25 Giugno 2018

Lunedì XII Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: «Togli prima la trave dal tuo occhio» (Vangelo).

Dal Vangelo secondo  Matteo 7,1-5: Nel Vangelo vi sono sentenze divine che come lampade, se accese, diventano luce per gli uomini. Una luce che condurrà l’uomo a un comportamento di stima verso il suo prossimo: non giudicate, non condannate, non siate arroganti, superbi o spocchiosi, non siate ipocriti … norme che se tolto il non diventano occhi puliti attraverso i quali vedere e amare il prossimo con intenzioni oneste e nella più sublime carità.

Bibbia di Navarra (Matteo): Gesù condanna qui i giudizi che formuliamo temerariamente nei confronti dei nostri fratelli, allorquando per leggerezza o malignità giudichiamo in maniera negativa la loro condotta, i loro sentimenti e le loro intenzioni. Il malizioso detto “chi pensa male non sbaglia” è in netto contrasto con l’insegnamento di Gesù Cristo.
San Paolo, parlando della carità cristiana, ne segnala queste eminenti caratteristiche: «La carità è paziente, è benigna [...] non tiene conto del male ricevuto [...]. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4.5.7). Perciò: «Non pensare mai male di nessuno. nemmeno se le parole o le opere di qualcuno te ne danno ragionevole motivo» (Cammino. n. 442).
«Non giudichiamo. - Ognuno vede le cose dal suo punto di vista ... e con la sua intelligenza, quasi sempre molto limitata, e con gli occhi accecati o annebbiati dalle tenebre della passione, molto spesso» (Cammino, n. 451).
vv. 1-2. Come in altri luoghi, i verbi in forma passiva (“sarete giudicati”, “sarete misurati”) hanno per agente Dio, quantunque non sia detto esplicitamente: «Non giudicategli altri e non sarete giudicati da Dio». È chiaro che il giudizio di cui qui si parla è sempre un giudizio di condanna; pertanto, se non vogliamo essere condannati da Dio, non dobbiamo condannare mai il prossimo. «Dio misura come noi misuriamo e perdona come noi perdoniamo; parimenti, viene in nostro soccorso nella maniera e secondo lo spirito coi quali noi soccorriamo» (Fra Luis De Leon, Comm. al libro di Giobbe, cap. 29).
vv 3-5. Chi ha la vista difettosa giudica difettose le cose, benché integre. Già sant’Agostino dava il seguente consiglio: «Cercate di acquisire le virtù che ritenete manchino ai vostri fratelli. e non vedrete più i loro difetti, perché sarete voi a non averli» (Enarrationes in psalmos. 30.2,7). In questo caso, il detto popolare “chi è ladro crede che tutti lo siano” si accorda pienamente con l’insegnamento di Gesù Cristo.
D’altro canto: «Far della critica, distruggere, non è difficile: il più rozzo manovale sa conficcare i suoi ferri nella pietra nobile e bella di una cattedrale. Costruire: questo è lavoro che richiede maestri» (Cammino, n. 456).

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): La similitudine della pagliuzza e della trave (vv. 3-4), più che al divieto di giudicare, si riferisce alla pretesa di rimproverare gli altri per i loro difetti. La consapevolezza delle proprie miserie e imperfezioni non consente d’essere severi e intransigenti con i fratelli, ma induce ad avvertire più acutamente il bisogno della misericordia di Dio per non staccarci dal suo amore. La sproporzione tra il nostro debito con Dio e quello dei fratelli verso di noi viene illustrato plasticamente più avanti, nella parabola del servo spietato (18,23-35). La parola-gancio «fratello» colloca questo testo nell’ambito intraecclesiale: esso concerne i rapporti interpersonali all’interno della comunità cristiana.

Giudicare – Liselotte Mattern: In molti passi del Nuovo Testamento si mette insistentemente in guardia dal giudicare, arrivando persino a proibirlo. S’intendeva con ciò mettere in questione per principio l’amministrazione profana della giustizia? Certo, i cristiani debbono cedere e non celebrare processi, soprattutto davanti a tribunali pagani. Ma il divieto neotestamentario di giudicare allude a qualcos’altro, va più in profondità: si riferisce al giudicare il proprio prossimo in assoluto. In 1Cor 4,3ss e Rm 14,3ss, per es., per Paolo questo giudicare significa in definitiva un intervento nel giudizio universale e con ciò stesso un’intromissione nei diritti di Dio. Questo si deduce dalla motivazione del divieto: 1. non è il ancora tempo di giudicare. Il tempo del giudizio è il tempo del ritorno di Cristo. 2. All’uomo viene contestato per principio il diritto di giudicare poiché a) lui stesso è colpevole davanti a Dio, e b) non ha il diritto di giudicare sul servo di un altro.
Ora, ogni cristiano è servo del suo Signore e pertanto responsabile soltanto nei suoi confronti. Se dunque un  cristiano giudica l’altro, si arroga il diritto di mettersi al posto di Dio. Anche le parole del discorso della montagna (Mt 7,1s) mettono insistentemente in guardia dal giudicare: il metro che uno usa ora nei confronti del fratello, sarà usato nei suoi riguardi nel giudizio universale. Accanto a questi divieti di giudicare, però, nel Nuovo Testamento si trovano anche delle affermazioni, secondo le quali non solo è permesso giudicare, ma addirittura questo è richiesto. Qualora i cristiani dovessero avere fra di loro delle cause giudiziarie, secondo Paolo non debbono rivolgersi a tribunali pagani, ma risolvere la questione fra di loro. La comunità di Corinto avrebbe dovuto giudicare già da tempo un pubblico peccatore e punirlo (1Cor 5,1ss). In 1Cor 11,28ss, Paolo rimprovera la comunità perché ha tralasciato di giudicare se stessa. E così Dio stesso ha dovuto giudicare e punire. In questi due passi il giudicare è un dovere della comunità e ai cristiani viene insistentemente comandato di giudicare. Questo comandamento viene motivato dicendo che il giudicare aiuta l’altro e lo preserva dalla condanna nel momento in cui Dio giudicherà i non-cristiani. Il comandamento non contraddice il divieto di giudicare: il giudicare è richiesto al cristiano quando con esso egli aiuta l’altro, gli rende un servizio. Il giudicare gli è invece severamente proibito quando con esso si vuole dominare l’altro; in questo caso il cristiano si mette al posto di Dio.

Amoris laetitia nn. 103-104: Se la prima espressione dell’inno (Inno alla carità, 1Cor 13,4-7; cfr. n. 90 - ndr) ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola - paroxynetai - che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.
Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: «Non lasciarti vincere dal male» (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Perciò, non bisogna mai finire la giornata senza fare pace in famiglia. «E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza, senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace!». La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: «Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore.

Evangelii gaudium n. 172: Chi accompagna sa riconoscere che la situazione di ogni soggetto davanti a Dio e alla sua vita di grazia è un mistero che nessuno può conoscere pienamente dall’esterno. Il Vangelo ci propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della malvagità oggettiva delle sue azioni (cfr Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua responsabilità e colpevolezza (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). In ogni caso un valido accompagnatore non accondiscende ai fatalismi o alla pusillanimità. Invita sempre a volersi curare, a rialzarsi, ad abbracciare la croce, a lasciare tutto, ad uscire sempre di nuovo per annunciare il Vangelo. La personale esperienza di lasciarci accompagnare e curare, riuscendo ad esprimere con piena sincerità la nostra vita davanti a chi ci accompagna, ci insegna ad essere pazienti e comprensivi con gli altri e ci mette in grado di trovare i modi per risvegliarne in loro la fiducia, l’apertura e la disposizione a crescere.

Quale fu il tuo giudizio su tuo fratello? Quello sarà il giudizio di Dio su di te - P. Guglielmo Alimonti: Questa è la prima affermazione di Gesù che io chiamerei “ammonizione”. Poi c’è l’altra, ecco: hai giudicato, adesso ti giustifichi dicendo che lo fai per correggere il tuo fratello, perché tu volendo eliminare il suo difetto, glielo indichi. Se tu vuoi correggere il prossimo guarda prima bene dentro di te; guarda, perché tu solo puoi farlo, la tua coscienza, leggi nei tuoi pensieri, computerizza le tue affermazioni, le tue parole; memorizzale, riflettici su, e anche le azioni che compi, se possibile, girale per ogni verso e vedi quali intenzioni hai avuto nell’operare. Sono state sempre buone le intenzioni, buone le azioni, buone le parole, buoni i pensieri, buoni i propositi, buoni i palpiti, i sentimenti del cuore? Vedi verso quale direzione è andato il movimento del tuo cuore, della tua mente, se ti vuoi ergere ad ammonitore del tuo prossimo, prima ammonisci te stesso. Facilmente ti capiterà di vedere grosso il difetto del tuo prossimo, piccolo il tuo. Il suo filo ti sembrerà una trave e la tua trave ti sembrerà meno di un filo. Tu che provi a giudicare non consolarti col dire che lo vuoi correggere. Intanto questo discorso si riferisce al giudizio a cui non siamo chiamati. Non siamo tenuti al giudizio gratuito e spesso anche malevolo. Della correzione fraterna si parlerà nel capitolo diciottesimo dove Gesù ci insegna a correggere quando la carità ci obbliga, quando la necessità lo richiede, per evitare danni. Qui si rimprovera colui che si produce in giudizio gratuito e spesso anche severo. Allora se vuoi essere giudice, siilo prima di te stesso; se vuoi essere correttore, prima siilo di te stesso.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il Vangelo ci propone di correggere e aiutare a crescere una persona a partire dal riconoscimento della malvagità oggettiva delle sue azioni (cfr Mt 18,15), ma senza emettere giudizi sulla sua responsabilità e colpevolezza (cfr Mt 7,1; Lc 6,37).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua guida coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...