29 Marzo 2025
 
Sabato III Settimana di Quaresima

Os 6,1-6; Salmo Responsoriale Dal Salmo 50 (51); Lc 18,9-14
 
Colletta
O Dio, nostro Padre,
che nella celebrazione della Quaresima
ci fai pregustare la gioia della Pasqua,
donaci di contemplare e vivere
i misteri della redenzione
per godere la pienezza dei suoi frutti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo. .
 
Papa Francesco (Angelus, 23 ottobre 2022): La parabola è compresa tra due movimenti, espressi da due verbi: salire e scendere. Il primo movimento è salire. Il testo infatti comincia dicendo: «Due uomini salirono al tempio a pregare» (v. 10). Questo aspetto richiama tanti episodi della Bibbia, dove per incontrare il Signore si sale verso il monte della sua presenza […]. Ma per vivere l’incontro con Lui ed essere trasformati dalla preghiera, per elevarci a Dio, c’è bisogno del secondo movimento: scendere. Come mai? Che cosa significa questo? Per salire verso di Lui dobbiamo scendere dentro di noi: coltivare la sincerità e l’umiltà del cuore, che ci donano uno sguardo onesto sulle nostre fragilità e le nostre povertà interiori. Nell’umiltà, infatti, diventiamo capaci di portare a Dio, senza finzioni, ciò che realmente siamo, i limiti e le ferite, i peccati, le miserie che ci appesantiscono il cuore, e di invocare la sua misericordia perché ci risani, ci guarisca, ci rialzi. Sarà Lui a rialzarci, non noi. Più noi scendiamo con umiltà, più Dio ci fa salire in alto. […] Il fariseo e il pubblicano ci riguardano da vicino. Pensando a loro, guardiamo a noi stessi: verifichiamo se in noi, come nel fariseo, c’è «l’intima presunzione di essere giusti» (v. 9) che ci porta a disprezzare gli altri. Succede, ad esempio, quando ricerchiamo i complimenti e facciamo sempre l’elenco dei nostri meriti e delle nostre buone opere, quando ci preoccupiamo dell’apparire anziché dell’essere, quando ci lasciamo intrappolare dal narcisismo e dall’esibizionismo. Vigiliamo sul narcisismo e sull’esibizionismo, fondati sulla vanagloria, che portano anche noi cristiani, noi preti, noi vescovi ad avere sempre una parola sulle labbra, quale parola? “Io.”
 
I Lettura: Epifanio Gallego: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più che gli olocausti».
La contrapposizione non può essere più enfatica e assoluta. È il tipico stile semita, usato per mettere in risalto alcuni valori in contrapposizione con altri. Non è una condanna incondizionata dei sacrifici e degli olocausti, ma solo del modo in cui erano offerti; e in questo concordano anche Amos, Isaia e Michea.
È la condanna radicale della religione esteriore quando è vuota d’interiorità, il rifiuto delle manifestazioni di fede quando queste manifestazioni si trasformano in sostitutivi della fede stessa.
Per questo Dio esige conoscenza e amore e nell’amore a Dio e al prossimo Cristo riassumerà il suo Vangelo.
Per questo Matteo mette due volte sulle sue labbra questa frase di Osea: «Voglio l’amore e non il sacrificio» (Mt 9,13 e 12.7). Lo stesso Signore la spiegherà nel discorso della montagna quando dirà, che se andando  a presentare la nostra offerta all’altare, ricordiamo che il nostro fratello ha qualcosa contro di noi … dobbiamo pensare prima al fratello poi all’offerta. Prima l’amore, poi il sacrificio; prima la fede, poi le sue manifestazioni.
 
Vangelo
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza del fariseo.
 
La parabola evangelica presenta due tipi umani opposti. I farisei, scrupolosi osservanti della Legge, e i pubblicani schedati come peccatori pubblici, gente senza salvezza. La preghiera del fariseo non è accetta a Dio perché sgorga da un cuore infettato dall’orgoglio, mentre il pubblicano è ascoltato e giustificato perché, riconoscendo la propria indegnità, la sua preghiera erompe da un cuore contrito e umiliato. È quanto insegna anche la prima lettura: il valore della preghiera non dipende dalla sua prolissità, ma dalle disposizioni del cuore. La preghiera del povero, spoglia di arroganza e di sedicenti meriti, penetrando le nubi arriva fino al cuore di Dio che è pronto ad intervenire per rendere soddisfazione ai giusti e ristabilire l’equità.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,9-14
 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Parola del Signore.
 
Il fariseo e il pubblicano - La cornice entro la quale l’evangelista Luca pone la parabola è un insegnamento sull’umiltà (Cf. v. 14: Vi dico... chi invece si umilia sarà esaltato).
Due uomini salirono al tempio per pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. Se la parabola è narrata per riprovare l’operato ipocrita dei farisei, non vuole sottintendere una sentenza di demerito o di condanna sul gruppo storico dei farisei. Occorre, quindi, comprendere il giudizio di Gesù. Egli loda la fede del pubblicano, ma non approva il suo peccato. Il peccatore deve pentirsi e convertirsi (Cf. Mt 3,2; 4,17); deve tendere al possesso di un cuore nuovo e dimostrare il suo pentimento con preghiere, digiuni ed elemosine (Cf. Tob 12,8-9; 1Pt 4,8).
Gesù rimprovera l’arroganza dei farisei che con i loro sedicenti meriti credono di potere pilotare il giudizio di Dio e di tirarselo dalla loro parte, ma non disprezza il loro amore per la legge di Dio, la giustizia e lo sforzo di inculcarlo nel cuore degli uomini (Cf. Mt 23,3).
Il fariseo stando in piedi... Il fariseo è l’immagine dell’uomo amato, adulato, onorato dal mondo per quello che ha e per quello che fa, per il posto sociale che occupa, e non per quello che è.
Digiuno due volte... Il fariseo va al di là delle prescrizioni: digiuna il Lunedì e il Giovedì, mentre questa pratica penitenziale è prescritta una volta all’anno, nel giorno dell’espiazione (Kippur). Così per la decima. La legge comanda il pagamento della decima sui principali prodotti (Dt 14,22-23); il fariseo invece, la paga su tutti i prodotti e per questo si ritiene più giusto degli altri.
Il pubblicano... non osava alzare gli occhi al cielo... Sulla sponda opposta il pubblicano, il quale stava a distanza e non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo. I pubblicani sono i “senza legge”, “gente maledetta” (Gv 7,49), o per il mestiere che esercitavano o perché collaborazionisti dell’odiato potere romano. La partita doppia di questo povero uomo non ha voci né di credito né di debito; il pubblicano sa soltanto battersi il petto e chiedere perdono di tutti i suoi peccati: pensieri, parole, opere ed omissioni. E forse nella conta esagerava un po’!
Io vi dico... Umiltà, fede, preghiera, penitenza..., queste sono le vie maestre che conducono l’uomo al cuore di Dio e obbligano Dio a volgere il suo sguardo pietoso sulla creatura: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Negli ultimi versetti della parabola possiamo cogliere così «l’idea centrale della parabola e dell’insegnamento di Gesù: ciò che ci rende giusti, graditi a Dio, non sono i nostri meriti, le nostre virtù. Ciò che vi è di nostro in noi ci allontana da Dio, solo ciò che vi è di suo in noi ci avvicina a lui: il suo perdono e la sua grazia, accompagnati, da parte nostra, dalla penitenza e dalla fede» (CARLO GHIDELLI, Luca - Edizioni Paoline).
 
La virtù dell’umiltà: la persona e l’insegnamento di Gesù - Giuseppe Barbaglio (Umiltà in Schede Bibliche Pastorali): Premettiamo un necessario riferimento al Magnificat, nel quale Maria interpreta poeticamente il senso dell’evento dell’annunciazione: ella loda Dio «perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48). Non si tratta però di un caso sporadico; è legge dell’agire divino quella dell’esaltazione dell’umile e dell’abbassamento del superbo: «...ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Maria, come anche Anna, la madre di Samuele, nell’Antico Testamento (Cf. Gdc 1,11), ha valore paradigmatico. Il detto: «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato», che sottintende l’intervento di Dio a umiliare ed esaltare, come già nell’Antico Testamento era stato ripetuto più volte, compare tre volte nei testi dei sinottici e tutte a conclusione di un brano, posta a suggello del senso di quanto precede. Così Luca conclude la pericope riguardante la scelta dei primi posti da parte degli invitati a un banchetto (14,11): un modo per chiarire l’insegnamento di Gesù sull’umiltà. Lo stesso evangelista mette questa conclusione anche alla fine della parabola del fariseo e del pubblicano (18,14): Dio che umilia il superbo ed esalta l’umile si è manifestato a proposito del fariseo e del pubblicano della parabola. Matteo se ne serve invece per chiudere l’esortazione ai discepoli a non ambire titoli gloriosi all’interno della comunità e, positivamente, a perseguire la grandezza consistente nel servizio reso ai fratelli (23,12).
Sempre il primo evangelista ha costruito un bel brano incentrato sull’umiltà necessaria per entrare nel regno finale di Dio (18,15). Introduce il brano la domanda dei discepoli: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». Gesù risponde con un’azione simbolica, tipica dei profeti nell’Antico Testamento: prende un bambino, lo mette in mezzo a loro e dice: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno di Dio». Dunque la condizione impreteribile per l’ingresso nel regno futuro di Dio è far proprio un atteggiamento spirituale di umiltà che trova nei bambini una realizzazione naturale: ciò che i bambini sono per se stessi, esseri umili e deboli, deve diventare un tratto della condotta e del sentire interno delle persone. Che sia in questione il motivo dell’umiltà, della bassezza appare dal detto successivo: «Perciò chiunque si umilierà (tapeinósei: ns. trad.) come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli». Un modo per esprimere la classica antitesi di Dio che esalta gli umili e abbassa i superbi; con questa particolarità: il ribaltamento avverrà alla fine. Il detto dunque ha valore escatologico; il che peraltro è tutt’altro che sconosciuto nell’Antico Testamento.
Gesù però non ha solo parlato della necessità di essere umili, ma ha incarnato nella sua persona l’umiltà. Ne è testimonianza Mt 11,29: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite (prays) e umile di cuore (tapeinos téi kardiai) e troverete ristoro per le vostre anime». L’immagine del giogo sta a indicare il peso della legge imposto alle persone. Nel contesto immediato del detto: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (v. 28); «Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (v. 30) si precisa l’antitesi tra il peso della legge giudaica che opprime le persone con l’infinito numero delle sue prescrizioni e dei suoi divieti e il giogo della sequela di Cristo, che è tutt’altro che oppressivo.
Gesù afferma di essere maestro mansueto e umile di cuore, da cui i discepoli suoi devono imparare. In concreto «Gesù è tapeìnos dinanzi a Dio, sottomesso a lui. L’aggiunta a tapeinos di téi kardiaì rende chiaro che egli non è tale in forza di una necessità imposta, alla quale si sia sottomesso, bensì nella libertà e nell’assenso a questa via in cui Dio l’accompagna. Gesù è tapeinos anche rispetto agli uomini, di cui diventa il servitore e il soccorritore (Lc 22,27; Mt 20,28; Mc 10,45). Questo aspetto del suo essere tapeinos è espresso con prays. Egli si trattiene in compagnia dei peccatori e dei disprezzati, ponendosi in questo modo come modello per i suoi discepoli» (GLNT, XIII, 877).
 
Compostella (Messale per la Vita Cristiana): Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che noi tutti abbiamo la tendenza a compiacerci di noi stessi.
Forse perché pratichiamo molto fedelmente la nostra religione, come quel zelante fariseo, pensiamo di dover essere considerati « per bene ».
Non abbiamo ancora capito queste parole di Dio in Osea: « Voglio l’amore e non il sacrificio » (Os 6,6). Invece di glorificare il Padre per quello che è, il nostro ringraziamento troppo spesso riguarda ciò che noi siamo o, peggio, consiste nel confrontarci, in modo a noi favorevole, con gli altri. È proprio questo giudizio sprezzante nei confronti dei fratelli che Gesù rimprovera al fariseo, così come gli rimprovera il suo atteggiamento nei confronti di Dio.
Durante questa Quaresima, supplichiamo Gesù di cambiare radicalmente il no tra spirito e il nostro cuore, e di darci l’umiltà del pubblicano che invece ha scoperto l’atteggiamento e la preghiera « giusti » di fronte a Dio. Non comprenderemo mai abbastanza che il nostro amore è in stretta relazione con la nostra umiltà. La cosa migliore che possiamo fare di fronte a Dio, in qualsiasi misura ci pretendiamo santi, è di umiliarci di fronte a Dio. Ci sono dei momenti in cui non riusciamo a rendere grazie in modo sincero; allora possiamo far la preghiera del pubblicano, possiamo cioè approfittare della nostra miseria per avvicinarci a Gesù: « O Dio, abbi pietà di me peccatore». Gesù esaudisce sempre questa preghiera.
L’umiltà non ha niente a che vedere con un qualsiasi complesso di colpa o con un qualsiasi sentimento di inferiorità. È una disposizione d’amore; essa suppone che sappiamo già per esperienza che il nostro stato di peccatori attira l’amore misericordioso del Padre, poiché « chi si umilia sarà esaltato».
Essa suppone cioè che siamo entrati nello spirito del Magnificat.
 
Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato - Origene, Contra Celsum, 3, 64: Dato che egli aggiunge: «Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?» e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato. Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. È quel che rivela a chi legge lealmente il vangelo la parabola del pubblicano che dice: “Abbi pietà di me peccatore”, mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano”. Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: “Il pubblicano scese a casa sua giustificato, al contrario dell’altro, poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13; 1,14).
Siamo ben lontani, perciò, «dal bestemmiare Dio e dal mentire», insegnando ad ogni uomo, chiunque esso sia, a prendere coscienza della propria umana piccolezza in rapporto alla grandezza di Dio, e a chiedere incessantemente ciò che manca alla nostra natura a colui che solo può colmare le nostre insufficienze.
 
Il Santo del giorno  - 29 Marzo 2025 - San Marco di Aretusa. La verità e la comunione sono due beni da amministrare con profonda saggezza - Senza se e senza ma, sempre dalla parte di ciò che è vero, perché le ambiguità del mondo aprono alle più profonde ferite: i testimoni del Vangelo sanno che il patrimonio di fede loro affidato è un tesoro prezioso per l’umanità. Per questo lo difendono fino alla fine, anche amministrandolo con saggezza di fronte alle minacce e agli assalti dei prepotenti, che creano divisioni e lotte fratricide. A dimostrarlo sono le storie come quella di san Marco di Aretusa, vescovo del IV secolo della città siriana che oggi è Er Rastan. Accusato inizialmente di non essere abbastanza deciso contro l’arianesimo (forse perché preoccupato proprio della ferita provocata dalla diffusione dell’eresia e non volendo creare spaccature ancora più profonde nella Chiesa), nel 360 Marco chiarì la sua ortodossia e questo fece sparire i “sospetti” su di lui. Nel 361 fu costretto a fuggire a causa della presa di potere di Giuliano l’Apostata che voleva restaurare il paganesimo.
Tornò, però, quando venne a sapere che i preti erano stati imprigionati. Marco aveva fatto distruggere un tempio pagano e questo, al suo ritorno, gli costò l’arresto e le torture, alle quali, però, sopravvisse. Si dedicò all’evangelizzazione dei pagani fino alla morte nel 364 e la sua eredità è un chiaro invito a scegliere sempre la difesa della verità e la cura della comunione. (Matteo Liut)
 
Dio di misericordia, concedi a noi
di celebrare sempre con sincera devozione
e di ricevere con spirito di fede
i sacramenti che ci doni
con inesauribile larghezza.
Per Cristo nostro Signore.

ORAZIONE SUL POPOLO ad libitum
 
Stendi la tua mano, o Signore, a difesa dei tuoi fedeli
perché ti cerchino con tutto il cuore
e vedano esauditi i loro giusti desideri.
Per Cristo nostro Signore.