27 Ottobre 2018

Sabato XXIX Settimana T. O


Oggi Gesù ci dice: “Io non godo della morte del malvagio, ma che si converta dalla sua malvagità e viva.” (Ez 33,11 - Acclamazione al Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Luca 13,1-9: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte?: una mentalità ottusa, dura a morire: si credeva che le disgrazie fossero segno e rivelazione dei castighi di Dio, e una morte rovinosa, come quella dei Galilei ammazzati dai soldati romani o quella delle diciotto persone morte sotto il crollo della torre di Siloe, era praticamente una escamotage di Dio per mettere in piazza il peccato dell’uomo ribelle alla sua Legge e alla sua volontà (Gv 9,2-3). Gesù si dissocia da questa mentalità e lo fa con queste chiare parole: No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. Loro non si convertirono, non cambiarono vita, e quaranta anni dopo Gerusalemme fu distrutta e molta gente morì uccisa nel Tempio o sotto le rovine degli edifici distrutti dalle legioni romane. L’uomo è il fabbro del suo destino, e quando imbocca un vicolo cieco si trova a non avere più una via d’uscita. Gesù cercò di prevenirli in questa occasione e in tante altre occasioni, ma la richiesta di pace non fu ascoltata: Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! (Lc 13,34-35). Dio non manda castighi, non fa crollare i palazzi e non fomenta le guerre, Gesù ci sta insegnando a scoprire le chiamate negli avvenimenti della vita di ogni giorno, perché per chi crede tutto è parola di Dio: anche le pubbliche calamità sono un provvidenziale invito alla penitenza.

Nella riflessione biblica il tema della retribuzione ha fatto un lungo cammino, che ha portato a graduali e interessanti scoperte.
Dalla concezione di una retribuzione terrena collettiva, il popolo è responsabile in solido delle proprie azioni (il bene degli uni ricade sugli altri e così il male, i meriti e le colpe dei padri si riversano sui figli), gradualmente si arriva a una nozione di retribuzione individuale. In questa ultima riflessione, ancora imperfetta, la retribuzione che Dio dà all’uomo, è concepita come temporale; si chiude cioè nell’arco della vita terrena. Dio infatti premia o punisce con cose facilmente controllabili: ricchezza, fecondità della sposa, rispetto e amicizia dei vicini ai buoni; mancanza di prole, malattia, povertà agli empi.
Una novità interessante, ma inficiata dalla esperienza quotidiana: infatti, spesso molti empi prosperano, molti giusti soffrono. Sarà il libro della Sapienza, e soprattutto il Nuovo Testamento, a dare una risposta a questo problema: la retribuzione è spostata nella vita ultraterrena. Si chiude così il ciclo. Ma rimane sempre sottinteso che la ricompensa «che Dio dà all’uomo è un puro dono che l’uomo non può mai meritare completamente. Il rischio del fariseismo è continuamente presente. L’uomo ha sempre la tentazione di misurare la retribuzione divina sul metro delle opere che compie. L’esempio classico lo incontriamo nella parabola del fariseo e del pubblicano [Lc 18,9ss.]. Il fariseo, che pretendeva la sua giustificazione da Dio ostentando le sue opere buone, viene da [Gesù] riprovato. L’uomo non può ricevere la salvezza dalle sue opere, perché è nel peccato. La salvezza la dà solo Dio [Rm 3,23-26]» (Giuseppe Manni).
Sulla carneficina perpetrata da Pilato e sui fatti della Torre di Siloe e sulla questione della retribuzione, Gesù non assume alcuna posizione e non dà un giudizio né sui mandanti, né sulle vittime, sposta soltanto il problema: «No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
In questo modo, Gesù invita gli interlocutori a cambiare vita: invece di investigare è meglio convertirsi perché alla fine si potrebbe condividere la sorte di quei malcapitati morti sotto il ferro romano e sotto le pietre di una torre diruta. Anche due fatti di cronaca possono celare segni ammonitori, quindi, più che dare un giudizio sulla vita degli altri è meglio guardare alla propria condotta, sopra tutto se essa è in sintonia con la volontà di Dio. L’accento va quindi spostato sull’urgenza della conversione.

