28 Ottobre 2018
XXX Domenica T. O
Oggi Gesù ci dice: “Va’, la tua fede ti ha salvato.” (Vangelo).
I Lettura Ger 31,7-9 - I versetti della prima lettura sono un oracolo di speranza: è l’annuncio del lieto ritorno per i superstiti discendenti d’Israele dopo i catastrofici eventi del 721 a.C. causati dall’invasione assira e le dure repressioni che ne erano seguite. L’annuncio della imminente liberazione viene formulato dal profeta Geremia con un invito liturgico a inneggiare al Signore. Da questo brano si evince anche una profonda convinzione del profeta Geremia: la felicità d’Israele proviene unicamente dalla bontà misericordiosa e dalla onnipotenza del suo Dio.
II Lettura Eb 5,1-6: L’autore della Lettera agli Ebrei nel presentare Gesù come il vero sommo Sacerdote, l’unico, perfetto mediatore tra l’umanità e il Padre (3,1-5.10), esorta i suoi lettori ad avere fiducia nella sua misericordia senza limiti: proprio perché Egli si è rivestito di debolezza è «in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore». Il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio dei fedeli vengono da Dio per il tramite di Cristo e anch’essi, pur nella loro diversità, sono una mediazione tra il divino e l’umano.
Vangelo secondo Marco 10,46-52: Con l’episodio della guarigione di Bartimèo si conclude la sezione dedicata alla sequela di Gesù. La guarigione del figlio di Timeo segna anche una svolta: Gesù non cerca più di mantenere il segreto della sua identità. Accetta di essere chiamato Figlio di Davide e in seguito all’ingresso in Gerusalemme si designerà apertamente come il Messia. Gesù è detto anche Nazareno ed è chiamato con il titolo di Rabbunì. Il primo - Nazarenos - figura solo in Marco, mentre il secondo titolo è l’equivalente aramaico dell’ebraico rabbi. È usato solo qui e in Gv 20,16. Il significato potrebbe essere “mio Maestro” o “Maestro” (cf. Gv 20,16). La sequela del cieco Bartimèo diventa il prototipo di ogni discepolato: solo la luce della grazia riesce a far sentire all’uomo la presenza di Gesù. Solo il Dio salvatore dell’uomo e la grazia muovono l’uomo a invocare l’intervento liberatore di Dio, l’uomo, a tanta condiscendenza divina, può rispondere all’amore salvifico di Dio solo con la fede.
Benedetto XVI (Omelia, 28 Ottobre 2012): Il miracolo della guarigione del cieco Bartimeo ha una posizione rilevante nella struttura del Vangelo di Marco. È collocato infatti alla fine della sezione che viene chiamata «viaggio a Gerusalemme», cioè l’ultimo pellegrinaggio di Gesù alla Città santa, per la Pasqua in cui Egli sa che lo attendono la passione, la morte e la risurrezione. Per salire a Gerusalemme dalla valle del Giordano, Gesù passa da Gerico, e l’incontro con Bartimeo avviene all’uscita dalla città, «mentre - annota l’evangelista - Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla» (10,46), quella folla che, di lì a poco, acclamerà Gesù come Messia nel suo ingresso in Gerusalemme. Proprio lungo la strada stava seduto a mendicare Bartimeo, il cui nome significa «figlio di Timeo», come dice lo stesso evangelista. Tutto il Vangelo di Marco è un itinerario di fede, che si sviluppa gradualmente alla scuola di Gesù. I discepoli sono i primi attori di questo percorso di scoperta, ma vi sono anche altri personaggi che occupano un ruolo importante, e Bartimeo è uno di questi. La sua è l’ultima guarigione prodigiosa che Gesù compie prima della sua passione, e non a caso è quella di un cieco, una persona cioè i cui occhi hanno perso la luce. Sappiamo anche da altri testi che la condizione di cecità ha un significato pregnante nei Vangeli. Rappresenta l’uomo che ha bisogno della luce di Dio, la luce della fede, per conoscere veramente la realtà e camminare nella via della vita. Essenziale è riconoscersi ciechi, bisognosi di questa luce, altrimenti si rimane ciechi per sempre (cfr Gv 9,39-41).
Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! Il grido del figlio di Timèo era un appello di aiuto. Essere guariti dalla cecità non stava a significare soltanto la liberazione dalla schiavitù della mendicità, ma un reale ritorno alla vita assaporandone tutti i colori. I soliti tetragoni tutori dell’ordine cercano di farlo tacere, ma il cieco consapevole della posta in gioco non si fa intimorire ed alza la voce gridando più forte. Gesù si ferma e ordina in modo perentorio di chiamarlo. Solo ora i guardiani dell’ordine, all’imprevisto annuncio messianico di un cieco, comprendono la vera identità di Gesù e sulle loro labbra finalmente fiorisce una parola di speranza: «Coraggio! Alzati, ti chiama». In tre mosse, sottolineate da tre verbi di movimento, gettato via ... balzò ... venne, in modo repentino il cieco si mette alla presenza del Figlio di Davide.
