24 Aprile 2018

Martedì IV Settimana di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27).


Dal Vangelo secondo Giovanni 10,22-30: Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente: chi vola basso non vedrà mai il cielo, chi non abbandona la carne e il sangue (Mt 16,17)  non potrà entrare nel mistero del Cristo. I Giudei avevano tutto, prove inoppugnabili, morti risuscitati, paralitici risanati, lebbrosi purificati, ciechi che avevano ricuperato la vista, muti la favella, sordi l’udito..., eppure non capivano ancora. L’evangelista svela il perché: non avevano fede, e non erano pecore di Cristo. Due condizioni necessarie perché vengano nettati gli occhi dell’anima, e aprirsi alla luce folgorante della rivelazione: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio (Mt 16,16; Gv 6,69).


... se tu sei il Cristo: CCC 436: Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico «Messia» che significa «unto». Non diventa il nome proprio di Gesù se non perché egli compie perfettamente la missione divina da esso significata. Infatti in Israele erano unti nel nome di Dio coloro che erano a lui consacrati per una missione che egli aveva loro affidato. Era il caso dei re, dei sacerdoti e, raramente, dei profeti. Tale doveva essere per eccellenza il caso del Messia che Dio avrebbe mandato per instaurare definitivamente il suo Regno. Il Messia doveva essere unto dallo Spirito del Signore, ad un tempo come re e sacerdote ma anche come profeta. Gesù ha realizzato la speranza messianica di Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re.


Gesù ha accettato il titolo di Messia cui aveva diritto, ma non senza riserve...: Catechismo della Chiesa Cattolica 438: La consacrazione messianica di Gesù rivela la sua missione divina. «È, d’altronde, ciò che indica il suo stesso nome, perché nel nome di Cristo è sottinteso colui che ha unto, colui che è stato unto e l’unzione stessa di cui è stato unto: colui che ha unto è il Padre, colui che è stato unto è il Figlio, ed è stato unto nello Spirito che è l’unzione». La sua consacrazione messianica eterna si è rivelata nel tempo della sua vita terrena nel momento in cui fu battezzato da Giovanni, quando Dio lo «consacrò in Spirito Santo e potenza» (At 10,38) «perché egli fosse fatto conoscere a Israele» (Gv 1,31) come suo Messia. Le sue opere e le sue parole lo riveleranno come «il Santo di Dio». Numerosi ebrei ed anche alcuni pagani che condividevano la loro speranza hanno riconosciuto in Gesù i tratti fondamentali del «figlio di Davide» messianico promesso da Dio a Israele. Gesù ha accettato il titolo di Messia cui aveva diritto, ma non senza riserve, perché una parte dei suoi contemporanei lo intendevano secondo una concezione troppo umana, essenzialmente politica.


Le mie pecore ascoltano la mia voce ... Io do loro la vita eterna - Gesù pronunzia queste parole nel tempio di Gerusalemme, nella festa della Dedicazione (Cf. Gv 10,22). Celebrata il 25 di Chisleu del 148, corrispondente al 15 dicembre del 164 a.C. (Cf. 1Mac 4,41-51; 2Mac 1,19), la festa commemorava la riconsacrazione dell’altare del tempio dopo la profanazione dell’esercito seleucida del 167 a.C. Presso gli Ebrei è ricordata con il nome originario di Hanukkà ed è celebrata ancora oggi.
Gesù è il buon Pastore, i credenti sono le pecore che ascoltano la voce del Pastore: l’ascolto è il sigillo che contrassegna l’appartenenza al gregge di Cristo, Parola di Dio, fatta Carne (Cf. Ap 19,13; Gv 1,14). Ascolto è sinonimo di accoglienza attenta e obbediente della Parola che in questo modo diventa guida, «luce ai passi» del credente (Sal 119,105).
L’ascolto è la caratteristica del discepolo cristiano e chi «ascolta la voce di Gesù, lo segue [...]. Mettersi dietro le orme di questa guida significa percorrere tutto il tragitto da lui compiuto per giungere alla vetta del Calvario. Il buon Pastore infatti si mette alla testa del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna, attraverso il cammino della croce e della rinuncia» (Salvatore Alberto Panimolle).
Un cammino che va percorso fino in fondo e che non esclude, nel suo bilancio, il martirio per il Signore e il Vangelo (Cf. Ap 7,14).
Gesù-Pastore conosce le sue pecore: una conoscenza che supera il campo dell’intelletto e sconfina nell’amore (Cf. Os 6,6; 1Gv 1,3).
Nel vangelo di Giovanni «conoscenza e amore crescono insieme, per cui è difficile dire se l’amore è il frutto della conoscenza o la conoscenza è frutto di amore [...]. L’amore è unito alla conoscenza quando il rapporto tra Gesù e il Padre è descritto come una reciproca conoscenza [Gv 7,29; 8,55; 10,15). La stessa reciproca conoscenza è il vincolo tra Gesù e i suoi discepoli [Gv 10,14ss]» (John L. McKenzie).
Questa profonda intimità genera nel cuore dei credenti il frutto della vita eterna: essendo stati «rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23), i credenti gustano la gioia della vita eterna già d’adesso, nelle pieghe di una quotidianità a volte impastata di peccato e di acute contraddizioni.
Questa intensa comunione di amore con il Cristo sarà portata perfettamente a compimento nel Regno dei Cieli: solo nel Regno i credenti, strappati dalla contingenza della vita terrena, non «avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna... Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,16-17).
In attesa di questi beni, la comunione amorosa con il Buon Pastore dona ai discepoli già ora pace, serenità e sicurezza.
«Colui che si affida a Gesù con la fede trova in lui quella sicurezza assoluta che non trova mai in alcuna sicurezza o protezione umana. In lui infatti è presente il potere divino. Lo stesso potere viene poi attribuito al Padre e la stessa sicurezza proviene dalla certezza che “ciò che mi ha dato” [Cf. 6,36-40] nessuno lo può rapire dalla mano del Padre [Cf. Is 43,13; Sap 3,1). In questi due versetti 28-29 si riflette la serena esperienza della comunità giovannea che si sentiva il gregge protetto dal Figlio di Dio e che nessuno poteva rapire: né le persecuzioni [16,4] né le eresie [1Gv]» (Giuseppe Segalla).
Questa sicurezza è significata anche dalle parole di Gesù che rivelano l’identità di sostanza tra lui e il Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola».
In questo modo i credenti vicini al Cristo sentono una sicurezza assoluta e totale. Nessuno li strapperà dalle mani del Cristo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...]. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,35-39).
I discepoli di Cristo devono solo temere il peccato che li seduce a trovare altre strade, lontane dal percorso del gregge guidato da Cristo.


