2 Dicembre 2018

I Domenica di Avvento


Oggi Gesù ci dice: “La vostra liberazione è vicina.” (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Luca 21,25-28.34-36: Gesù è già venuto nell’umiltà della nostra natura umana, verrà nella gloria. Per noi cristiani attendere la venuta di Gesù, durante il tempo d’Avvento, diventa un’occasione per rivivere, con grande fervore, un atteggiamento di fede e di attesa della salvezza che lui viene a portarci. Ma noi conosciamo, come ci suggerisce san Bernardo, anche un triplice avvento del Signore. Egli viene ancora adesso, oggi in ogni momento. Viene attraverso l’Eucaristia, i sacramenti, la preghiera, la Parola di Dio, la Chiesa. È “la visita di Cristo nel cuore, che porta salvezza, realizza il primo avvento redentivo, anticipa e garantisce quello ultimo di possesso beatificante ed eterno di Dio.” (Vincenzo Raffa).

Il 21mo capitolo del Vangelo di Luca registra due eventi che coinvolgeranno drammaticamente il popolo eletto e l’umanità: la rovina di Gerusalemme e la manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo.
L’evangelista Luca, seguendo una delle sue fonti, aveva già parlato del ritorno glorioso di Gesù alla fine dei tempi (Cf 17,22-37). Qui, come Marco che egli segue e combina con un’altra fonte, tratta della distruzione di Gerusalemme, senza rimenarvi la fine del mondo come fa l’evangelista Matteo (Cf Mt 24,1; Lc 19,44).
Entrambi gli eventi, la distruzione del tempio di Gerusalemme e la beata venuta di Gesù, saranno preceduti da segni premonitori.
Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle e sulla terra angoscia di popoli... Il genere letterario qui adoperato dall’evangelista è quello apocalittico corrente nell’ambiente semitico (Cf Is 13,9-10; 34,4; Ger 4,23-26; Ez 32,7s; Am 8,9; Mi 1,3-4; Gl 2,10; 3,4; 4,15).
Il Figlio dell’uomo verrà con grande potenza e gloria, tutti lo vedranno e sarà un evento di liberazione per i credenti e di condanna per gli empi.
Anche se Luca tralascia il giudizio universale (Cf. Mt 25,31-46), il giudizio di condanna degli empi è implicito nel racconto. Solo chi avrà perseverato nella fede si salverà (Cf Lc 21,19).
Mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra, i «cristiani non dovranno spaventarsi per gli sconvolgimenti cosmici finali, ma dopo tante sofferenze, persecuzioni e oppressioni che li hanno schiacciati, potranno finalmente drizzarsi e alzare con sicurezza le loro teste, essendo quello “il segnale della realizzazione della loro speranza”» (Angelico Poppi).
Dal testo lucano si evincono due riflessioni.
Innanzi tutto, la liberazione, inaugurata sul monte Calvario e già garantita dal dono dello Spirito, raggiungerà il suo compimento soltanto nella parusia, con la liberazione dalla morte mediante la resurrezione dei corpi (Cf Rm 8,23). Non vi sono quindi paradisi terreni. Infine, prima «della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il pellegrinaggio sulla terra, svelerà il “Mistero di iniquità” sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anti-Cristo, cioè del pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del Messia venuto nella carne» (CCC 675).
Dunque, il «Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo Giudizio dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa» (CCC 677).
Cassata la parabola del fico (vv. 29-33), il racconto evangelico si conclude con un monito rivolto particolarmente ai discepoli, ma non esclusivamente: immersi in un mondo pagano che non lesina immoralità e ogni genere di sregolatezze, il credente deve condurre una vita spoglia di stravizi e di vegliare in ogni momento pregando per non essere sorpresi dal giudizio divino che si abbatterà sull’umanità come un laccio (Cf 1Ts 5,1-11). A differenza degli empi che non «conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure» (Sap 2,22-23), i credenti, che attendono la venuta del loro Redentore e Signore, perché abbiano la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo, devono essere perseveranti nella preghiera e vegliare in essa (Cf Col 4,2). In questa ottica, la vigilanza cristiana suppone «una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di “sobrietà” [1Ts 5,6-8; 1Pt 5,8; Cf 1Pt 1,13; 4,7]» (Bibbia di Gerusalemme, 1974). Ottemperando queste regole, l’attesa cristiana si impasta di gioia e di serenità.

Vegliando pregando in ogni momento - Benedetto  Prete (I Quattro Vangeli): versetto 36 Vegliate e pregate in ogni tempo; all’esortazione di vegliare l’evangelista associa quella di pregare costantemente (cf. Lc.,18,1). L’insistenza sulla preghiera è un tratto caratteristico del terzo vangelo; il presente accenno mostra tutta l’importanza e l’efficacia dell’orazione per la vita del credente. Perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve avvenire; l’intera esortazione alla vigilanza rimane ancora entro l’orizzonte storico della caduta di Gerusalemme; conseguentemente queste parole dell’autore non vanno riferite alla parusia, cioè alla venuta gloriosa del Figlio dell’uomo negli ultimi tempi. La raccomandazione di pregare per non essere coinvolti nella catastrofe preannunziata dal Maestro («tutto ciò che deve avvenire») mostra che vi è una possibilità di scampo, nonostante che la descrizione si esprima con formule universali. Non si può dare alle affermazioni del testo un senso metaforico e vedere nella catastrofe predetta da Gesù il giudizio dei malvagi e nella comparizione davanti al Figlio dell’uomo l’ammissione dei buoni nel numero degli eletti, cioè l’entrata degli eletti nel regno glorioso di Dio, perché tale interpretazione non è coerente allo sviluppo del racconto. Di comparire davanti al Figlio dell’uomo; letteralmente: stare in piedi davanti al...; secondo la mentalità ebraica l’immagine di chi sta davanti ad un giudice richiama l’idea della vittoria dell’accusato sull’accusatore; «comparire davanti al Figlio dell’uomo» significa quindi: essere pienamente giustificati, cioè dichiarati dalla parte della ragione nei confronti degli altri. L’immagine tuttavia nel presente contesto non allude alla grandiosa assise che si avrà nel giudizio finale, ma rientra in una formula di esortazione alla vigilanza, poiché qualcosa di nuovo e di imprevisto deve accadere. Tutti sono ammoniti di tenersi pronti per il tempo in cui apparirà il Figlio dell’uomo, poiché tutti si troveranno necessariamente davanti a lui quando egli verrà. Evidentemente si tratta di una venuta del Figlio dell’uomo nel corso della storia, non già della parusia, come si è già detto nella spiegazione di questo discorso escatologico.

Siate sempre vigilanti - Javer Pikaza: Le parole di Gesù ci invitano alla vigilanza: è vicino il giorno ed è necessario essere sempre svegli. Questo invito ci fa vedere che esiste una verità (profondità) nella nostra vita; è la verità di Dio che si precisa come dono che fa da fondamento alla nostra esistenza, come grazia che ci porta a trasformarci dal di dentro. Di fronte a questo dono e a questa esigenza, è necessario essere sempre vigilanti. Il dovere della vigilanza è interpretato, nel nostro testo, per riguardo al futuro. La pienezza di Gesù si realizzerà in un domani (di morte e risurrezione universale); perciò, sarà legge del vivere restare premurosamente vigilanti davanti a questo futuro che si avvicina. Ogni uomo deve tradurre la vigilanza nella sua vita individuale, procurando che la morte (la sua comparsa individuale davanti a Dio) non avvenga in una situazione di grave peccato. La verità del nostro testo può essere interpretata ugualmente su un orizzonte di «profondità del presente». Non si tratta di attendere il domani dell’arrivo di Dio (o della morte); quello che importa è che la nostra vita si uniformi ogni giorno all’esigenza di Dio (e di Gesù) che è presente in essa. La fine del mondo quindi non significa nessun tipo di domani: significa il sapere che siamo limitati, che siamo internamente aperti verso Dio e ci possiamo chiudere nella nostra realtà di morte (nel peccato). Nessuna di queste due rappresentazioni è assoluta. Per comprendere le parole di Gesù circa la fine del mondo è necessario collocarle una volta per sempre in questi due contesti. Dio (il regno di Gesù) è qualcosa che verrà domani, nel futuro che è sempre minaccioso (ci può distruggere) e sempre portatore di speranza (ci possiamo inserire nella risurrezione del Cristo che ha trionfato della morte). Ma comprendere queste parole significa, allo stesso tempo, incarnarle nell’oggi di ogni giorno. Portiamo nella vita i segni della morte di Gesù (con l’agonia del mondo, le contraddizioni della storia, la minaccia del male che può sempre annientarci); ma portiamo anche i grandi segni della Pasqua, la speranza d’un futuro aperto e l’inizio d’una vita d’amore sulla terra. Per questo dobbiamo ascoltare le parole di «attenzione!» e di «rallegratevi», cercando di praticarle con coerenza di vita.

La preghiera della Chiesa - Helen Schüngel: La chiesa primitiva ha sperimentato la propria preghiera come qualcosa di nuovo, di inaudito. Supportata dalla fede di essere “liberata dal potere delle tenebre e trasferita nel regno dell’amore del Figlio” (Col 1,13), sapeva di esser autorizzata a pregare “nel nome del Signore” (1Cor 1,10) o “per Cristo”. Tutte le promesse di Dio sono state confermate e adempiute in Gesù e per mezzo suo; nel momento in cui i credenti dicono l’“amen”, rendono a Dio l’onore di essere fedele, poiché essi lo fanno nella speranza di sperimentare lo stesso adempimento delle promesse (2Cor 1,20). Così può pregare soltanto colui al quale Dio si è rivelato, mediante Gesù, come il Dio fedele e salvatore e che rimane in questo rapporto con Dio (Gv 15,16). Credere significa dunque saper pregare ed essere certi dell’adempimento (Gv 15,7; 6,23ss). La preghiera cristiana ha perciò la sua motivazione nell’azione salvifica di Dio, ma allo stesso modo rimane orientata verso l’estrema azione di Dio: è un pregare escatologico; nell’invocazione liturgica Maranà tha la comunità prega per la venuta definitiva del suo Signore. Pregando, il cristiano sperimenta la sua distanza dal mondo, soprattutto anche dai propri desideri più vari; egli sa che la sua preghiera, come la sua vita in genere, è determinata dal “non aver nulla e invece possedere tutto” (2Cor 6,10). Una tale preghiera avviene nello Spirito Santo “perché noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26); in questa preghiera ci uniamo al “genere della creazione” (Rm 8,22s). Questa preghiera, dunque, che libera dal mondo, è al tempo stesso la forma più profonda di solidarietà con il mondo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  «Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo.» (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Padre santo, che mantieni nei secoli le tue promesse, rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali e apri i nostri cuori alla speranza, perché sappiamo attendere senza turbamento il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore. Egli è Dio, e vive e regna con te...