristia” (n. 3). La prima e fondamentale forma dell’essere e dell’agire missionario è la testimonianza. “L’uomo contemporaneo, scriveva Paolo VI, crede più ai testimoni che ai maestri” (EN 41), più alla vita vissuta in Cristo e per Cristo che alle teorie. Pertanto, “evangelizzare è anzitutto testimoniare, in maniera semplice e diretta, Dio rivelato da Gesù Cristo, nello Spirito Santo” (EN 26); e Papa Giovanni Paolo II, nella Redemptoris Missio, insegna che “la testimonianza della vita cristiana è la prima e insostituibile forma della missione” (n. 42). Oggi, questa missione è un oceano vasto in cui tutta la Chiesa deve avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo. L’Eucaristia ci sprona e ci spinge a salpare gli oceani delle lingue, delle culture e di tante barriere di ordine socio-politico e religioso per avvicinare tutte le Nazioni a Cristo, per un’azione missionaria senza frontiere, convinti che il Salvatore del mondo non distrugge niente di quanto Dio ha seminato in tutti i Popoli ma porta tutto alla pienezza (cfr. Mt 5, 17).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  La prima e fondamentale forma dell’essere e dell’agire missionario è la testimonianza.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nel vescovo sant’Ambrogio ci hai dato un insigne maestro della fede cattolica e un esempio di apostolica fortezza, suscita nella Chiesa uomini secondo il tuo cuore, che la guidino con coraggio e sapienza. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.