La parabola del fico sterile - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Con questa parabola viene ribadita la necessità urgente della conversione. Mt (21,18-19) e Mc (11,12-14) riportano la maledizione del fico sterile, come gesto simbolico compiuto da Gesù, dopo il suo ingresso messianico a Gerusalemme. Lc omette questo episodio, perché con la presente parabola ha anticipato il medesimo insegnamento. Il fico sterile simboleggia la mancanza di frutti da parte del popolo ebraico. Su di esso incombe la minaccia della condanna escatologica, cioè dell’esclusione dal regno, se non si affretta a convertirsi. Tuttavia la dilazione dell’abbattimento della pianta indica che è ancora possibile la resipiscenza. Nel contesto di Mt e Mc il verdetto divino è già stato pronunciato ed è inappellabile. Secondo Lc, invece, Gesù con la sua attività ministeriale accordava al popolo d’Israele un’ultima opportunità per la penitenza e la conversione. Era però indispensabile cogliere il momento propizio (kairós), costituito dalla sua presenza e dalla sua predicazione.
v. 6 Nei vigneti palestinesi venivano piantati anche alberi da frutto, tra i quali il più comune era il fico. Spesso nell’Antico Testamento il popolo d’Israele è simboleggiato nella vigna (cf. Is 5,1ss.), talvolta associata all’albero di fico (cf. Os 9,10; Mi 7,1; Ger 8,13).
vv. 7-8 I tre anni forse alludono al periodo del ministero di Gesù in Israele, il tempo decisivo concesso ancora da Dio per la conversione. La riconciliazione è urgente perché anche la pazienza di Dio ha un limite. Altri, come si diceva sopra, riferiscono la parabola ai singoli individui e non a una collettività, cioè al popolo ebraico, come avviene invece nel brano affine della maledizione del fico in Mc 11,12-14.

L’immagine del fico infruttuoso era abbastanza nota e ricorreva spesso nella predicazione profetica quando si voleva denunciare l’infedeltà del popolo di Dio (Cf. Ger 8,13; Mi 7,1; Os 9,16). Nel brano lucano però si fa cenno anche alla vigna e potrebbe alludere alla pazienza di Dio (Cf. Is 5,1-7). Due rimandi non casuali e con i quali si vogliono sfatare due equivoci: «quello di chi pensa che ormai è troppo tardi e che la pazienza di Dio si è logorata nell’attesa, e quello di chi pensa che c’è sempre tempo e che la pazienza di Dio è senza limiti. La risposta è un’altra: Dio è certamente paziente, ma noi non possiamo programmare o fissare scadenze alla sua pazienza» (Carlo Ghidelli).
Mentre nel Vangelo di Matteo il fico infruttuoso viene maledetto da Gesù (Cf. Mt 21,19ss.), qui, nel racconto lucano la parabola è interrotta prima della fine, per cui non si conosce la sorte del fico sterile. Forse si vuole alludere a una futura conversione d’Israele. Per Gesù c’è ancora spazio per il ritorno d’Israele: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26).

No, io vi dico, ma se non vi convertite… - Alfonso Colzani: Nel Nuovo Testamento la conversione è tematica centrale dell’insegnamento di Gesù; il Vangelo di Marco la inserisce nel nucleo della  predicazione di Gesù e come condizione preliminare per abbracciare l’Evangelo: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo” (Lc 1,15). L’evangelista Luca (15,4-31) ne sottolinea particolarmente l’importanza nelle tre parabole della misericordia divina (la pecorella smarrita, la dracma perduta, il figliol prodigo). Il pentimento che permette di ottenere il perdono dei peccati non è solo un atto intellettuale, ma riguarda tutto l’uomo e deve condurre ad un radicale cambiamento di vita. S. Paolo negli Atti degli apostoli (26,20) richiama i due elementi fondamentali della conversione, il ritorno a Dio e il mutamento dei modi di vita: “Predicavo di convertirsi (metanoein) e di rivolgersi (letteralmente ‘ritornare’ epistréfein) a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione”. Paolo sottolinea qui che in mancanza di un reale cambiamento di vita la conversione è illusoria e vana.
S. Giovanni presenta la conversione come nuova nascita, passaggio dalle tenebre alla luce. La parabola del buon Pastore, “venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10) manifesta l’universalità della chiamata divina alla conversione, come afferma anche san Paolo: “Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati c arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,3-4).

