6 Luglio 2018

Venerdì XIII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro, dice il Signore” (Mt 11,28 - Acclamazione al Vangelo).  

Dal Vangelo secondo Matteo 9,9-13: Il Vangelo mette in risalto la potenza della parola di Cristo: la Parola chiama alla sequela l’esattore di tasse Matteo, lo muove dal di dentro per una risposta pronta e positiva e l’esattore delle tasse senza battere ciglio si alza e la segue; la Parola ha il potere (exousia) di annunziare la remissione dei peccati, di proclamare ai poveri il Vangelo, la buona notizia, e di annunziare la liberazione ai prigionieri; la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto (Eb 4,12-13). Tra le righe la gioia, la festa per sottolineare l’attenzione amorosa di Dio per i più disperati, per i peccatori, per coloro che a motivo della loro vita o mestiere erano considerati dannati. Gesù non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori, perché diventino giusti attraverso la loro fede in lui (cfr. Gal 2,16), attraverso l’abbandono totale e fiducioso in lui, che «è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rom 4,25). Viene smantellata quella peregrina idea che faceva considerare la salvezza come una miscela di obbedienza pedissequa della Legge e di supererogazione di opere buone (cfr. Lc 18,9-14). Tutto è grazia e come corrispondenza al dono gratuito della salvezza Dio desidera unicamente il nostro amore (cfr. Dt 6,5), come Matteo il pubblicano immantinènte gli ha dato.

Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte: Benedetto Prete: L’evangelista narra la propria chiamata all’apostolato. Matteo dall’ebraico Mattai (radice verbale: natan = dare) forma abbreviata di Mattatiah (dono di Jahweh). Lo stesso nome può avere varie forme come: Mattan, Mattia, Mattatia, Ma(t)tat. La scena si svolge a Cafarnao, città rivierasca sulla via di comunicazione da Damasco al Mediterraneo ed ai confini dei domini di Erode Antipa e di Filippo suo fratello. L’ubicazione della città spiega la professione di Matteo; una città di confine e di passaggio delle carovane era la sede per la riscossione delle imposte. Il futuro apostolo si trovava al banco delle gabelle, quando fu chiamato al seguito di Gesù. La professione esercitata da Matteo era disprezzata dagli Ebrei, poiché spesso i gabellieri erano esosi ed agivano con inganno; da qui l’associazione di termini «pubblicani (gabellieri) - peccatori» che ricorre nei Vangeli. Nei passi paralleli di Mc. e Lc., Matteo è chiamato Levi. Gli Ebrei del periodo ellenistico avevano a volte due nomi: uno ebraico (nel caso nostro: Levi), l’altro greco o di forma grecizzata (Matteo).
L’evangelista non arrossisce di ricordare la sua professione; nell’elenco degli apostoli egli stesso precisa: Matteo il gabelliere (Mt., 10,3). Segno di autenticità del Vangelo che porta il suo nome.

La Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Questo Matteo, cui Gesù rivolge la sua chiamata, è l’apostolo dal medesimo nome e l’autore umano del primo Vangelo. È lo stesso personaggio che in Mc 2,14 e in Lc 5,27 viene chiamato Levi, figlio di Alfeo, o semplicemente Levi. È Dio che chiama. Per poter seguire Gesù in modo permanente non basta il proposito dell’uomo, ma si richiede, assolutamente, la chiamata individuale da parte del Signore, cioè la grazia della vocazione (cfr. Mt 4,19-21; Mc l,17-20; Gv 1,39; e altri passi). Tale chiamata implica la previa elezione divina. In altri termini, a prendere l’iniziativa non è l’uomo; al contrario, è Gesù a chiamare per primo e l’uomo risponde alla chiamata con la sua libera decisione personale: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). Da notare la prontezza con cui Matteo “segue” la chiamata di Gesù. In presenza della voce di Dio si può insinuare nell’anima la tentazione di rispondere: «Domani; non sono ancora preparato». In fondo, questa e altre consimili ragioni non sono altro che egoismo e paura, a meno che la paura non sia un ulteriore indizio della chiamata (cfr. Gv 1). Domani rischia di essere troppo tardi. Come quella di altri apostoli, la chiamata di san Matteo avviene nelle normali circostanze della sua vita: «Che il Signore sia venuto a cercarti nell’esercizio della tua professione? Cosi cercò i primi: Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo accanto alle reti: Matteo seduto al banco degli esattori... E - sbalordisci! - Paolo nel suo accanimento di metter fine alla semenza dei cristiani» (Cammino, n. 799).

