IL PENSIERO DEL GIORNO

28 Febbraio 2018

MERCOLEDì FERIA II SETTIMANA DI QUARESIMA


Oggi Gesù ci dice: “Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita” (Cfr. Gv 8,12).


Dal Vangelo secondo Matteo 20,17-20: Gesù libera gli uomini donandosi per loro. Tutti i cristiani sono chiamati a compartecipare al gesto oblativo del Redentore, nel servizio reciproco e nella testimonianza. I discepoli, come Gesù, devono incamminarsi per l’irto cammino della Croce sempre pronti a rispondere a chiunque domandi loro ragione della speranza che è in essi (cf. 1Pt 3,15). Il calice nella tradizione biblica, tra i tanti significati, indica la coppa dell’ira di Dio che giudica gli empi (cf. Sal 75,9), il popolo infedele (cf. Is 51,17), l’umanità peccatrice (cf. Ger 25,15-18; Ez 23,32-34). Il battesimo è la passione dolorosa nella quale sarà immerso senza riserve il Figlio di Dio. Gesù, solidale con l’umanità peccatrice, berrà la coppa dell’ira divina fino all’ultima goccia (cf. Mt 14,36) e si farà obbediente alla volontà salvifica del Padre «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8).


Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): v. 22: Passaggio interessante! La madre chiede ed i figli rispondono. Giacomo e Giovanni avevano forse confidato alla madre le loro segrete aspirazioni? Potete voi bere il calice che io sto per bere? Il calice (coppa) è una metafora biblica per indicare una sorte felice o infelice, secondo i casi (cf. Salmo, 15 [16],5; 74 [75],9); qui essa designa la passione dolorosa ormai vicina. Gesù replica alla madre dei due fratelli con tono sereno, senza indignazione (cf. 23,6; quivi il Maestro smaschera l’ambizione dei Farisei), poiché ha notato della semplicità e docilità; i figli di Zebedeo infatti si dichiarano pronti a bere l’amaro calice del loro Maestro. v. 23: Voi berrete il mio calice; i due apostoli saranno associati ai dolori di Cristo; la predizione non implica necessariamente la morte in croce o il martirio, ma la partecipazione al calice dei dolori di Gesù. Giacomo, figlio di Zebedeo, sarà messo a morte da Erode Agrippa verso l’anno 44 (cf. Atti, 12,2); non consta che Giovanni sia morto martire, tuttavia l’apostolo ha subito l’esilio. Far sedere alla mia destra , e alla mia sinistra non ‘petta a me concederlo ... ; Gesù parla come inviato del Padre ed afferma che appartiene al Padre assegnare i posti d’onore nel regno. Egli risponde secondo il senso della richiesta (cf. Mc., 10,37 ... fa’ che noi sediamo uno a destra, l’ altro a sinistra nella gloria tua) e dice che nello stato glorioso del regno, cioè nel regno come sarà nel cielo, spetta al Padre stabilire i seggi d’onore. Per il governo del regno dei cieli su la terra il Maestro aveva già assegnato il primato a Pietro (cf. Mt., 16,18-19). v. 24: La richiesta dei figli di Zebedeo provoca una reazione tra gli apostoli, la quale non è suggerita dall’invidia, ma da una concezione più spirituale del regno dei cieli.


www.comboni.org: “Bere il calice - ricevere il battesimo” sono espressioni che per Gesù indicano un itinerario di morte e di risurrezione, affinché tutti abbiano vita in abbondanza (Gv 10,10). A questa Sua opera missionaria, Gesù vuole associare tutti i discepoli: coloro che sono battezzati nel Suo nome e quelli che Egli chiama ad una vocazione di speciale consacrazione (sacerdoti, religiose, religiosi, laici). Da questa identificazione sacramentale con Cristo nasce per tutti il dono e l’impegno della Missione, cioè per l’annuncio del Vangelo ai popoli che ancora non lo conoscono.
Alla domanda del Maestro: “potete bere il calice...?” i discepoli Giacomo e Giovanni rispondono: “Lo possiamo” (v. 38). In questa risposta c’è una dose di presunzione, ma c’è anche generosità e audacia. Dopo la Pentecoste dello Spirito, essi avranno effettivamente la forza di dare tale suprema testimonianza. Anche oggi, di fronte alle molteplici esigenze dell’impegno missionario della Chiesa nel mondo intero, è richiesto a tutti i cristiani di dare risposte concrete, generose e creative, secondo la condizione di ciascuno. Ad alcuni è richiesto un servizio missionario per tutta la vita, anche in zone lontane e pericolose; ad altri, è richiesta la vita stessa... A tutti, il contributo di preghiera, impegno di evangelizzazione e condivisione solidale con i bisognosi.

Il Servo di Iahvè - Figura escatologica e messianica - Roberto Tufariello: Diverse sono le interpretazioni degli esegeti sulla figura del Servo del Deuteroisaia. Qualcuno sostiene l’interpretazione collettiva (il Servitore si identifica con l’Israele storico o con quello ideale); altri preferiscono l’interpretazione individuale non messianica (il Servitore si identifica con un personaggio del passato, come Mosè o Geremia, o del presente: un contemporaneo del Deuteroisaia o il Deuteroisaia stesso); altri danno di questo personaggio una esegesi individuale messianica (l’autore, ispirandosi a un personaggio storico - come Ioakin, re esiliato, o Giosia, re riformatore e giusto, o uno dei maggiori profeti, - avrebbe delineato un uomo del futuro, mediatore di salvezza); altri esegeti, infine, si rifanno alla concezione della personalità corporativa, che permette di vedere nel Servo un personaggio preciso, che però simboleggia e riassume in sé tutto il suo popolo.
Tra i diversi aspetti della figura del Servo, vogliamo qui sottolineare le sue caratteristiche messianiche ed escatologiche. Il Deuteroisaia era stato testimone di gravi insuccessi subiti dal popolo eletto: il ritorno dall’esilio si era compiuto senza prodigi e per un numero limitato di persone (cf. Esdra 8, che si riferisce a circa cent’anni più tardi); le nazioni pagane non si erano convertite come si attendeva (cf. Is. 45,22-24; 54,5). Il ritorno dall’esilio e la conversione dei pagani rimanevano un oggetto di attesa e di speranza per il futuro (Is. 57,18-19; Ag. 2,7-8.22; Zac. 2,15; 8,7; 10,10).
Ora il Deuteroisaia riprende questi elementi essenziali del disegno di Dio e li esprime in una prospettiva totalmente nuova.
Questa volta - assicura l’autore sacro - il disegno di Dio non mancherà di realizzarsi: «Ma a Iahvè è piaciuto prostrarlo con dolori; - poiché offrirà se stesso in espiazione, - vedrà una discendenza longeva, - la volontà di Iahvè si effettuerà per mezzo suo» (Is. 53,10).
Lo strumento di quest’opera di salvezza sarà un personaggio escatologico: non più Ciro (Is. 44,28; 45,1), ma un uomo scelto in mezzo a Israele, che incarnerà e riassumerà in sé il vero popolo di Dio: «Mi disse: Mio servo tu sei, Israele, - attraverso il quale manifesterò la mia gloria» (Is. 49,3).
Questo personaggio viene descritto con elementi che richiamano le figure di Mosè, Ezechiele e soprattutto Geremia: gli è affidato il ministero della parola, dell’intercessione, dell’Alleanza, ministero che lo pone in lotta contro il peccato (cf. Is. 42,1.6-7; 50,4). Egli, però, porterà realmente nella sua carne le stimmate del peccato: «Pertanto egli ha portato i nostri affanni, - egli si è addossato i nostri dolori - e noi lo abbiamo ritenuto come un castigato, - percosso da Dio e umiliato. - Egli è stato trafitto per i nostri delitti, - schiacciato per le nostre iniquità. Il nostro castigo salutare si abbatté su di lui; - per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is. 53,4-5).
Non solo rischierà il martirio, come Geremia, ma lo affronterà effettivamente (Is. 53,10). L’efficacia di questo martirio viene indicata mediante la terminologia liturgica: è un sacrificio di «espiazione» (cf. Lev. 6). Alcuni elementi, desunti dal messianesimo regale (cf. Is. 42,1 e 11,2; 53,12 e 9,2), dicono con sufficiente chiarezza che si tratta di una figura messianica, si tratta però del messia-profeta, e non del messia-re. La sua figura è quella di un salvatore di Israele e dell’umanità, è quella di un «redentore» che espia mediante la sua sofferenza i peccati degli uomini. Questa interpretazione messianica ed escatologica dei carmi del Servo di Iahvè nel Nuovo Testamento diventa chiaramente cristologica: il profeta annuncia la realtà futura orientando gli spiriti nella direzione più giusta. Nel Nuovo Tetsamento è a Gesù che viene riferita la figura del Servo; Gesù stesso applica a sé Is. 53,12 (cf. Lc. 22,37). Giovanni Battista allude indubbiamente a Is. 53 (Gv. 1,29), quando chiama Gesù: «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Tutto Is. 53 è giustamente considerato la più meravigliosa e completa anticipazione profetica dell’opera espiatrice di Cristo, che muore e risorge per la salvezza del suo popolo.


Papa Francesco (Angelus, 14 Settembre 2014): Il 14 settembre la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Qualche persona non cristiana potrebbe domandarci: perché “esaltare” la croce? Possiamo rispondere che noi non esaltiamo una croce qualsiasi, o tutte le croci: esaltiamo la Croce di Gesù, perché in essa si è rivelato al massimo l’amore di Dio per l’umanità. È quello che ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella liturgia odierna: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito» (3,16). Il Padre ha “dato” il Figlio per salvarci, e questo ha comportato la morte di Gesù, e la morte in croce. Perché? Perché è stata necessaria la Croce? A causa della gravità del male che ci teneva schiavi. La Croce di Gesù esprime tutt’e due le cose: tutta la forza negativa del male, e tutta la mite onnipotenza della misericordia di Dio. La Croce sembra decretare il fallimento di Gesù, ma in realtà segna la sua vittoria. Sul Calvario, quelli che lo deridevano gli dicevano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (cfr Mt 27,40). Ma era vero il contrario: proprio perché era il Figlio di Dio Gesù stava lì, sulla croce, fedele fino alla fine al disegno d’amore del Padre. E proprio per questo Dio ha «esaltato» Gesù (Fil 2,9), conferendogli una regalità universale.
E quando volgiamo lo sguardo alla Croce dove Gesù è stato inchiodato, contempliamo il segno dell’amore, dell’amore infinito di Dio per ciascuno di noi e la radice della nostra salvezza. Da quella Croce scaturisce la misericordia del Padre che abbraccia il mondo intero. Per mezzo della Croce di Cristo è vinto il maligno, è sconfitta la morte, ci è donata la vita, restituita la speranza. Questo è importante: per mezzo della Croce di Cristo ci è restituita la speranza. La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** «Con la croce Gesù ha spalancato la porta di Dio, la porta tra Dio e gli uomini. Ora essa è aperta. Ma anche dall’altro lato il Signore bussa con la sua croce: bussa alle porte del mondo, alle porte dei nostri cuori, che così spesso e in così gran numero sono chiuse per Dio. E ci parla più o meno così: se le prove che Dio nella creazione ti dà della sua esistenza non riescono ad aprirti per Lui; se la parola della Scrittura e il messaggio della Chiesa ti lasciano indifferente – allora guarda a me, al Dio che per te si è reso sofferente, che personalmente patisce con te – vedi che io soffro per amore tuo e apriti a me, tuo Signore e tuo Dio» (Benedetto XVI, Omelia, 1 Aprile 2007).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Sostieni sempre, o Padre, la tua famiglia nell’impegno delle buone opere; confortala con il tuo aiuto nel cammino di questa vita e guidala al possesso dei beni eterni. Per il nostro Signore Gesù Cristo...