IL PENSIERO DEL GIORNO

3 Febbraio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27).


Dal Vangelo secondo Marco 6,30-34: Alla malvagità dei pastori, della prima lettura (Ger 23,1-6), il Vangelo contrappone la compassione di Gesù. La pericope marciana presenta Gesù mentre compie i suoi primi viaggi dentro e fuori i confini della Galilea. Questi movimenti sono scanditi da catechesi e interventi prodigiosi. I Dodici assumono sempre più l’identità di Chiesa che si raccoglie attorno a Gesù suo pastore messianico.


 Venite in disparte - Il testo del vangelo di oggi, considerato da alcuni solo un brano di transizione, introduce una sezione che va sotto il nome di «sezione dei pani», chiamata così perché ricorre spesso la parola «pane» (Cf. Mc 6,31-8,21). Gli apostoli, precedentemente inviati (Mc 6,7), di ritorno dalla missione, riferiscono al Maestro «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30): Gesù «rimane al centro di tutta la loro attività. Li aveva inviati e ora tornano a rendergli conto del loro lavoro, a fare il punto con lui, come servi presso il padrone» (I quattro vangeli commentati).
È importante la sottolineatura «tutto quello che avevano fatto» che precede «quello che avevano insegnato»: l’insegnamento deve essere reso valido dalla coerenza della condotta.
«La predica - suggerisce sant’Antonio di Padova - è efficace, ha una sua eloquenza, quando parlano le opere... “Una legge, dice Gregorio, si imponga al predicatore: metta in atto ciò che predica”. Inutilmente vanta la conoscenza della legge colui che con le opere distrugge la sua dottrina».
Gli apostoli avevano scacciato i demoni, guarito gli infermi e avevano predicato la conversione (Mc 6,12-13): fare e insegnare, le stesse cose che compie Gesù ora diventano mandato e primario impegno degli apostoli. La Chiesa primitiva è chiamata a riconoscere proprio in questa attività, ancorata al ministero di Gesù e degli apostoli, il compito fondamentale della sua attività di evangelizzazione. 
Gesù invita gli apostoli a farsi in disparte con lui e a «riposare». Questa chiamata in un luogo in disparte non è una fuga, ma il tentativo di ritrovare un po’ di pace e di intimità in quanto la folla, che seguiva Gesù fin dagli inizi della sua predicazione, li pressava da ogni parte e non lasciava loro «neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31; Cf. Mc 1,33.37.45; 2,2; 3,20.32; 4,1; 5,21.31).
Il tema del riposo, caro all’Antico Testamento e che richiama l’ingresso del popolo eletto nella Terra promessa (Cf. Dt 3,20; 12,10; 25,19; Gs 1,13.15), indica la partecipazione al sabato eterno, alla vita stessa di Dio (Cf. Eb 3,11-18; 4,3-11). Nel brano di Marco, anticipa l’immagine di Gesù come ‘buon pastore’ (Gv 10,1ss) che concede il riposo alle sue pecore (Cf. Is 65,10; Ez 34,15; Sal 22,2).
Gesù invita ad appartarsi in un luogo solitario, questo luogo potrebbe far pensare al «deserto».
Nella sacra Scrittura, il deserto è il luogo ideale dove Dio parla al cuore dell’uomo: il luogo «ove l’aria è più pura, il cielo più aperto, e Dio più familiare ... per riposarsi nella preghiera, vivere con gli Angeli e per invocare il Signore e sentirlo rispondere: “Ecco sono qui” [Es 33,4]» (Origene).
Ritirarsi con Gesù in un luogo desertico è esigenza essenziale e vitale per ogni comunità missionaria come lo era per Gesù che spesso si ritirava in intima comunione con il Padre. È importante che «Gesù e i Dodici abbiano il tempo per riposarsi, pregare, prender le distanze rispetto alla loro attività e ritrovarsi insieme. Si noti questa sollecitudine molto umana di Gesù. Il riposo, la distensione e anche il tempo di riflessione e di ripresa sono indispensabili a ogni uomo, compresi gli operai del Vangelo» (I quattro vangeli commentati).
Ma molti «però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero» (Mc 6,33). Questa intrusione inopportuna non genera stizza o rabbia; infatti, Gesù, sceso dalla barca, vedendo quell’immensa folla, «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). Un’immagine molto ricorrente nell’Antico Testamento per indicare il popolo che vaga senza meta perché senza guide (Cf. Num 27,17; 1Re 22,17; Ez 34,5).
La commozione di Gesù per la folla importuna non è semplicemente un sentimento di pietà o di commiserazione: la motivazione sta nel fatto che erano come pecore senza pastore e Gesù è il “buon Pastore” secondo il cuore di Dio, mandato dal Padre a radunare l’umanità dispersa in un solo ovile (Gv 10,16). Gesù di fronte alla folla che lo incalza, dimenticando il riposo, si mette a insegnare ad essa «molte cose». L’attività cui Gesù dà il primato è quello dell’insegnamento e dell’annuncio. Ora nutre la folla con il pane della parola, in seguito moltiplicherà i pani e la sazierà fisicamente.
Questo ordine, insegnamento-nutrimento, non è casuale. È un’indicazione per sé molto preziosa che la Chiesa ha fatto sua: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non tralasciando mai, soprattutto nella liturgia, di nutrirsi del pane di vita prendendola dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli» (DV 21).


La spiritualità del deserto - Fausto Longo - Giuseppe Barbaglio: Per i profeti Osea e Geremia il deserto non è un luogo, ma uno stato; consiste nella privazione di tutti i beni che hanno fatto prevaricare Israele. La sua traversata prepara la conversione e perciò esso comporta una rottura col mondo peccatore, per vivere in una nuova intimità con Dio. L’immagine del deserto esprime insieme tale rottura ed intimità. I cristiani separati dal peccato hanno fatto alleanza con Dio, sono diventati una «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato per proclamare le grandezze di lui che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce» (1Pt 2,9). Dio cammina in mezzo al suo popolo e con l’incarnazione ha piantato la sua tenda fra noi (Gv 1,14). Di qui sgorga l’esigenza di santità, d’obbedienza a colui che si è fatto il capo del suo popolo, «il pastore e custode delle sue anime» (1Pt 2,25).
A questo aspetto comune ad ogni vita cristiana si rifà la spiritualità del deserto nella sua applicazione particolare alla vita monastica e religiosa. Particolare rilievo ha il deserto nella vita di Giovanni Battista, il quale trascorse l’adolescenza in «regioni deserte» (Lc 1,80). Non meno caratteristica è l’esperienza degli esseni, che ritentarono la «prova del deserto», fallita nei loro padri. I membri della comunità «si allontanino dagli uomini di iniquità per andare nel deserto per aprirsi la via a lui, come sta scritto: Nel deserto aprite la via... Questo è lo studio della legge prescritta da Mose». Nell’ascetismo e nel monachesimo orientale, il deserto assume un aspetto essenziale. Geograficamente comprende l’Egitto, la penisola del Sinai, il deserto di Giuda, la Siria e altre lande orientali. Per sé esso resta sempre «una terra deserta, ... una landa dove echeggia l’ululo della solitudine» (Dt 32,10).
Per noi occidentali è difficile capirlo; solo l’esperienza potrebbe farci partecipi di un genere di vita ove il rischio è norma. I cedri del Libano, le palme e le rose di Gerico, i gigli esaltati nella Bibbia non sono più quelli della natura, ma questi, fiori e frutti della grazia, maturati nel deserto: Antonio, Pacomio, Macario, Nilo, Saba, Basilio. «Nei deserti l’aria è più pura, il cielo più accessibile e Dio più vicino» (Origene).
Tale spiritualità può sembrare anacronistica nell’attuale civiltà della spersonalizzazione e dell’automazione meccanica. A dimostrare che non lo è, basta la testimonianza di p. Carlo de Foucauld, l’apostolo del Sahara che all’esempio unisce la parola, che addita nel deserto una perenne sorgente di spiritualità: «Bisogna passare per il deserto e sostarvi per ricevere la grazia di Dio. È là che ci si svuota, che ci si sbarazza di tutto quello che non è Dio. Gli ebrei sono passati per il deserto; Mosè, s. Paolo, s. Giovanni Crisostomo si sono preparati nel deserto».


Josemariá Escrivá (È Gesù che passa, 166-167): Pensate alla scena narrata da San Luca, quando Gesù giunge presso la città di Nain. Gesù vede il dolore di quelle persone con cui si imbatte per caso. Poteva passare al largo, o aspettare che lo pregassero. Invece non se ne va né attende una richiesta. Prende l’iniziativa, mosso dall’afflizione di una vedova che aveva perduto tutto ciò che le restava, suo figlio. 
L’evangelista precisa che Gesù provò compassione: forse si sarà commosso anche esteriormente, come per la morte di Lazzaro. Gesù Cristo non era, non è, insensibile alla sofferenza che nasce dall’amore, né gode di separare i figli dai genitori: vince la morte per dare la vita, affinché coloro che si amano siano vicini, pur esigendo anzitutto e sempre la preminenza dell’Amore divino che deve informare ogni esistenza autenticamente cristiana.
Gesù sa di essere circondato da una folla che rimarrà stupefatta davanti al miracolo e che ne proclamerà la notizia per tutta la regione. Ma il Signore non compie un gesto studiato: si sente davvero toccato dalla sofferenza di quella donna, e non può fare a meno di consolarla. Infatti le si avvicina e le dice: Non piangere! Come per farle capire: non voglio vederti in lacrime, perché io sono venuto a portare sulla terra la gioia e la pace. Ed ecco il miracolo, manifestazione della potenza di Cristo Dio. Ma prima venne la commozione della sua anima, manifestazione evidente della tenerezza del cuore di Cristo Uomo. 
Se non impariamo da Gesù, non sapremo mai amare. Se pensassimo, come alcuni, che conservare un cuore pulito, degno di Dio, significa non immischiarlo, non contaminarlo con affetti umani, la conseguenza logica sarebbe quella di renderci insensibili al dolore degli altri. Saremmo allora capaci soltanto di una carità ufficiale, arida, senz’anima, ma non della vera carità di Cristo, che è affetto e calore umano. Con questo, non intendo avallare false teorie, tristi scuse per sviare i cuori, allontanandoli da Dio, e indurli in occasioni di perdizione.
[…] Per aiutare veramente gli altri, dobbiamo amarli di un amore
di comprensione e di donazione, pieno di affetto e di consapevole umiltà. Il Signore, infatti, volle riassumere tutta la Legge in quel duplice comandamento che in realtà è unico: amare Dio e amare il prossimo, con tutto il nostro cuore».


Venite in disparte... - Presbyterorum ordinis 8: Animati da spirito fraterno, i presbiteri non trascurino 1’ospitalità, pratichino la beneficenza e la comunione dei beni, specialmente solleciti di quanti sono ammalati, afflitti, sovraccarichi di lavoro, soli, o in esilio, nonché di coloro che soffrono persecuzione. Si riuniscano volentieri anche per trascorrere insieme in allegria momenti di distensione, ricordando le parole con cui il Signore stesso invitava gli apostoli, stremati dalla fatica: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco» (Mc 6,31). Inoltre, perché i presbiteri trovino reciproco aiuto a fomentare la vita spirituale e intellettuale, possano collaborare più efficacemente nel ministero ed evitare i pericoli eventualmente derivanti dalla solitudine, si favorisca tra loro qualche modalità di vita comune, o qualche condivisione di vita; questa può tuttavia assumere forme diverse in rapporto alle differenti esigenze personali o pastorali: cioè coabitazione, dove è possibile, oppure una mensa comune, o almeno frequenti e periodici raduni.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Per aiutare veramente gli altri, dobbiamo amarli di un amore di comprensione e di donazione, pieno di affetto e di consapevole umiltà.
Questa parola cosa ti suggeriscono?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l’anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio e vive e regna con te ...