Gesù il «Buon Pastore» -  Roberto Tufariello (Pastore in Schede Bibliche Pastorali, Vol. VI, Ed. Dehoniane - Bologna): Anche il Nuovo Testamento dimostra di conoscere la professione pastorale, sia perché i pastori sono tra i primi attori del racconto della nascita del Salvatore (Lc 2,8-20), sia perché le similitudini che analizzeremo lasciano trasparire una perfetta conoscenza delle abitudini pastorali (Cf. Gv 10,1-18.26-29; Lc 15,4-6; Mt 18,12-13). La preoccupazione comunque nel Nuovo Testamento non è di rendere edotti i lettori sulla vita dei pastori e la loro professione, ma di mostrare come le profezie messianiche sul pastore si siano perfettamente realizzate in Cristo.
È il Vangelo di san Giovanni che estesamente ed espressamente si preoccupa di mettere in luce la figura di Gesù buon pastore; ma anche i sinottici,  attraverso frequenti accenni, la lasciano palesamente trasparire. Gesù si considera innanzitutto il pastore (Mt 2,6; Mi 5,2) inviato per riunire le pecore disperse d’Israele (Mt 15,24; Lc 19,10; Mc 6,34).
I suoi discepoli sono un piccolo gregge indifeso in mezzo a un branco di lupi (Mt 10,16), i quali, travestendosi da agnelli (Mt 7,15), si confonderanno nel gregge, uccideranno il pastore e disperde­ranno le pecore (Mt 26,31). Ma il pastore risorgerà e ricostituirà il suo gregge continuando a governarlo dal santuario eterno fino al giorno in cui si ripresenterà a giudicare le sue pecore  (1Pt 5,4), separando queste dai capri (Mt 25,31-32), e premiando ciascuno secondo i propri meriti.
Queste immagini pastorali presenti nei sinottici trovano la loro massima espressione nella pericope giovannea del buon pastore (Gv 10). Il brano mostra una fedele descrizione di alcune abitudini pastorali. In Palestina i pastori sono soliti radunare più greggi, durante la notte, in un unico ovile circondato da mura e custodite. Chi, per entrare nell’ovile, ha bisogno di scavalcare il muro di cinta, non può essere che un ladro. Il pastore si fa infatti aprire la porta dal guardiano e chiama personalmente le sue pecore, che, conosciuta la voce, lo seguono. Le pecore si alzano e si mettono in movimento per uscire dall’ovile solamente se sono chiamate dalla voce familiare del loro pastore; rimangono invece immobili quando uno straniero o un altro pastore le chiama (Gv 10,1-5).
Questa descrizione tipicamente pastorale serve da base a Gesù per l’insegnamento dei versetti successivi. Innanzitutto egli afferma categoricamente di essere la porta dell’ovile. Se dunque è la porta, tutti coloro che prima di lui si sono presentati come messia, non possono essere stati che ladri.
Chi entrerà invece nel recinto dopo Gesù e attraverso di lui, sarà un vero pastore e potrà pascolare le sue pecore con autorità (Gv 19,6-9). Nei versetti 11-15, preparati dal versetto precedente, Gesù si definisce il buon pastore; ma egli non si accontenta di parole vaghe e diversamente interpretabili, però specifica chiaramente l’entità e la misura della sua bontà in quanto pastore.
Il buon pastore è colui che dà la vita per le sue pecore; che ama cioè le sue pecore più di se stesso, ed è disposto a sacrificarsi per il suo gregge. Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri fratelli (Gv 15,13). Gesù conosce (ama) le sue pecore e le sue pecore non possono fare a meno di ricambiare il suo amore. Tra il pastore e le pecore intercorre lo stretto rapporto amoroso esistente tra Gesù e il Padre, e viceversa.
Il discorso di Gesù continua; e perché le sue affermazioni non siano comprese in senso particolaristico, e possano costituire un privilegio esclusivo per il popolo ebraico, egli afferma chiaramente di avere altre pecore che non appartengono ancora al suo ovile, ma che egli chiamerà affinché si faccia un solo ovile e un solo pastore (Gv 10,16). A questo punto non ci sono più dubbi: il messia pastore, annunciato dai profeti, non può essere che Gesù, mandato a  riscattare il gregge di Jahvé, a condurlo con amore, e a farlo pascolare nei prati eternamente verdi (Gv 10,26-29; Ap 7,17).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Gesù-Pastore conosce le sue pecore: una conoscenza che supera il campo dell’intelletto e sconfina nell’amore.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa:  Dio Padre onnipotente, che ci dai la grazia di celebrare il mistero della risurrezione del tuo Figlio, concedi a noi di testimoniare con la vita la gioia di essere salvati. Per il nostro Signore Gesù Cristo...