23 Settembre 2018
XXV Domenica T. O.
Oggi Gesù ci dice: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me.” (Gv 10,14 - Antifona alla comunione).
Dal Vangelo secondo Marco 9,30-37: Durante il viaggio in Galilea, Gesù istruisce i discepoli sulla sua missione salvifica che si sarebbe conclusa a Gerusalemme, su una croce. In verità, a ben guardare la geografia, il viaggio di Gesù verso Gerusalemme sembra piuttosto confuso: abbandonata la regione di Cesarea di Filippo e attraversata la Galilea, situata più a nord, raggiunge la città di Gerusalemme che è a sud. Forse più che un viaggio fisico sembra che Marco voglia dare al viaggio di Gesù un valore teologico. Gesù non vuole che alcuno lo sapesse: questo ordine, anche se è da collocare nel contesto del cosiddetto segreto messianico, deve essere visto come il desiderio, da parte del Maestro, di evitare fraintendimenti sulla sua Persona e sulla sua missione. Oramai la sua vita pubblica volge al termine e la sua morte cruenta è a un passo: il diavolo e i nemici del giovane Rabbi di Nazaret stanno affilando le armi per l’ultimo, decisivo assalto. Gesù è consapevole di tutto questo, non è affatto turbato, ma si premura di istruire i suoi discepoli, cioè coloro che avrebbero dovuto continuare la sua opera di salvezza nel mondo (cfr. 2Ts 2,4). Non vuole che la sua morte orrenda, maledetta dalla Legge (cfr. Gal 3,13; cfr. Dt 21,23), colga gli Apostoli impreparati. Non vuole che la sua morte frantumi la loro debole fede. Non vuole che la sua morte, a motivo della loro estrema debolezza, possa gettarli tra gli artigli di satana (cfr. Lc 22,31). Vuole che la sua morte sia invece un messaggio di speranza, una porta spalancata sulla vita. Ecco perché vuol stare solo con i suoi discepoli: li vuole istruire fin nei più minuti dettagli perché comprendano, perché accettino la volontà del Padre.
Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà - Jacque Hervieux (Vangelo di Marco): È la seconda volta che Gesù fa ai suoi amici questo annuncio, e ciò avviene con parole pressoché identiche alla prima (cfr. 8,31). Il Figlio dell’uomo sta per essere «consegnato» nelle mani degli uomini: l’espressione è forte.
Da chi sarà consegnato? Marco lo preciserà chiaramente più avanti. Sono degli uomini che condanneranno Gesù a morte: Giuda (14,10), i capi dei sacerdoti (15,1) e Pilato (15,15). Ma qui la forma del verbo è al passivo: Gesù «viene consegnato»; i giudei parlano spesso di Dio, evitando di nominarlo in segno di rispetto. Occorre tenerlo ben presente: la morte di Gesù, imputabile ai peccatori, non sarà tuttavia solo un accidente o incidente storico. I cristiani spiegheranno questo «scandalo» dimostrando che esso rientrava in un misterioso disegno di Dio, come intendeva già significare la brusca espressione del primo annuncio: «è necessario» che il Figlio dell’uomo conosca la sofferenza e la morte (8,31). Qui, la promessa, immediatamente associata, della sua risurrezione (v. 31 b) non doveva - più che in precedenza - confortare i discepoli di fronte alla prospettiva dolorosa della morte. I suoi amici restano ostinatamente sordi alle parole del maestro (v. 32): è il tema dell’«incapacità di comprendere» dei discepoli davanti al tentativo di Gesù di introdurli nel mistero del suo destino. Come si è visto, Pietro ha avuto un autentico gesto di ribellione all’annuncio della sua morte (cfr. 8,32); questa volta, la chiusura dei discepoli è rivelata dal timore di «interrogarlo , di proseguire la discussione col maestro riguardo le prove che lo attendono: il lettore può così comprendere che è davvero duro guardare la morte in faccia.
Una sapienza che scende dall’alto ... di una croce - Alessandro Pronzato (Parola di Dio!): «Ma i suoi discepoli non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni». L’incomprensione è continuata nel corso della storia. E ancor oggi non credo possiamo dimostrare di aver capito.
Ha ragione padre Ernesto Balducci: abbiamo piantato la croce sulle cime delle montagne e su tutti i colli, l’abbiamo messa a tutti i crocicchi, l’abbiamo appesa in tutte le camere e le aule (e perfino nelle stanze in cui si tortura). Ma non possiamo dire di aver imparato la logica del Crocifisso.
Chi di noi può escludere di aver continuato fervorosamente la discussione accesasi tra gli apostoli su chi di loro fosse il più grande, mentre Gesù aveva appena precisato ancora una volta il suo itinerario verso il Calvario? Posso dire di aver assunto come modello dei miei comportamenti il servo, il bambino (debolezza disarmata, impotenza, irrilevanza)?
Chi ha avuto più seguaci: il Cristo «consegnato», oppure Pietro che sfodera uno spadone per difendere il Maestro? Non abbiamo ancora compreso quelle parole, anche se oggi, per fortuna, le spade sono di carta (i fendenti, tuttavia, vengono menati con uguale, antica violenza ...).
E abbiamo timore di chiedergli spiegazioni. Perché siamo paralizzati soprattutto dalla paura di capire ... No. Dobbiamo riconoscerlo battendoci il petto. La «sapienza dall’alto» non è molto gradita.
Per il semplice motivo che ha il difetto di «scendere» dall’alto ... di una croce.
Di che cosa stavate discutendo per la strada? - I Giorni del Signore ( Commento delle Letture Domenicali): Gesù si rende conto che i discepoli non capiscono le sue parole, ma non insiste. Aspetta di arrivare a Cafarnao, a «casa», per chiedere loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». Essi tacciono confusi, accorgendosi che Gesù ha sentito quando discutevano tra loro «chi fosse il più grande». Una precisazione a questo punto è indispensabile. Gesù si siede, nell’atteggiamento del maestro che insegna, e chiama i Dodici per dare loro la sua risposta al problema che avevano discusso: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultmo di tutti e il servo di tutti». Questo insegnamento, oltre ai Dodici, riguarda la Chiesa intera: nella comunità non c’è e non ci dev’essere altra distinzione se non quella dei «ministeri», parola che significa «servizi» (1Cor 12,1-30). Coloro che sono investiti di una carica devono considerarsi ed essere considerati come «ministri di Cristo», «amministratori dei misteri di Dio», ai quali è chiesto di «risultare fedeli», di «meritare fiducia» (1Cor 4,1-2). Questa responsabilità - ed è lodevole aspirarvi (1Tm 3,1) - comporta doveri e non dà il diritto a vantaggi materiali e a onori.
Forse per scacciare lo spettro della morte preannunciata da Gesù, gli Apostoli, dribblando le argomentazioni del Maestro, per via si infervorano a discutere «tra loro chi fosse il più grande». Forse pensavano ai seggi da occupare nel regno di Gesù, ma la loro non è rozzezza perché questi discorsi nei loro paesi da sempre animavano riunioni o convivi.
Colti in fallo, arrivati a Cafarnao, forse in casa di Pietro, Gesù approfitta del fatto per dare loro una lezione di vita cristiana. Sedutosi, è la postura del maestro nell’atto di insegnare (cf. Mt 5,1), chiama i Dodici: Gesù restringe il cerchio ai soli Dodici perché sono loro che devono assimilare fin in fondo il suo insegnamento e viverlo integralmente poi nel loro ruolo di «colonne della Chiesa» (Gal 2,9).
Gesù ancora una volta rovescia i modelli sui quali tanti maestri avevano costruito l’identikit del vero figlio della Legge (cf. Lc 15,25-32).
Nella casa di Pietro la persona che veramente conta non è il mercenario o chi abusa del potere: «Esorto gli anziani... pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-3). Nella casa di Pietro il primo è colui che si fa servo, non chi dà ordini a destra e a manca; chi sa piegare le ginocchia e, come l’ultimo sguattero della terra, mettersi a lavare i piedi dei suoi amici e dei suoi nemici: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).
Poi, la seconda manovra, il porre un bambino in mezzo a loro, spiazza del tutto gli Apostoli. I bambini sono i membri più deboli della comunità cristiana, i più bisognosi e i più dimenticati. Di essi deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile gemente sotto il dominio del peccato.
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): E, preso un piccolo fanciullo, lo pose in mezzo a loro; la discrezione degli evangelisti non ci ha trasmesso il nome del fanciullo; alcuni scrittori antichi hanno pensato che fosse il figlio di Pietro. Un fanciullo, con la disinvoltura propria alla sua età, si era introdotto nella casa (cf. vers. 35) dove si trovavano raccolti gli apostoli insieme con il Maestro. Gesù lo prende per mano, lo pone in mezzo al gruppo, lo abbraccia (soltanto Marco nota quest’ultimo particolare) e se ne serve per insegnare ai discepoli una generosa prestazione di lavoro a servizio dei piccoli e degli umili che appartengono al regno. Per il mio nome (ἐπί τῷ ὀνόματί μου), non già: nel mio nome; l’espressione indica che per amore di Gesù bisogna servire i piccoli. Il Maestro con questo consiglio non esorta ad accogliere i bimbi e ad interessarsi dei loro bisogni materiali (ciò rientra nel precetto della carità verso il prossimo), ma presenta quel fanciullo come tipo di tutti gli umili, i piccoli ed i semplici, i quali per il fatto che appartengono al suo regno, vanno curati spiritualmente dai discepoli per amore suo. Chi accoglie uno di questi umili membri del regno, siano essi fanciulli o adulti, accoglie Cristo stesso ed il Padre che lo ha mandato.
Cristo presente nei fanciulli e in tutti i bisognosi - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): Gesù dice: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Vangelo). Dunque Gesù ha voluto ritenersi presente nei bambini e in tutti i bisognosi di aiuto e di affetto. Ma vuole che anche le tenerezze verso queste categorie di persone siano dettate dall’amore verso di lui e che le premure siano usate a causa sua. In lui v’è il Padre. La carità verso il prossimo perciò diviene un atto religioso fondamentale, un rito cultuale verso Dio. A proposito di carità la colletta di oggi ci ricorda il pensiero di Cristo, secondo il quale tutta la legge e tutti i precetti divini e quindi anche il culto e la religione si riassumono nell’amore di Dio e del prossimo. La vita eterna è data a chi osserva i precetti divini (Antifona alla Comunione / 2), ma sempre sulla linea di ispirazione genetica della carità. Il giudice eterno infatti, riferendosi alla carità, giustificherà la sua sentenza di ammissione alla gloria o di condanna con il riguardo o l’indifferenza usati alla sua persona, presente nei poveri (Mt 25, 31-46).
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Ma i suoi discepoli non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni». L’incomprensione è continuata nel corso della storia. E ancor oggi non credo possiamo dimostrare di aver capito.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai creato e governi l’universo, fa’ che sperimentiamo la potenza della tua misericordia, per dedicarci con tutte le forze al tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo…