23 Marzo 2025
III Domenica di Quaresima
Es 3,1-8a.13-15; Salmo Responsoriale dal Salmo 102 (103); 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Colletta
O Dio dei nostri padri,
che ascolti il grido degli oppressi,
concedi ai tuoi fedeli
di riconoscere nelle vicende della storia
il tuo invito alla conversione,
per aderire sempre più saldamente a Cristo,
roccia della nostra salvezza.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
Papa Francesco (Angelus): Questa similitudine del vignaiolo manifesta la misericordia di Dio, che lascia a noi un tempo per la conversione. Tutti noi abbiamo bisogno di convertirci, di fare un passo avanti, e la pazienza di Dio, la misericordia, ci accompagna in questo. Nonostante la sterilità, che a volte segna la nostra esistenza, Dio ha pazienza e ci offre la possibilità di cambiare e di fare progressi sulla strada del bene. Ma la dilazione implorata e concessa in attesa che l’albero finalmente fruttifichi, indica anche l’urgenza della conversione. Il vignaiolo dice al padrone: «Lascialo ancora quest’anno» (v. 8). La possibilità della conversione non è illimitata; perciò è necessario coglierla subito; altrimenti essa sarebbe perduta per sempre. Noi possiamo pensare in questa Quaresima: cosa devo fare io per avvicinarmi di più al Signore, per convertirmi, per “tagliare” quelle cose che non vanno? (Angelus, 24 marzo 2019)
Prima Lettura: La narrazione della vocazione di Mosè è vergata con elementi caratteristici e costanti in simili racconti biblici. Alla chiamata di Dio il vocato protesta la propria indegnità e le proprie perplessità che vengono superate da un segno e dalla promessa della protezione divina. Il fuoco che brucia senza consumarsi è simbolo fondamentale delle teofanie. Dio rivela a Mosè il suo nome usando il verbo essere che in ebraico è verbo attivo, cioè non indica uno stato, ma un’attività. Dio è Colui che è, colui che opera (Gv 5,17) a differenza degli idoli muti dei pagani che sono nulla: manufatti inerti «che non possono giovare né salvare, perché sono vanità» (1Sam 12,21).
Seconda Lettura: L’apostolo Paolo invita i cristiani di Corinto a leggere con attenzione la storia biblica del popolo d’Israele «per coglierne il messaggio sempre vivo e sempre attuale per la comunità cristiana. La 1Cor è tutta percorsa dal forte e sferzante richiamo di Paolo a mantenersi fedeli a Cristo e al Vangelo. Per avvalorare questo richiamo, Paolo si rifà alla storia e all’esperienza del popolo biblico: anche quella storia e quell’esperienza sono macchiate dall’infedeltà e dal peccato dell’uomo. La lezione biblica deve mettere in guardia anche i cristiani di Corinto [e di ogni tempo] che sfoderano una sprezzante sufficienza: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”» (Don Primo Gironi).
Vangelo
Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
Non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, tra peccato e infortunio, questo è l’insegnamento di Gesù. Tali fatti di violenza sono invece chiari appelli alla conversione, perché ciò che conta è non andare incontro ad una morte ancora più terribile, quella che porta all’eterna separazione da Dio. La parabola del fico sterile è un chiaro riferimento alla pazienza di Dio, ma potrebbe alludere al ritardo del giudizio finale di Dio e all’importanza di prepararvisi.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,1-9
In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Parola del Signore.
Perché deve sfruttare il terreno? In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei... Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? Nella riflessione biblica il tema della retribuzione ha fatto un lungo cammino, che ha portato a graduali e interessanti scoperte.
Dalla concezione di una retribuzione terrena collettiva, il popolo è responsabile in solido delle proprie azioni (il bene degli uni ricade sugli altri e così il male, i meriti e le colpe dei padri si riversano sui figli), gradualmente si arriva a una nozione di retribuzione individuale. In questa ultima riflessione, ancora imperfetta, la retribuzione che Dio dà all’uomo, è concepita come temporale; si chiude cioè nell’arco della vita terrena. Dio infatti premia o punisce con cose facilmente controllabili: ricchezza, fecondità della sposa, rispetto e amicizia dei vicini ai buoni; mancanza di prole, malattia, povertà agli empi.
