22 Maggio 2018

Martedì VII Settima Tempo Ordinario


Oggi Gesù ci dice: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo » (Gal 6,14 - Acclamazione al Vangelo).  

Dal Vangelo secondo Marco 9,30-37: Marco presenta la missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio. Un progetto che necessariamente deve passare attraverso la croce e la morte del Figlio di Dio. Un discorso che risulta ostico agli stessi Apostoli. È da sottolineare il verbo consegnare. Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: «per la loro salvezza Dio “consegna” Gesù nelle loro mani. Gesù, infatti, non è stato tradito ... solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato “consegnato” a morte da Dio stesso. Gesù non è stato ucciso [nel senso teologico] dai contemporanei [anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte], ma dalle “mani” di ogni uomo [= dai suoi peccati] alle quali Dio ha consegnato Gesù» (Don Primo Gironi).

Il Figlio dell’uomo... - Durante il viaggio in Galilea, Gesù istruisce i discepoli sulla sua missione salvifica che si sarebbe conclusa a Gerusalemme, crocifisso su una croce. L’immagine richiama i discepoli di Aristotele che venivano chiamati peripatetici per la loro consuetudine di passeggiare nel giardino del Liceo durante le lezioni.
Gesù non vuole che «alcuno lo sapesse»: questo ordine, anche se è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico», deve essere visto come il desiderio, da parte del Maestro, di evitare l’assedio della folla che gli avrebbe impedito di stare un po’ con i suoi.
Ormai la sua vita pubblica volge al termine e la sua morte cruenta è a un passo: il diavolo (Lc 4,13) e i nemici del giovane Rabbi di Nazaret stanno affilando le armi per l’ultimo, decisivo assalto.
Gesù è consapevole di tutto questo, non è affatto turbato, ma si premura di istruire «tutti i suoi discepoli», coloro che avrebbero dovuto continuare la sua opera di salvezza nel mondo (2Ts 2,4).
Non vuole che la sua morte orrenda, maledetta dalla Legge (Gal 3,13; cf. Dt 21,23), colga gli Apostoli impreparati. Non vuole che la sua morte frantumi la loro debole fede. Non vuole che la sua morte, a motivo della loro estrema debolezza, possa gettarli tra gli artigli di satana (cf. Lc 22,31). Vuole che la sua morte sia invece un messaggio di speranza, una porta spalancata sulla vita. Ecco perché vuol stare solo con i suoi discepoli: li vuole istruire fin nei più minuti dettagli perché comprendano, perché accettino la volontà del Padre.
«Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini...», è un’espressione biblica «che indica una prova tremenda, in cui il malcapitato può aspettarsi qualunque crudeltà e non può neppure far appello alla pietà o alla misericordia come farebbe con Dio [cf. Mc 14,41; 2Sam 24,14; Sir 2,18]» (ADALBERTO SISTI, Marco).
Lo uccideranno, è il secondo annuncio che Gesù fa della sua imminente morte, ma i discepoli «non comprendevano» ancora. Capivano le parole, ma aggrappati com’erano a un messianismo rivoluzionario, non potevano comprendere il vero senso del discorso. Avevano paura di interrogarlo, di «chiedergli spiegazioni». Temevano che Gesù fugasse per sempre quelle esili certezze alle quali si erano abbarbicati nella speranza di aver capito male, di aver forse frainteso. In verità, non riuscivano ad entrare dentro gli ingranaggi del progetto salvifico: non riuscivano a capire perché la salvezza dell’uomo doveva passare necessariamente attraverso la morte del Verbo di Dio.
Pur tuttavia, forse per scacciare questi timori, pesanti come macigni, dribblando le argomentazioni del Maestro, gli Apostoli, per via si infervorano a discutere «tra loro chi fosse il più grande». Forse pensavano ai seggi da occupare nel regno di Gesù, ma la loro non è rozzezza perché questi discorsi nei loro paesi da sempre animavano riunioni o convìvi.
Colti in fallo, arrivati a Cafarnao, forse in casa di Pietro, Gesù approfitta del fatto per dare loro una lezione di vita cristiana. Sedutosi, è la postura del maestro nell’atto di insegnare (cf. Mt 5,1), chiama i Dodici: Gesù restringe il cerchio ai soli Dodici perché sono loro che devono assimilare fin in fondo il suo insegnamento e viverlo integralmente poi nel loro ruolo di «colonne della Chiesa» (Gal 2,9).
Gesù ancora una volta rovescia i modelli sui quali tanti maestri avevano costruito l’identikit del vero figlio della Legge (cf. Lc 15,25-32).
Nella casa di Pietro la persona che veramente conta non è il mercenario o chi abusa del potere: «Esorto gli anziani... pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-3). Nella casa di Pietro il primo è colui che si fa servo, non chi dà ordini a destra e a manca; chi sa piegare le ginocchia e, come l’ultimo sguattero della terra, mettersi a lavare i piedi dei suoi amici e dei suoi nemici: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).
Poi, la seconda manovra, il porre un bambino in mezzo a loro, spiazza del tutto gli Apostoli. I bambini sono i membri più deboli della comunità cristiana, i più bisognosi e i più dimenticati. Di essi deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile gemente sotto il dominio del peccato

Gesù e i piccoli - Giuseppe Manzoni (Bambini in Schede Bibliche): Il vaticinio di Isaia è diventato realtà quando il Verbo di Dio si fece carne e volle nascere bambino a Betlemme (Lc. 2,7), e bambino fu adorato dai pastori e dai magi, e bambino fu circonciso e presentato al tempio (Lc. 2,22-36), quasi anticipato offertorio della sua passione. Bambini furono anche i primi martiri, associati per la crudeltà di Erode al Martire divino (Mt. 2,16-18). È soprattutto Luca l’evangelista dell’infanzia di Gesù; ma in tutto l’insegnamento di Cristo c’è un mirabile vangelo dell’infanzia. È nota la predilezione di Gesù per i bambini: è la tenerezza stessa di Dio che si manifesta con delicata sensibilità umana. Non vuole che i discepoli li allontanino da lui, anzi li abbraccia e li benedice, imponendo loro le mani (Mc. 10,13-16 - L’imposizione delle mani era per gli ebrei un gesto di benedizione cf. Gen 48,14-20). È beato chi accoglie uno di quei piccoli in nome suo: accogliere un bambino è come accogliere Cristo stesso (Lc. 9,46-48); ma guai a chi scandalizza o disprezza uno di questi innocenti: «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi che credono in me, sarebbe bene per lui che gli si appendesse una macina d’asino al collo, e lo si gettasse negli abissi del mare ...» (Mt. 18,6-10).
Fra questi «piccoli» che il Padre non vuole che vadano perduti (Mt. 18,14), oltre agli apostoli, Gesù vede i fanciulli, i poveri, gli indifesi, gli abbandonati ai margini della società e della vita; di essi ha detto Gesù di ritenere come fatto a sé il bene fatto al più piccolo dei suoi fratelli (Mt. 25,40).
Ma la predilezione di Gesù per i piccoli risale ad un motivo ancor più profondo e interiore: l’infanzia spirituale è una condizione di santità perché infrange il più grave ostacolo alla medesima: l’orgoglio. L’infanzia spirituale è una delle dottrine più rivoluzionarie di Cristo. Il suo è uno spirito d’infanzia! Durante un viaggio in Galilea, Gesù aveva rattristato i suoi discepoli predicendo per la seconda volta la sua passione (Mc. 9,30-37); ma essi non avevano compreso nulla, dominati dalla meschina ambizione di chi fosse il primo fra loro: di questo avevano animatamente discusso fra loro lungo la via. Arrivati a Cafarnao, Gesù li interroga sulle loro discussioni. Gli apostoli rispondono con il silenzio. Allora Gesù, con un rovescio di mano, spazza via tutte le false grandezze. Il bambino, che non si dà importanza, che è umile, che accetta di dipendere e di ricevere da tutti: ecco il modello per entrare nel regno di Dio (Mc. 9,33-35; Mt. 18,2-4; Mc. 10,14-15).
L’esigenza dell’infanzia spirituale, di farsi cioè piccoli e umili, per degli uomini adulti appare a prima vista paradossale. Gli apostoli rimangono disorientati, ma non hanno parole per obiettare. Le trova invece un dottore della Legge, cosciente del suo valore, Nicodemo: come può un uomo, già adulto, rinascere? (Gv. 3,3-7.9-10).
Ecco l’obiezione più grave di un uomo fatto, contro l’infanzia spirituale: perché esigere da un adulto le qualità di un fanciullo? Gesù però non muta la sua dottrina: bisogna fidarsi di lui con la semplicità dei «piccoli» che credono alla sua parola (Mt. 18,6; 1Pt. 1,3.22-23): «Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza, se avete gustato come è buono il Signore» (1Pt. 2,2-3). A loro infatti, se nella vita conservano lo spirito d’infanzia, il Padre si compiace di rivelare i misteri divini: «In quello stesso istante esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai semplici! Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te...” » (Lc. 10,21).
È la realizzazione messianica dell’invito: «Se qualcuno è piccolo venga a me», nell’abbandono e nella dipendenza totale, nel vuoto di sé e del proprio egoismo, per accettare la pienezza dell’amore. Le vie di Dio sono sconvolgenti per le prospettive umane, come costata san Paolo: Dio sceglie ciò che è stolto e debole per il mondo, per confondere i sapienti e i forti, e perché nessuno si vanti innanzi a Dio! (1Cor. 1,27-29).

“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti. Con una simile esortazione Gesù non rivolge ai Suoi solamente il rimprovero di mancata umiltà ma afferma che la condizione indispensabile per raggiungere il traguardo tanto ambito della superiorità e della grandezza risiede nell’umiltà e nel servizio. Chi nella vita professionale, comunitaria o familiare non è in grado di obbedire e di restare sottomesso, difficilmente si realizzerà. Essere a capo di qualcosa non è comandare, ma è essere chiamato alla responsabilità, al servizio e alla disponibilità verso gli altri. Siamo su una strada sbagliata, se non viviamo l’umiltà e se non ci sforziamo di accrescerla in noi, nonostante le contrarietà della mentalità comune, e nonostante le difficoltà personali nel praticarla. Occorre però fare attenzione a non confondere l’umiltà con la sfiducia verso se stessi e le proprie capacità. L’umile è colui che sa riconoscere i doni che Dio gli ha concesso e li sa mettere a disposizione per il bene comune, non colui che dice di non saper fare e si nasconde sempre dietro le ‘colonne’. O Gesù, donaci di riscoprire la virtù dell’umiltà che ci fa grandi, anche se restiamo piccoli.” (Fonte: figlidellaluce).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** L’umile è colui che sa riconoscere i doni che Dio gli ha concesso e li sa mettere a disposizione per il bene comune, non colui che dice di non saper fare e si nasconde sempre dietro le ‘colonne’.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Il tuo aiuto, Padre misericordioso, ci renda sempre attenti alla voce dello Spirito, perché possiamo conoscere ciò che è conforme alla tua volontà e attuarlo nelle parole e nelle opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo...