21 Febbraio 2025
 
Venerdì VI Settimana T, O.
 
 Gen 11,1-9; Salmo Responsoriale Salmo 32 (33); Mc 8,34-9,1
 
Colletta
O Dio, che hai promesso di abitare
in coloro che ti amano con cuore retto e sincero,
donaci la grazia di diventare tua degna dimora.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La torre di Babele - Benedetto XVI (Omelia, 6 Gennaio 2008): Afferma il testo sacro che in origine “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gen 11,1). Poi gli uomini dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gen11,4). La conseguenza di questa colpa di orgoglio, analoga a quella di Adamo ed Eva, fu la confusione delle lingue e la dispersione dell’umanità su tutta la terra (cfr. Gen 11,7-8). Questo significa “Babele”, e fu una sorta di maledizione, simile alla cacciata dal paradiso terrestre. A questo punto inizia la storia della benedizione, con la chiamata di Abramo: incomincia il grande disegno di Dio per fare dell’umanità una famiglia, mediante l’alleanza con un popolo nuovo, da Lui scelto perché sia una benedizione in mezzo a tutte le genti (cfr. Gen 12,1-3). Questo piano divino è tuttora in corso e ha avuto il suo momento culminante nel mistero di Cristo. Da allora sono iniziati gli “ultimi tempi”, nel senso che il disegno è stato pienamente rivelato e realizzato in Cristo, ma chiede di essere accolto dalla storia umana, che rimane sempre storia di fedeltà da parte di Dio e purtroppo anche di infedeltà da parte di noi uomini. La stessa Chiesa, depositaria della benedizione, è santa e composta di peccatori, segnata dalla tensione tra il “già” e il “non ancora”. Nella pienezza dei tempi Gesù Cristo è venuto a portare a compimento l’alleanza: Lui stesso, vero Dio e vero uomo, è il Sacramento della fedeltà di Dio al suo disegno di salvezza per l’intera umanità, per tutti noi.
 
I Lettura: Il racconto della costruzione della torre dà una spiegazione della diversità dei popoli e delle lingue.
Essa è il castigo di una colpa collettiva che, come quella dei progenitori (cfr. Gen 3), è ancora una colpa di superbia: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra  (Gen11,4). L’unione sarà restaurata solo “nella pienezza del tempo” (Gal 4,4) in Cristo salvatore; questa unione sarà perfetta e compiuta con il miracolo delle lingue a pentecoste (At 2,5-12).
 
Vangelo
Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.
 
«Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»: dobbiamo mettere l’accento sulla volontà di Gesù di sottolineare che tutti devono seguire il suo insegnamento, folla e Apostoli.
Rinnegare se stessi è rinunciare a ritenersi padroni della propria vita. È donare incondizionatamente la propria vita a Dio: è permettere che Lui l’impasti, secondo la sua infinita sapienza, anche con l’acqua del dolore e della morte cruenta, cioè con la morte di croce. La croce per il cristiano non è un incidente di percorso. Il secondo paradosso è ancora più comprensibile: mentre la vita terrena vissuta rifiutando il Cristo va verso l’eterna dispersione, la vita terrena vissuta nel nome di Cristo, seguendolo nelle fatiche e nei patimenti, nonostante la morte terrena, va verso la perfetta comunione: i credenti infatti saranno una cosa sola con i Tre.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 8,34-9,1
 
In quel tempo, convocata la folla insieme ai suoi discepoli, Gesù disse loro:
«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.
Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita?
Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi».
Diceva loro: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza».
 
Parola del Signore.
 