Una novità interessante, ma inficiata dalla esperienza quotidiana: infatti, spesso molti empi prosperano, molti giusti soffrono. Sarà il libro della Sapienza, e soprattutto il Nuovo Testamento, a dare una risposta a questo problema: la retribuzione è spostata nella vita ultraterrena. Si chiude così il ciclo. Ma rimane sempre sottinteso che la ricompensa «che Dio dà all’uomo è un puro dono che l’uomo non può mai meritare completamente. Il rischio del fariseismo è continuamente presente. L’uomo ha sempre la tentazione di misurare la retribuzione divina sul metro delle opere che compie. L’esempio classico lo incontriamo nella parabola del fariseo e del pubblicano [Lc 18,9ss.]. Il fariseo, che pretendeva la sua giustificazione da Dio ostentando le sue opere buone, viene da [Gesù] riprovato. L’uomo non può ricevere la salvezza dalle sue opere, perché è nel peccato. La salvezza la dà solo Dio [Rm 3,23-26]» (Giuseppe Manni).
Sulla carneficina perpetrata da Pilato e sui fatti della Torre di Siloe e sulla questione della retribuzione, Gesù non assume alcuna posizione e non dà un giudizio né sui mandanti, né sulle vittime, sposta soltanto il problema: «No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
In questo modo, Gesù invita gli interlocutori a cambiare vita: invece di investigare è meglio convertirsi perché alla fine si potrebbe condividere la sorte di quei malcapitati morti sotto il ferro romano e sotto le pietre di una torre diruta. Anche due fatti di cronaca possono celare segni ammonitori, quindi, più che dare un giudizio sulla vita degli altri è meglio guardare alla propria condotta, sopra tutto se essa è in sintonia con la volontà di Dio. L’accento va quindi spostato sull’urgenza della conversione. E a questo proposito narra la parabola dell’albero di fichi che un tale aveva piantato nella sua vigna.
L’immagine del fico infruttuoso era abbastanza nota e ricorreva spesso nella predicazione profetica quando si voleva denunciare l’infedeltà del popolo di Dio (Cf. Ger 8,13; Mi 7,1; Os 9,16). Nel brano lucano però si fa cenno anche alla vigna e potrebbe alludere alla pazienza di Dio (Cf. Is 5,1-7). Due rimandi non casuali e con i quali si vogliono sfatare due equivoci: «quello di chi pensa che ormai è troppo tardi e che la pazienza di Dio si è logorata nell’attesa, e quello di chi pensa che c’è sempre tempo e che la pazienza di Dio è senza limiti. La risposta è un’altra: Dio è certamente paziente, ma noi non possiamo programmare o fissare scadenze alla sua pazienza» (Carlo Ghidelli).
Mentre nel Vangelo di Matteo il fico infruttuoso viene maledetto da Gesù (Cf. Mt 21,19ss.), qui, nel racconto lucano la parabola è interrotta prima della fine, per cui non si conosce la sorte del fico sterile. Forse si vuole alludere a una futura conversione d’Israele. Per Gesù c’è ancora spazio per il ritorno d’Israele: «Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,25-26).
Giovanni Odasso (Vite-Vigna in Schede Bibliche Pastorali) - ... un albero di fichi piantato nella sua vigna: L’immagine della vigna è intimamente connessa all’ideologia della alleanza, un tema che pervade tutto l’Antico Testamento. Per questo, sebbene i profeti abbiano utilizzato la vigna come immagine che serviva ad esprimere con forza e vivacità poetica il castigo divino, l’immagine rimaneva comunque aperta ad un ulteriore sviluppo che, sulla linea del Sal. 80, si sarebbe operato in un orizzonte di speranza e di salvezza. Effettivamente abbiamo alcune testimonianze che risalgono al periodo postesilico, nelle quali il simbolo della vigna è permeato da un’atmosfera di serena fiducia nel perdono rinnovatore che Iahvé continuamente concede al suo popolo. Il testo più significativo a questo proposito si riscontra in Is. 27,2-5, un inno escatologico che celebra il gioioso compimento delle promesse e delle profezie che annunciavano la salvezza: «In quel giorno si dirà: “La vigna deliziosa!”. Cantate per lei: io, Iahvé, sono il suo guardiano. A ogni istante la irrigo; perché non venga danneggiata, io la guardo di notte e di giorno. Io non sono in collera. Ci fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme, a meno che non si cercasse rifugio in me, non si concludesse la pace con me!» (Versione UTET modificata).
Il popolo che, dopo la dura esperienza dell’esilio, ricostruisce la propria vita nella terra dei padri, sente l’esaltante sicurezza di essere la vigna deliziosa di Iahvé, l’interlocutore del suo amore e della sua salvezza. Dio stesso distruggerà per sempre i suoi nemici, a meno che anch’essi non aderiscano a lui nella pace dell’alleanza.
Israele, un tempo vite infeconda, attende ora l’evento escatologico, nel quale egli sarà una vite ricolma di frutti perché offrirà a Iahvé il suo amore: «Io sono per il mio diletto; verso di me è rivolta la sua passione. Vieni, mio diletto, andiamo nei campi! Pernotteremo nei villaggi; di buon mattino andremo alle vigne per osservare se ha gettato la vite, se si sono aperti i fiori, se sono fioriti i melograni. Ivi ti concederò i miei amori. Le mandragore emettono il loro profumo; alle nostre porte c’è ogni sorta di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho riservati per te» (Cant. 7,11-14).
Si profila così densa di significato, l’alleanza nuova e definitiva tra Iahvé e Israele, quando la reciproca appartenenza sarà sperimentata dai salvati come dono di un reciproco amore: «Il mio diletto è per me e io per lui, che pasce il suo gregge fra i gigli» (Cant. 2,16; Cf. Cant. 6, 3 e 7,11).
Questi testi ci testimoniano una speranza che spinge il credente a guardare in avanti, verso quel futuro nel quale rifulgerà in tutta la sua pienezza l’azione imprevedibile, ma sempre amorosa, di Dio. Effettivamente queste promesse incontrano in Cristo la loro insospettata realizzazione e per mezzo di lui si estendono alla chiesa che attende, pellegrinante su questa terra, la manifestazione definitiva della gloria di Dio. La novità che il Nuovo Testamento apporta all’immagine della vigna va ricercata nell’affermazione di Gesù: «Io sono la vera vite» (Gv. 15,1). Il detto fa parte dell’allegoria della vite che si legge in Gv. 15,1-8. Per cogliere in maniera più adeguata la ricchezza di questi versetti sembra opportuno tener presenti i vari orizzonti che confluiscono in questa densa narrazione.
L’immagine della vite, o della vigna, nell’Antico Testamento designava Israele non già nella sua accezione politica, ma nella sua dimensione religiosa: indicava, cioè, Israele in quanto popolo di Dio, sua particolare proprietà (Es. 19,5-6), unito a lui con il vincolo dell’alleanza. Ora Gesù applica a sé in modo pieno questa immagine. Egli, in altre parole, realizza perfettamente la missione di Israele, è il vero Israele. La relazione di intimità e di amore tra Dio e Israele raggiunge in lui una intensità non mai sospettata prima, perché Gesù è il Figlio unigenito, il Verbo continuamente rivolto col suo amore verso il cuore del Padre: «Dio nessuno mai l’ha visto; il Figlio unigenito, che è rivolto verso il seno del Padre, lui ce l’ha rivelato» (Gv 1,18 - Versione UTET modificata). Come la vite trae tutto dal vignaiuolo che la pianta e la cura, così il Cristo tutto riceve dal Padre: la sua esistenza è un dono del Padre, la sua attività una manifestazione del Padre, la sua parola una rivelazione del Padre.
Settimio Cipriani (Nutriti dalla Parola) - «Ho osservato la miseria del mio popolo ...»: È bensì vero che Dio si è impegnato per la nostra salvezza e ne è l’artefice principale: però non è facile rimanere in questo clima salvifico attuandone le esigenze fino in fondo, come ci attesta anche la prima lettura, che ci presenta uno dei passi salienti dell’Antico Testamento: la vocazione di Mosè e la rivelazione del Nome di Iahvèh.
«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarli dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele ... Dio disse a Mosè: “Io Sono colui che sono!” ... Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,7-8.14-15). Il nome di Jahvèh («Io sono»), con cui Dio si rivela al suo popolo, non ne esprime tanto l’essenza quanto la potenza salvifica: egli è colui «che fa esistere» Israele come popolo libero, quasi «creandolo» dal nulla.
Ciò nonostante, abbiamo sentito Paolo ricordarci che «della maggior parte di loro Dio non si compia que e perciò furono abbattuti nel deserto» (1Cor 10,5). Il libro dell’Esodo ci racconta delle infinite ribellioni e «mormorazioni» d’Israele che, spaventato dai rischi del deserto, rimpiange la terra di schiavitù: «Mancavano forse delle sepolture in Egitto, che tu ci hai portato a morire nel deserto? ... Meglio sarebbe stato per noi servire agli Egiziani, che morire nel deserto» (Es 14,11-12).
Non è né facile né comodo essere «liberi»: perciò tutti siamo tentati di renderci «schiavi» (Oostoevskij)! Il messaggio della Quaresima è un pressante invito alla «libertà» attraverso la «conversione» del cuore, verificata sulle cose e sui fatti di ogni giorno.
Moderazione nel condannare - Gregorio Nazianzeno, Sermo 32, 30: Non è la stessa cosa strappare uno sterpo o un fiore e uccidere un uomo. Sei immagine di Dio e parli a un’immagine di Dio. Tu che giudichi sarai a tua volta giudicato (Mt 7,1); e giudichi il servo di un altro (Rm 14,4), che è governato da un altro. Esamina bene tuo fratello, come se tu dovessi essere misurato con la stessa misura. Attento a non tagliare e gettar via temerariamente un membro, nell’incertezza, perché le membra sane non abbiano ad averne un detrimento. Riprendi, rimprovera, scongiura. Hai la regola della medicina. Sei discepolo di Cristo mite e benigno, che portò le nostre infermità (Is 53,4). Se incontri una prima resistenza, aspetta con pazienza; alla seconda, non perdere la speranza, c’è ancora tempo per una cura; al terzo scontro cerca d’imitare quel benevolo agricoltore e chiedi al Signore che non sradichi il fico infruttuoso (Lc 13,8), che lo curi, che lo concimi, attraverso la confessione.
Forse si cambierà e porterà frutto e accoglierà Gesù che torna da Betania.
Santo del Giorno 23 Marzo 2025 - Turibio de Mogrovejo. Nei nostri angoli di mondo Dio è con noi: Ovunque siamo, sia anche nel nostro angolino di mondo sperduto, Dio non ci abbandona. Anche se dovessimo trovarci in terre sconosciute, come si trovò san Turibio de Mogrovejo, giurista divenuto missionario al di là dell’Oceano. Nato da famiglia nobile a Mayorga in Spagna nel 1538, studiò diritto canonico, diventando docente all’Università di Salamanca. Nel 1579 Filippo II lo scelse, anche se semplice laico, come arcivescovo di Ciudad de Los Reyes, oggi Lima, e Gregorio XIII confermò la nomina. Dopo l’ordinazione a Siviglia, raggiunse la propria sede episcopale nel 1581, mettendo subito mano alla riforma della Chiesa locale, partendo dal clero. Nel 1591 grazie a lui a Lima sorse il primo Seminario dell’America Latina. Visitò per tre volte la diocesi, che si estendeva su 450mila chilometri quadrati, un’opera che lo impiegò per 10 anni. S’impegnò inoltre nell’evangelizzazione delle popolazioni degli indios – di cui imparò la lingua –, difendendole anche dalle violenze dei “conquistadores”. A lui si devono i primi libri pubblicati in America del Sud: il Catechismo in spagnolo, in quéchua e in aymara. Impartì la Cresima a tre futuri santi: san Martino di Porres, san Francesco Solano e santa Rosa da Lima. Si ammalò durante una visita pastorale e morì a Saña nel 1606; è santo dal 1726. (avvenire)
O Dio, che ci nutri in questa vita
con il pane del cielo, pegno della tua gloria,
fa’ che manifestiamo nelle nostre opere
la realtà presente nel sacramento che celebriamo.
Per Cristo nostro Signore.
ORAZIONE SUL POPOLO
Guida, o Signore, i cuori dei tuoi fedeli:
nella tua bontà concedi loro la grazia
di rimanere nel tuo amore e nella carità fraterna
per adempiere la pienezza dei tuoi comandamenti.
Per Cristo nostro Signore.