Gesù prende l’iniziativa anche se è scontata la richiesta. Il miracolo è subitaneo. È da notare che Gesù non chiede la fede, ma ne sottolinea il possesso da parte del figlio di Timèo: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Quello che sfugge ai più, non sfugge al Figlio di Dio. Sa scovare in quella richiesta tutta la fede necessaria per ottenere il dono della vista.
D’altronde Gesù dal Padre è stato mandato nel mondo «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il racconto si conclude senza sottolineature di manifestazioni di gioia da parte del miracolato (cf. At 3,8) o note che mettono in risalto lo stupore della folla (cf. Mc 7,37). Ma la nota, prese a seguirlo per la strada, non è priva di importanza perché il termine scelto da Marco indica l’azione del seguire sia in senso fisico sia in senso spirituale, come per gli apostoli e gli altri discepoli.
È in atto un cammino di conversione. Gesù è la Luce del mondo (cf. Gv 8,12) ed è venuto per dare la vista ai ciechi (cf. Gv 9,39), ma è anche la Via (cf. Gv 14,6) che conduce a salvezza. Così qui viene proposto quell’interiore cammino che ogni uomo deve compiere per porsi alla sequela di Gesù Nazareno: pentirsi dei propri peccati, farsi illuminare da Cristo (immergersi nelle acque salutari del Battesimo), prendere ogni giorno sulle spalle la croce del Maestro e seguirlo (cf. Lc 9,23).
È la proposta che risuonerà nella città di Gerusalemme il mattino di Pentecoste: all’udire la predicazione degli Undici molti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,37-38).
Molti lo rimproveravano perché tacesse - Evangelii gaudium 268: La Parola di Dio ci invita anche a riconoscere che siamo popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1Pt 2,10). Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza.
269. Gesù stesso è il modello di questa scelta evangelizzatrice che ci introduce nel cuore del popolo. Quanto bene ci fa vederlo vicino a tutti! Se parlava con qualcuno, guardava i suoi occhi con una profonda attenzione piena d’amore: «Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10, 21). Lo vediamo aperto all’incontro quando si avvicina al cieco lungo la strada (cfr Mc 10,46-52) e quando mangia e beve con i peccatori (cfr Mc 2,16), senza curarsi che lo trattino da mangione e beone (cfr Mt 11,19). Lo vediamo disponibile quando lascia che una prostituta unga i suoi piedi (cfr Lc 7,36-50) o quando riceve di notte Nicodemo (cfr Gv 3,1-15). Il donarsi di Gesù sulla croce non è altro che il culmine di questo stile che ha contrassegnato tutta la sua esistenza. Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come un obbligo, non come un peso che ci esaurisce, ma come una scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità.
Va’, la tua fede ti ha salvato! - La fede, che Gesù richiede fin dall’inizio del suo ministero (cf. Mc 1,15) e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede. Un movimento di fiducia e di abbandono necessario per ottenere innanzi tutto la salvezza: «Credere in Gesù Cristo e in colui che l’ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati [Mc 16,16; Gv 3,36; Gv 6,40]. “Poiché senza la fede è impossibile essere graditi a Dio” [Eb 11,6] e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non “persevererà in essa sino alla fine” (Mt 10,22; Mt 24,13)”» (CCC 161).
Da qui la necessità di perseverare nella fede: «La fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito, mette in guardia Timoteo: combatti «la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede» (1Tm 1,18-19). Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; [cf. Mc 9,24; Lc 17,5; Lc 22,32] essa deve operare “per mezzo della carità” [Gal 5,6; cf. Gc 2,14-26] essere sostenuta dalla speranza [cf. Rom 15,13] ed essere radicata nella fede della Chiesa» (CCC 162).
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia - Benedetto XVI (Udienza Generale, 17 Agosto 2005): 2. Il Salmo introduce in un’atmosfera di esultanza: si sorride, si fa festa per la libertà ottenuta, affiorano sulle labbra canti di gioia (cfr vv. 1-2).
La reazione di fronte alla libertà ridonata è duplice. Da un lato, le nazioni pagane riconoscono la grandezza del Dio di Israele: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro» (v. 2). La salvezza del popolo eletto diventa una prova limpida dell’esistenza efficace e potente di Dio, presente e attivo nella storia. D’altro lato, è il popolo di Dio a professare la sua fede nel Signore che salva: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi» (v. 3).
3. Il pensiero corre poi al passato, rivissuto con un fremito di paura e di amarezza. Vorremmo fissare l’attenzione sull’immagine agricola usata dal Salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (v. 5). Sotto il peso del lavoro, a volte il viso si riga di lacrime: si sta compiendo una semina faticosa, forse votata all’inutilità e all’insuccesso. Ma quando giunge la mietitura abbondante e gioiosa, si scopre che quel dolore è stato fecondo.
In questo versetto del Salmo è condensata la grande lezione sul mistero di fecondità e di vita che può contenere la sofferenza. Proprio come aveva detto Gesù alle soglie della sua passione e morte: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Figlio di Davide, abbi pietà di me! Rabbunì, che io veda di nuovo!».
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
Preghiamo con la Chiesa: O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell’oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te. Per il nostro Signore Gesù Cristo...