Padrone, lascialo ancora quest’anno - La Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Il Signore insiste sulla necessità di produrre frutti in abbondanza (cfr Lc 8,11-15), in contraccambio delle grazie ricevute (cfr Lc 12,48). Insieme a questo imperativo incondizionato, Gesù Cristo pone in risalto la pazienza di Dio nell’attesa dei frutti. Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11); come insegna san Pietro, “usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9). Questa clemenza divina non può tuttavia indurci a trascurare i nostri doveri, assumendo un atteggiamento pigro e alieno da impegni che renderebbe sterile la nostra vita. Dio, sebbene misericordioso, è anche giusto e punirà le mancanze di chi non corrisponde alla sua grazia.
«Vi è una realtà che deve dolerci più di ogni altra: è quella dei cristiani che potrebbero dare di più e non si decidono; che potrebbero donarsi completamente vivendo tutte le conseguenze della loro vocazione di figli di Dio, ma rifiutano di essere generosi. Dobbiamo dolercene, perché la grazia della fede non ci è stata data perché rimanga nascosta, ma affinché brilli davanti agli uomini (cfr M 5,15-16). Dobbiamo dolercene, inoltre, perché è in gioco la felicità temporale ed eterna di quanti operano così. La vita cristiana è una meraviglia divina che comporta il compimento immediato di promesse di gaudio e di serenità, ma a condizione che sappiamo apprezzare il dono di Dio (cfr Gv 4,10), essendo generosi senza riserve» (È Gesù che passa, n. 147).

Il giudizio di Dio - Javer Pikaza: Gesù non condannò i galilei come ribelli, né tanto meno li considerò come eroi religiosi che potessero salvare il popolo con un gesto di protesta o con la loro morte.
Per lui si trattava di uomini che erano morti schiacciati da una disgrazia di questo mondo, la disgrazia d’una situazione politica che pendeva minacciosa sul popolo, come una torre mal costruita pende minacciosa sulla folla che si raccoglie ai suoi piedi ed è pronta a seminare la morte. La disgrazia d’una politica che conduce alla violenza, alla repressione e alla morte (13,1) la disgrazia di una viltà che può schiacciare coloro che la costruiscono (13,4) sono un segno della precarietà dell’uomo nel mondo. Questi esempi servirono a Gesù per far vedere che tutta la nostra vita è basata su un rischio: il giudizio di Dio che ci attende.
A questo rischio del giudizio si può rispondere con un solo atteggiamento, la conversione, che significa vivere aperti al mistero del regno come dono d’amore e come urgenza d’un cambiamento, d’una dedizione di amore gli uni per gli altri. Senza questo cambiamento, la morte giungerà a noi come una «perdita» (come insuccesso escatologico, come distruzione della nostra vera realtà o come inferno). Se saremo convertiti, la morte fisica sarà una via verso il mistero, verso la vita di Dio che già abbiamo. Tale è la parola che Gesù rivolse a una moltitudine eccitata dal nervosismo degli avvenimenti politici e dall’incertezza dei pericoli che comporta la natura.
È sempre tempo di conversione. Vedendo le cose dal di fuori, pare che si siano ormai bruciate tutte le tappe. Dio ha avuto cura di noi molte volte, come si ha cura d’un albero che pare incapace di dar frutti. Ma il giardiniere ne ha pietà. Dio ha pietà degli uomini e li cura sempre meglio per mezzo del messaggio e della speranza di Gesù. Se non corrispondiamo a queste cure, la scure della distruzione si abbatterà su di noi.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Io non godo della morte del malvagio, dice il Signore, ma che si converta dalla sua malvagità e viva. (Ez 33,11)   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno crea in noi un cuore generoso e fedele, perché possiamo sempre servirti con lealtà e purezza di spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio...