29 Aprile 2018

V Domenica di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Giovanni 15,1-8: Il brano evangelico è nella seconda parte del Vangelo di Giovanni e fa parte dei discorsi dell’addio di Gesù ai suoi discepoli. Gesù è la vera vite, il padre il vignaiolo, i discepoli i tralci: al di là delle immagini, Giovanni vuol suggerire che la fecondità dei discepoli, «io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16), dipende dalla conoscenza del Signore e dal loro rapporto di comunione con la vera vite.


Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): Io sono la vite vera; io sono ...  è la nota formula di rivelazione che ricorre di frequente nel quarto vangelo (cf.: io sono la luce del mondo; io sono il pane di vita, ecc.). L’insegnamento che Gesù propone con l’immagine della vite (versa, 1-6) contiene elementi allegorici ed elementi parabolici; tuttavia nel racconto prevalgono gli elementi allegorici. La vite richiama l’immagine della vigna, immagine molto usata, particolarmente dai profeti, per illustrare le relazioni tra Israele, il popolo eletto, e Jahweh suo Dio (cf. Osea, 10,1-2; Isaia, 5,1-7; 27,2-5; Geremia, 2,21-22; 12,1-11; Ezechiele, 15,1-8; 17,5-10; 19,10-14; Salmo, 80 [79],9-17); tuttavia l’immagine della vigna, nei testi indicati, serve a mettere in luce il contrasto tra l’amore di Dio per Israele e l’incorrispondenza di questo popolo. Israele è una vigna che ha deluso le aspettative di Dio e che non ha dato il raccolto atteso; di conseguenza questo popolo sarà punito con l’abbandono e la rovina. La formula usata da Cristo si ricollega alle formule che ricorrono nei libri sapienziali. L’Ecclesiastico applica il simbolo della vite alla Sapienza divina ed invita gli uomini ad andare a nutrirsi dei suoi frutti (cf. Ecclesiastico, 24,17,18,20). Il Salvatore impiega l’immagine della vigna per strutturarne una parabola del regno dei cieli (cf. Mt., 20,1-8; 21,28-31,33-41; Mc., 12,1-12; Lc., 20, 9-19) e trae dal frutto della vite» l’Eucaristia, il sacrificio della Nuova Alleanza (Mt., 26,29; Mc., 14,25; Lc., 22,16).
La novità dell’immagine usata nel presente testo consiste nell’affermazione che Gesù è la vite vera. Dallo sviluppo del racconto si vedrà come questa vite è una vite che comunica la vita; in tal modo la formula che ricorre sulle labbra del Maestro richiama l’altra nella quale egli afferma: Io sono il pane della vita (Giov., 6,35). Il Padre mio è l’agricoltore; noi avremmo detto: vignaiolo; in Palestina, data l’estensione della cultura della vite, ogni agricoltore era vignaiolo, doveva cioè occuparsi della vigna·


Io sono la vera vite - La vite nel mondo agricolo palestinese occupava un posto di estremo valore esistenziale: per il popolo significava innanzi tutto un segno della predilezione e delle benedizioni divine: «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere» (Qo 9,7). Ma voleva dire anche benessere economico, sicurezza e quindi allegrezza, gioia, serenità di vita: «Per stare lieti si fanno banchetti e il vino allieta la vita» (Qo 10,19).
Da qui la vigna passò ad indicare immagini ora dal sapore poetico ora dal valore simbolico.
Il suo squisito frutto, il vino, è l’amabile bevanda che la sapienza offre ai suoi adepti-amici: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Sap 9,5). È il dolce liquore che fa dimenticare agli infelici affanni e pene: «Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore. Beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene» (Pro 31,6-7; cfr. Mt 27,34).
Se il vino bevuto «a tempo e misura» è «allegria del cuore e gioia dell’anima», è «amarezza dell’anima» se bevuto «in quantità, con eccitazione e per sfida» (Sir 31,28-29).
In molti testi veterotestamentari, la scarsità del raccolto o la cattiva qualità del vino sta ad indicare il giudizio e la collera di Dio verso Gerusalemme a motivo dei suoi peccati: «Come mai è diventata una prostituta la città fedele? Era piena di rettitudine, la giustizia vi dimorava; ora invece è piena di assassini! Il tuo argento è diventato scoria, il tuo vino migliore è diluito con acqua» (Is 1,22).
La miseria agricola segue al giudizio di Dio: «Il fico infatti non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo» (Ab 3,17).
La vigna, come segno di benedizione, sopra tutto nei Profeti, diventa il simbolo del popolo d’Israele: «Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti» (Is 5,1-2). Ma poiché la vigna-Israele aveva prodotto «uva selvatica», dal Signore sarà trasformata in pascolo e calpestata dai suoi nemici. Questo tema, della vigna-Israele scelta poi rigettata, già preparato da Osea (10,1), sarà ripreso da Geremia (Ger 2,21; 5,10; 6,9; 12,10).
A motivo dell’idolatria del popolo la punizione del Signore sarà durissima e repentina. Dio ha abbandonato al suo destino Israele, da lui «scelto come vigna scelta, tutta di vitigni genuini» (Ger 2,21); gli invasori invaderanno il paese e devasteranno la vigna: «Salite sui suoi filari e distruggeteli, compite uno sterminio; strappatene i tralci, perché non sono del Signore» (Ger 2,10).
Pur tuttavia, «sebbene i profeti abbiano utilizzato la vigna come immagine che serviva ad esprimere con forza e vivacità poetica il castigo divino, l’immagine rimaneva comunque aperta ad un ulteriore sviluppo che, sulla linea del Salmo 80, si sarebbe operato in un orizzonte di speranza e di salvezza» spingendo in questo modo «il credente a guardare in avanti, verso quel futuro nel quale rifulgerà in tutta la sua pienezza l’azione imprevedibile, ma sempre amorosa, di Dio» (G. Odasso).
Effettivamente, nella pienezza del tempo (Gal 4,4), queste promesse incontreranno in Gesù, perfettissimo Amen del Padre (2Cor 1,10), la loro insospettata realizzazione.


Rimanete in me: Il rimanere in lui non è una realtà statica, avvenuta una volta per sempre nel battesimo, ma una realtà dinamica: occorre lasciarsi «potare» dal Padre, ossia è un cammino di conversione che non conosce sosta, un rinnovamento che conosce tutte le tappe della vita, una scelta da verificare e rinnovare continuamente. In questo modo si diviene discepoli di Gesù e si glorifica il Padre.
Una vita cristiana infruttuosa, doppia, attraversata dalle tenebre della menzogna, appesantita dall’inerzia e dall’indolenza, si apre inesorabilmente all’impotenza, che è preludio di morte. Una vita insipida a null’altro serve che ad essere gettata via e calpestata dagli uomini (cf Mt 5,13); un’esistenza siffatta è infeconda e non ha scampo: il tralcio infruttuoso è tagliato e gettato nel fuoco. I credenti, invece, proprio perché sono uniti alla Vite, sono predisposti alla potatura perché portino più frutto; inoltre, sono già mondi per la Parola, la quale purifica mediante la fede.
Quindi, il portare frutto è la premessa e nello stesso tempo la conseguenza del rimanere in Cristo.
Ma che significa portare frutto? Come si rimane in Cristo? A queste domande, l’apostolo Giovanni, nella seconda lettura, da una risposta molto esauriente e inappellabile.
Portiamo frutto e restiamo in Lui se amiamo non a parole né con la lingua, ma con i fatti.
Dimoriamo e rimaniamo in Dio se osserviamo i suoi comandamenti, in particolare quello che concerne l’amore e l’effettiva solidarietà con i propri fratelli e conosciamo che Dio dimora in noi dallo Spirito che ci è stato dato.
Se pratichiamo ciò che è a lui gradito e conforme alla sua volontà, otteniamo qualunque cosa nella preghiera; infatti, che possono “chiedere i fedeli se non quanto a Cristo è bene accetto? Che cosa possono volere, se restano uniti al Salvatore, se non ciò che non oppone alla loro salvezza? ...
Rimanendo dunque noi in Lui e in noi restando le sue parole, potremo chiedergli qualunque cosa, ed egli la compirà in noi” (Ruperto di Deutz).
Portare frutto significa, allora, cercare ciò che piace al Padre, fare la sua volontà come ci è stata manifestata nel Cristo: e questa è la volontà di Dio, la nostra santificazione, che ci asteniamo dall’impudicizia (cf 1Tess 4,3.7). Il frutto che il Padre cerca in noi “è la santità di una vita fecondata dall’unione con Cristo. Quando crediamo in Gesù Cristo, comunichiamo ai suoi misteri e osserviamo i suoi comandamenti, il Salvatore stesso viene ad amare in noi il Padre suo ed i suoi fratelli, Padre nostro e nostri fratelli. La sua persona diventa, grazie allo Spirito, la regola vivente ed interiore della nostra condotta: «Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati» [Gv 15,12]” (CCC, n. 2074).
Appoggiandosi sull’amore di Dio, il credente non teme nulla (cf Rm 8,28-39), nemmeno il giudizio della propria coscienza, perché nell’amore “non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,18).


D. M. Turoldo - G. Ravasi (Opere e Giorni del Signore): Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo sono essenziali per la fecondità dei frutti: non per nulla il quarto vangelo ripete nella sezione ben cinque volte l’espressione «in me», Il rimanere in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere un senso e possa sopravvivere. Se il fedele si stacca da Gesù, è condannato alla perdizione: il v. 6 che contiene questa dichiarazione non ha solo valore futuro. Infatti per Giovanni la salvezza è già iniziata con l’incarnazione del Cristo; già ora l’uomo decide il suo destino. Dietro il simbolo del tralcio secco e arido, perso ai bordi del campo, c’è il mistero del rifiuto che l’uomo può opporre alla vita e all’amore, c’è la vicenda del confronto tra la luce e le tenebre.
Ma i tralci rigogliosi e verdeggianti, che inco­ronano il corpo di Cristo che è la chiesa, conoscono anche il momento della potatura (v. 2). È la purificazione necessaria che Dio compie per avere una chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27): la fede non è data una volta per sempre, ma è una realtà viva come l’amore ed esige una continua crescita e una continua liberazione da scorie e limitazioni. La purificazione può avvenire anche attraverso la dolorosa esperienza della persecuzione e della prova.


Siamo arrivati al terminePossiamo mettere in evidenza:
*** Rimanete in me e io in voi, dice il Signore, chi rimane in me porta molto frutto. (Gv 15,4a.5b)   
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché, amandoci gli uni gli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo...