22 Novembre 2018

 Giovedì XXXIII Settimana «per annum»


Oggi Gesù ci dice: “Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore.” (Cfr. Sal 94,8b - Acclamazione al Vangelo)

Dal Vangelo secondo Luca 19,41-44: Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee: questo oracolo, completamente intessuto di reminiscenze bibliche, richiama la rovina di Gerusalemme del 587 (o 586?) a.C. e molto più quella del 70 d.C., di cui peraltro non descrive nessuno dei tratti caratteristici. Flavio Giuseppe racconta che Tito, alcuni mesi dopo aver distrutto Gerusalemme, durante un suo viaggio, era ripassato per la città santa, e “confrontando allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza…, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici rovinati sia l’antica bellezza, deplorò la distruzione della città… maledicendo i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città quella punizione” (Guerra giudaica, VII,112-113). È stupefacente che concordino entrambi, Gesù e Tito, nel far ricadere la responsabilità della distruzione sul comportamento errato degli uomini, ma il pianto di Gesù, a differenza del pianto di Tito, non riguarda i monumenti o il tempio, bensì la sorte dei suoi abitanti. Tutti i santi hanno avuto in pienezza il dono delle lacrime, hanno pianto sulla sorte dell’umanità, e per evitare che essa precipitasse nei luoghi tenebrosi dell’Inferno, piangendo e menando penitenza, con gioia, si sono lasciati inchiodare sulla Croce dall’Amore. Il Vangelo ci sprona a seguire il loro esempio.

Gesù, quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa - Giovanni Paolo II (Omelia 6 Novembre 1994): Dominus flevit (cfr. Lc 19,41). C’è un luogo a Gerusalemme, sul versante del Monte degli Ulivi, dove secondo la tradizione Cristo pianse sulla città di Gerusalemme. In quelle lacrime del Figlio dell’uomo vi è quasi un lontano eco di un altro pianto, di cui parla la prima lettura tratta dal Libro di Neemia. Dopo il ritorno dalla schiavitù babilonese, gli Israeliti si accinsero a ricostruire il tempio. Prima, pero, ascoltarono le parole della Sacra Scrittura, e del sacerdote Esdra, che poi benedisse il popolo con il libro della Legge. Allora tutti scoppiarono in lacrime. Leggiamo infatti che il governatore Neemia e il sacerdote Esdra dissero ai presenti: "Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete! (...) non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza" (Ne 8,9.10). Ecco, quello degli israeliti era pianto di gioia per il tempio ricuperato, per la libertà riacquistata. Il pianto di Cristo sul versante del Monte degli Ulivi non fu, invece, un pianto di gioia. Egli infatti esclamo: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta” (Mt 23,37-38). Parole simili Gesù dirà poco più tardi sulla via del Calvario, incontrando le donne di Gerusalemme in lacrime. Nel pianto di Gesù su Gerusalemme trova espressione il suo amore per la Città Santa, assieme al dolore per il suo futuro non lontano, che egli prevede: la Città sarà conquistata e il tempio distrutto, i giovani saranno sottoposti allo stesso suo supplizio, la morte di croce. “Allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi! e ai colli: copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23.30-31).

Se avessi compreso quello che porta alla pace - Gaudium et spes n. 78: La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita a «opera della giustizia » (Is 32,7). È il frutto dell’ordine impresso nella società umana dal suo divino Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente ad una giustizia sempre più perfetta. Infatti il bene comune del genere umano è regolato, sì, nella sua sostanza, dalla legge eterna, ma nelle sue esigenze concrete è soggetto a continue variazioni lungo il corso del tempo; per questo la pace non è mai qualcosa di raggiunto una volta per tutte, ma è un edificio da costruirsi continuamente. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita per di più dal peccato, l’acquisto della pace esige da ognuno il costante dominio delle passioni e la vigilanza della legittima autorità.
Tuttavia questo non basta. Tale pace non si può ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità, e l’assidua pratica della fratellanza umana sono assolutamente necessarie per la costruzione della pace. In tal modo la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia.
La pace terrena, che nasce dall’amore del prossimo, è essa stessa immagine ed effetto della pace di Cristo che promana dal Padre. Il Figlio incarnato infatti, principe della pace, per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio; ristabilendo l’unità di tutti in un solo popolo e in un solo corpo, ha ucciso nella sua carne l’odio e, nella gloria della sua risurrezione, ha diffuso lo Spirito di amore nel cuore degli uomini.
Pertanto tutti i cristiani sono chiamati con insistenza a praticare la verità nell’amore (Ef 4,15) e ad unirsi a tutti gli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla dal cielo e per attuarla.

Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee... - Anton Grabner-Haider: Nello stile narrativo della Bibbia, le catastrofi giocano un ruolo importante. In esse l’uomo sperimenta, nella maniera più chiara, quanto egli sia minacciato ed esposto, ma anche guidato da Dio. Si racconta così di una catastrofe universale come conseguenza del peccato, del diluvio universale. Nella mentalità mitica, infatti, l’acqua è dominata dalle potenze del caos; nella sua creazione Dio le ha legate, ma possono sempre scatenarsi perché l’uomo si è allontanato da Dio. Con questo quadro si vuole dire fondamentalmente che quando l’uomo si aliena da se stesso (peccato), si minaccia anche in maniera radicale. Dopo la catastrofe Dio ha rifatto un nuovo principio, ha salvato e chiamato Noè dalle acque. Anche questa asserzione è essenziale: nelle catastrofi e per mezzo di esse Dio crea il  nuovo. Il periodo veterotestamentario più tardivo è segnato dalla catastrofe storica d’Israele, dalla distruzione del tempio di Gerusalemme e dall’esilio in Babilonia. Già molto tempo prima, la catastrofe preannunciata nei discorsi profetici era una minaccia che doveva indurre il popolo alla conversione. Quando la catastrofe si scatena, viene sperimentata e interpretata come castigo di Dio che deve produrre la purificazione di tutto il popolo. Nella catastrofe, che il popolo interpreta nella fede, crescono per Israele nuove speranze e promesse, nuove possibilità e un nuovo spazio vitale. Dio trae fuori il suo popolo dalla schiavitù. Come catastrofe centrale del Nuovo Testamento i discepoli sperimentano la morte in croce di Gesù. A loro sembra che con ciò sia finito tutto quello che Gesù aveva iniziato; si disperdono e ritornano a casa alle loro professioni di un tempo. Colui che consideravano re era morto come un malfattore. L’esperienza della risurrezione di Gesù, però, raduna di nuovo i suoi discepoli. Ancora una volta Dio crea per mezzo della catastrofe qualcosa di nuovo, ora di definitivo. La croce di Gesù è già il principio della risurrezione e della gloria di Gesù (Gv). L’uomo si mette radicalmente in pericolo; egli rende una catastrofe sempre possibile, sia per sé che per gli altri, e per il mondo intero. L’uomo si sperimenta fondamentalmente in pericolo. La proclamazione cristiana della risurrezione lotta per mantenere viva la speranza che il mondo di Dio rimanga in divenire e che l’uomo non si autodistrugga.

... non lasceranno in te pietra su pietra - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Dio aveva offerto a Gerusalemme la possibilità di salvarsi, ma la sua cecità ne ha provocato la punizione. La profezia posta sulle labbra di Gesù, che anticipa alcune espressioni del discorso escatologico (21,20.6), riflette il ricordo della distruzione di Ge­rusalemme nel 70 d.C. Il linguaggio della pericope si ispira letterariamente a Is 29,1-4, ma l’evangelista ha rielaborato la sua fonte, tenendo conto degli eventi storici, ripensati teologicamente alla luce della concezione deuteronomista della pedagogia di Dio nella storia della salvezza.
Nel v. 44 viene espresso il motivo del castigo: Gerusalemme «non ha conosciuto il tempo (kairón) della visita» di Dio nella venuta del suo Inviato, Gesù, il Re-Messia. Ma benché il giudizio divino di condanna sia inappellabile, esso non assume il carattere di definitività per tutto il popolo d’Israele. Infatti, come Luca racconta negli Atti degli Apostoli, il vangelo sarà annunciato anche ai giudei e non pochi gerosolimitani lo accoglie­ranno con entusiasmo, venendo aggregati alla chiesa (cf. Rosse, p. 749).

... perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata -  Amoris laetitia  144: Gesù, come vero uomo, viveva le cose con una carica di emotività. Perciò lo addolorava il rifiuto di Gerusalemme (cfr Mt 23,37) e questa situazione gli faceva versare lacrime (cfr Lc 19,41). Ugualmente provava compassione di fronte alla sofferenza della gente (cfr Mc 6,34). Vedendo piangere gli altri si commuoveva e si turbava (cfr Gv 11,33), ed Egli stesso pianse la morte di un amico (cfr Gv 11,35). Queste manifestazioni della sua sensibilità mostravano fino a che punto il suo cuore umano era aperto agli altri.

Castigo - Wolfang Winter: Nell’Antico Testamento il castigo è un elemento costitutivo del giudizio di Dio su colui che si allontana dall’ambito della sua giustizia, vale a dire della sua potenza di benedizione che crea pace e benessere. Questa sussiste proprio soltanto nell’atteggiamento di risposta dell’uomo, che la attualizza nei confronti di Dio e dei propri simili. Soltanto in considera­zione di una tale fedeltà di comunione, Dio offre continuamente la sua salvezza; la punizione dell’empio, a sua volta consiste nella sua distruzione e serve a mantenere intatto l’ambito della salvezza. Il castigo non è quindi comprensibile a partire da un concetto assoluto di diritto, non ha il proprio significato in se stesso, ma è riferito al diritto di Dio, vale a dire all’obbligo, liberamente posto da Dio, alla fedeltà nei confronti del suo agire salvifico. Anche secondo l’apocalittica tardogiudaica l’ira di Dio si rivolge contro l’empio che trascura la Legge, pegno presente della salvezza futura. Una simile concezione del castigo di coloro che non hanno adempiuto la legge alla sequela di Cristo sta alla base di Mt 25. Paolo invece traccia nettamente la differenza rispetto al giudaismo: la giustizia salvifica di Dio è rivolta proprio agli empi, a coloro che meritano un castigo. L’azione punitiva e salvifica di Dio non è più determinata, quindi, a partire dalla legge - “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge”-, al contrario, l’ira punitiva di Dio si manifesta soltanto per mezzo dell’evangelo e grazie ad esso viene nel contempo superata (Rm 1,18; 3,21).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tutti i cristiani sono chiamati con insistenza a praticare la verità nell’amore (Ef 4,15) e ad unirsi a tutti gli uomini sinceramente amanti della pace per implorarla dal cielo e per attuarla. 
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Ascolta, Signore, la nostra preghiera e per intercessione di santa Cecilia, vergine e martire, rendici degni di cantare le tue lodi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...