Seguimi - Benedetto XVI (Udienza Generale, 30 Agosto 2006): Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l’opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l’importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).
Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano ... non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c’è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.

Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?: Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 588-589: Gesù ha scandalizzato i farisei mangiando con i pubblicani e i peccatori con la stessa familiarità con cui pranzava con loro. Contro quelli tra i farisei «che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9), Gesù ha affermato: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (Lc 5,32). Si è spinto oltre, proclamando davanti ai farisei che, essendo il peccato universale, coloro che presumono di non aver bisogno di salvezza, sono ciechi sul proprio conto. Gesù ha suscitato scandalo soprattutto per aver identificato il proprio comportamento misericordioso verso i peccatori con l’atteggiamento di Dio stesso a loro riguardo. È arrivato a lasciar intendere che, sedendo a mensa con i peccatori, li ammetteva al banchetto messianico. Ma è soprattutto perdonando i peccati, che Gesù ha messo le autorità religiose di Israele di fronte a un dilemma. Infatti, come costoro, inorriditi, giustamente affermano, solo Dio può rimettere i peccati. Perdonando i peccati, Gesù o bestemmia perché è un uomo che si fa uguale a Dio, oppure dice il vero e la sua Persona rende presente e rivela il Nome di Dio.

Misericordia et misera n. 20: Siamo chiamati a far crescere una cultura della misericordia, basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri: una cultura in cui nessuno guarda all’altro con indifferenza né gira lo sguardo quando vede la sofferenza dei fratelli. Le opere di misericordia sono “artigianali”: nessuna di esse è uguale all’altra; le nostre mani possono modellarle in mille modi, e anche se unico è Dio che le ispira e unica la “materia” di cui sono fatte, cioè la misericordia stessa, ciascuna acquista una forma diversa.
Le opere di misericordia, infatti, toccano tutta la vita di una persona. E’ per questo che possiamo dar vita a una vera rivoluzione culturale proprio a partire dalla semplicità di gesti che sanno raggiungere il corpo e lo spirito, cioè la vita delle persone. È un impegno che la comunità cristiana può fare proprio, nella consapevolezza che la Parola del Signore sempre la chiama ad uscire dall’indifferenza e dall’individualismo in cui si è tentati di rinchiudersi per condurre un’esistenza comoda e senza problemi. «I poveri li avete sempre con voi» (Gv 12,8), dice Gesù ai suoi discepoli. Non ci sono alibi che possono giustificare un disimpegno quando sappiamo che Lui si è identificato con ognuno di loro.
La cultura della misericordia si forma nella preghiera assidua, nella docile apertura all’azione dello Spirito, nella familiarità con la vita dei santi e nella vicinanza concreta ai poveri. È un invito pressante a non fraintendere dove è determinante impegnarsi. La tentazione di fare la “teoria della misericordia” si supera nella misura in cui questa si fa vita quotidiana di partecipazione e condivisione. D’altronde, non dovremmo mai dimenticare le parole con cui l’apostolo Paolo, raccontando il suo incontro con Pietro, Giacomo e Giovanni, dopo la conversione, mette in risalto un aspetto essenziale della sua missione e di tutta la vita cristiana: «Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare» (Gal 2,10). Non possiamo dimenticarci dei poveri: è un invito più che mai attuale che si impone per la sua evidenza evangelica.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Misericordia io voglio e non sacrifici.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo...