24 Novembre 2018
  
Sabato XXXIII Settimana «per annum»

Oggi Gesù ci dice: “Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi” (Vangelo).

Dal Vangelo secondo Luca 20,27-40: Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi...: la domanda posta dai sadducei è capziosa, ed è altresì deviante perché poggia su una legge umana, la legge del levirato (Dt 25,5-10), che presa alla lettera finisce con il ridicolizzare l’idea della risurrezione. La vita eterna, quella che attende ogni uomo, non è la continuazione della vita terrena con tutte le sue complicanze. L’uomo ritornerà nella polvere, ma non precipiterà nel nulla. La risurrezione “non fu chiaramente percepita agli inizi della rivelazione biblica, donde la credenza a uno «sheol» senza resurrezione [Is 38,10-20; Sal 6,6; 88,11-13], alla quale il tradizionalismo conservatore dei sadducei [At 23,8] pretendeva di restare fedele. Ma il progresso della rivelazione a poco a poco ha compreso e soddisfatto questa esigenza [Sal 16,10-11; 49,16; 73,24], annunziando il ritorno alla vita [Sap 3,1-9] di tutto l’uomo, salvato perfino nel suo corpo [Dn 12,2-3; 2Mac 7,9s; 12,43-45; 14,46]” (Bibbia di Gerusalemme). La risposta di Gesù ai sadducei fa ben intendere che la vita dei risorti è una vita completamente nuova, un approdo nell’immensità dell’amore di Dio, una esaltate trasformazione che ha inizio già in questa povera vita: noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (2Cor 3,18).

Il racconto odierno è comune a Matteo (22,23-33) e a Marco (12,18-27). La controversia sulla risurrezione è preceduta da altre due dispute: quella che riguarda l’autorità con cui Gesù opera e predica in mezzo al popolo di Dio (Lc 20,1-8) e quella sul dovere di pagare il tributo a Cesare (Lc 20,20-26). Nell’intervallo Gesù narra la parabola dei vignaioli omicidi (Lc 20,9-19).
I sadducèi per dottrina erano in contrapposizione con i farisei. Si ritroveranno amici quando sarà necessario far fronte comune per neutralizzare Gesù. Inoltre, a differenza dei farisei, i sadducéi consideravano valido soltanto quanto era scritto nella Torah e non trovando in essa alcun testo che affermasse una nuova vita nell’aldilà non credevano nella risurrezione. Non credevano nemmeno nell’esistenza degli angeli (Cf. At 23,8).
Nell’interrogare Gesù, per dare maggior autorità alle loro parole e screditare la dottrina dei farisei, citano la legge del levirato (Dt 25,5ss). Secondo questa legge se un uomo moriva senza lasciare figli, il fratello era obbligato a sposare la vedova per dare una discendenza al defunto.
I sadducèi, «setta più rozza di quella farisaica» (san Giovanni Crisostomo), con la storia dei sette fratelli non soltanto vogliono mettere in difficoltà Gesù, ma puntano a ridicolizzare la fede nella risurrezione dei morti professata dai farisei, loro acerrimi nemici. Infatti, con accenti tra il grottesco e l’ironico, alla fine del loro racconto, chiedono a Gesù: «La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Ma al di là dei toni e degli intenti si può pensare ragionevolmente che al ragionamento dei sadducèi «sottende una concezione materialistica della risurrezione, come se la vita dei risorti potesse essere valutata alla stregua di quei valori d’oggi: matrimonio, appartenenza di una persona all’altra, morte» (Carlo Ghidelli).
Gesù risponde affermando inequivocabilmente la realtà della risurrezione e illustrando i requisiti dei corpi risorti confuta sapientemente l’argomento dei sadducèi: se in questo mondo gli uomini contraggono nozze per assicurare la continuità della specie,  «nella risurrezione» cesserà questa necessità: gli uomini «giudicati degni della vita futura e della risurrezione», partecipando a una nuova vita, saranno «uguali agli angeli» e non potranno più morire. L’evangelista Luca dicendo saranno uguali agli angeli non vuole fare un paragone, ma spiegare in cosa consiste la risurrezione: non in una «rianimazione di un cadavere, bensì nella spiritualizzazione di tutto l’essere umano, reso simile agli angeli in cielo, per partecipare alla vita di Dio, come dono sublime della sua liberalità» (Angelico Poppi).
Gesù per affermare il mistero della risurrezione cita la Parola di Dio, così come avevano fatto i suoi interlocutori per negarla. È infatti la Sacra Scrittura a dimostrare il grave errore dei sadducèi: il Signore, nella teofania del roveto ardente, dichiarandosi «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6) rivela una comunione vera con degli esseri che anche dopo la morte continuano a vivere.
«Vivono per sempre» (Sap 5,15) perché da Dio sono stati creati per l’immortalità: «Dio non ha creato la morte; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale [...]. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo ha fatto a immagine della propria natura» (Sap 1,13.15-2,23).
La morte non può spezzare la comunione di coloro che si addormentano nel Signore con il Dio vivo e fedele (Cf. Rom 6,10): Dio, non intendendo lasciare i suoi amici nella corruzione del sepolcro (Cf. Sal 16,10s), saprà trarli col suo Spirito dalla polvere (Cf. Ez 37,3; Gv 11,24s). Una comunione che coinvolgerà interamente l’uomo: nel giorno della risurrezione dei morti i corpi si ricongiungeranno alle anime per godere eternamente.
La risposta di Gesù zittisce i sadducèi e appaga i farisei i quali plaudono con vero entusiasmo: una volta tanto si sono trovati d’accordo con il giovane rabbi di Nazaret.

Il mistero della morte: Gaudium et spes 18: In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta un giorno, quando l’onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all’uomo la salvezza perduta per sua colpa. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte. Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, dandoci la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio.

La risurrezione - Anton Grabner-Haider: Le radici della fede nella risurrezione risalgono al tempo dei profeti: Osea (13,14), Ezechiele (37,1-14) e Daniele (12,1ss) testimoniano la nascita della speranza nella universale risurrezione. La liturgia sapienziale dell’Antico Testamento, influenzata dall’ellenismo, recepisce invece dalla filosofia greca la dottrina dell’immortalità dell’anima. Il fondamento della speranza nella risurrezione è la fede nella potenza totale, illimitata, globale di JHWH in quanto “Dio vivente” (Ger 23,36). Nella tradizione di Elia e di Eliseo dei Libri dei Re (1Re 17; 2Re 4) le risurrezioni di morti sono un segnale della potenza di Dio che si esprime nell’azione dei profeti. Il racconto del misterioso rapimento di Elia sul carro di fuoco mostra, naturalmente, che qui non si può ancora parlare di una risurrezione universale. Questa idea è documentabile soltanto negli scritti apocalittici del tardo giudaismo, e anche lì solo parzialmente (per es. nell’Apocalisse siriaca di Baruc). Non c’era accordo circa il momento esatto, la cerchia degli interessati e lo spazio vitale dei risorti. Lo stesso disaccordo dimostrano ancora anche le asserzioni del Nuovo Testamento. Nei sinottici, per es., manca un cenno esplicito al fatto che anche gli empi risorgono, sebbene questo sia presupposto nelle affermazioni riguardanti il giudizio (per es. Mt 25,31-46). Un’asserzione chiaramente universale è quella di Luca negli Atti degli apostoli (24,15). Nella controversia con coloro che a Corinto negavano la risurrezione, con i giudaizzanti che attendevano semplicemente un ritorno dei giusti in condizioni terrene mutate, e con gli gnostici che consideravano la risurrezione una pazzia, Paolo andò sviluppando i principi di una teologia della risurrezione: partendo dalla risurrezione di Gesù, egli vede la risurrezione dei cristiani come conseguenza salvifica della vita “in Cristo” e del possesso dello Spirito (Rm 8,11). Dal momento che le Lettere di Paolo conservano i tratti espressivi della sua predicazione, è comprensibile che egli non dica nulla riguardo la risurrezione dei non-cristiani; essa però è chiaramente deducibile dalle sue asserzioni circa il giudizio (per es. 2Cor 5,10).
L’importanza odierna dell’annuncio neotestamentario della risurrezione va ricercata in quanto segue: 1. Contro opinioni dualistiche che attendono un compimento riguardante solamente l’anima spirituale, l’uomo intero viene concepito come unità indissolubile e ogni svalutazione del corpo viene condannata come non cristiana. 2. Le oggettivazioni apocalittiche vanno riferite alla personalità dell’esistenza umana che supera ogni dimensione intramondana. 3. Le asserzioni sulla risurrezione non sono delle pure asserzioni riguardanti il futuro; quali anticipazioni del futuro totale dell’uomo, esse entrano nel presente, rendendo possibile una vita colma di esistenza escatologica.

Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello” - Il go’el - Maurice Cocagnac: Il sostantivo go’el, derivato dal verbo ebraico ga’al (riscattare) significa in generale «colui che riscatta». Questo termine è usato anche per indicare il «vendicatore del sangue», che è incaricato di uccidere l’assassino di un membro della propria famiglia e il cui diritto è limitato dalle prescrizioni contenute nel libro dei Numeri (Nm 35,9-34). Un altro significato specifico del termine si ricollega alla legge del levirato (levir è una parola latina usata per tradurre il termine ebraico yabam, che significa cognato).
“Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele.” (Dt 25,5-6).
Se il fratello del defunto si rifiuta, una pubblica cerimonia lo coprirà di vergogna (Dt 25,7-10): la vedova gli toglierà un sandalo facendo di lui uno «scalzato», zoppo nello spirito più ancora che nel corpo.
Alla base di questa pratica si collocano diverse motivazioni. La condizione della vedova è particolarmente penosa. Sul piano affettivo, la sua solitudine può dare luogo a una situazione di isolamento. In Oriente, poi, la sterilità è guardata con diffidenza a addirittura con disprezzo. Nel marito (ebr.: ba’al), la donna trova un protettore oltre che la fonte del proprio sostentamento.
La cosa più imporrante per la donna, in Israele, è perpetuare la discendenza dell’uomo. Il figlio generato secondo la legge del levirato sarà considerato come il primogenito dell’uomo che la morte ha privato di avere figli. Il testo parla di fratelli che abitano insieme. Ciò vuol dire che il legame fraterno include anche una dimensione economica. Se la vedova sposasse un estraneo, si potrebbe dover procedere a una deleteria divisione dei beni.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui.  
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la ChiesaO Dio, origine e fonte di ogni paternità, che hai reso fedeli alla croce del tuo Figlio fino all’effusione del sangue, i santi Andrea Dung-Lac e compagni martiri, per la loro comune intercessione fa’ che diventiamo missionari e testimoni del tuo amore fra gli uomini, per chiamarci ad essere tuoi figli. Per il nostro Signore ...