Jacques Hervieux (Vangelo di Marco): Gesù chiama la folla insieme ai discepoli (v. 34a). Che Marco abbia dimenticato che il maestro si trova in terra pagana, accompagnato solamente dai propri discepoli (cfr. 8,27)? È poco probabile. Se in questo caso egli associa «la folla» al cerchio ristretto degli amici di Gesù è perché ritiene che il «nuovo insegnamento» del maestro sulla necessità della sua morte interessa i suoi lettori. L’evangelista ha approfittato del primo annuncio della passione di Gesù (8,31) per introdurre ora opportunamente una «catechesi» sul modo in cui i cristiani sono chiamati a seguire il loro maestro (v. 34b). Questo richiamo è assai duro da comprendere; e le parole adoperate sono sorprendenti a questo punto del vangelo! La crocifissione è il supplizio che i romani faranno subire a Gesù: nella situazione attuale, egli non poteva sapere che sarebbe perito di tale morte. Da parte sua, Marco presenta quest’esortazione circa 35-40 anni dopo la crocifissione di Gesù.
«Prendere la sua croce» per seguirlo ha acquistato un senso stranamente profondo. La Chiesa di Roma è duramente perseguitata: il martirio - per l’ appunto il cammino della croce - è un’eventualità concreta per i cristiani perseguitati: essi non devono temere di dover subire l’identica sorte del messia. La completa rinuncia a se stessi può essere chiesta a chiunque vuole davvero seguire le orme del Cristo.
Il motivo addotto da Gesù costituisce un celebre paradosso (v. 35)! Rifiutare di dare la propria vita per il Cristo - per la causa del vangelo - significa sciuparla completamente. La «salvezza» non consiste nell’incolumità della personale esistenza terrena: Marco insiste su questo punto (vv. 36-37). La vita umana è quanto di più prezioso si trova al mondo: è quindi necessario salvarla «a ogni costo», anche se ciò sembra troppo duro agli occhi degli uomini. L’evangelista non esita a trasmettere questo messaggio che costituisce la forza dei martiri: offrire la propria vita per il Cristo significa dare un pieno significato all’esistenza. E il tono assai deciso delle parole di Gesù non si presta a equivoci (v. 38). Provare «vergogna» del Cristo e delle sue parole ricorda la tentazione, che aspetta al varco i cristiani, di «rinnegare» il loro maestro piuttosto che morire per lui. Sulle labbra di Gesù vengono le spietate parole con le quali i profeti redarguivano il popolo di Dio infedele all’alleanza: Isaia trattava Israele da «stirpe dell’adultero e della prostituta» (Is 57,3). La severità di Gesù in questo passo è da intendere come parola del Signore risorto, riletta nel clima di una Chiesa perseguitata e fortemente tentata di apostasia. L’evangelista le ricorda con vigore che «il Figlio dell’ uomo» chiederà conto ai cristiani infedeli quando verrà nella gloria a giudicare il mondo. Si veda ancora più chiaramente l’esortazione di Gesù nel discorso sulla fine dei tempi (13,9-13).
In conclusione, una nota di speranza viene a temperare la gravità di queste parole. Gesù fa una promessa solenne (9,1), che ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Senza dubbio, essa possiede tutti i contrassegni dell’autenti­cità storica: in primo luogo la sua stessa solennità; poi il fatto che la si ritrova testualmente negli altri sinottici Mt 16,28; Lc 9,27.
 
I doni della croce - La croce non è il cuore del Vangelo. Il cuore del Vangelo è la Risurrezione di Cristo che ha squarciato le tenebre che avvolgevano gli uomini. La croce è stata assorbita dal quel grido che oltre misura ha colmato di gioia e di speranza il mondo intero: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto» (Mt 28,5-6).
Ma la croce è legata a doppia mandata con la Risurrezione, non solo cronologicamente, perché ha preceduto l’evento pasquale, ma esistenzialmente, perché ha preso per mano i credenti e li ha condotti sulla tomba vuota del Risorto catapultandoli in una vita nuova, nella vita del Risorto.
Così, creatura nuova, rivestito di Cristo, il discepolo si apre ai doni del Risorto: la pace, la gioia, lo Spirito Santo (Gv 20,19-22). Ma il dono più inebriante che la croce possa fare all’uomo che l’accoglie con gioia è la libertà. Solo se l’uomo si lascia inchiodare sulla croce entrerà «nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom 8,21). Sembra una pazzia, ma è proprio così. Ecco perché Gesù invita a prendere la croce: per sbarazzarsi una volta per sempre dalla concupiscenza «della carne, degli occhi e della superbia della vita» (1Gv 2,16) che rende veramente l’uomo schiavo.
Paolo insegna che i discepoli battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo (cf. Gal 3,27) e gli appartengono, Cristo però è stato crocifisso, quindi «quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24-26). Questa affermazione paolina molto forte «definisce la situazione dei cristiani in un modo che, a prima vista, sembra incompatibile con l’affermazione della libertà cristiana. Come può essere libera una persona inchiodata a una croce? Non c’è forse contraddizione? No, la libertà cristiana si accorda perfettamente con la crocifissione cristiana, perché ciò che è crocifisso è proprio l’ostacolo alla vera libertà, “la carne con le passioni e i desideri”, e questa crocifissione è unione a Cristo nell’amore, il quale rende liberi [cf. 2,19-20]. L’insegnamento di Paolo corrisponde all’esigenza di portare la croce per seguire Gesù, espressa nel vangelo [cf. Mc 8,34 e paralleli]» (ALBERT VANHOYE, Lettera ai Galati).
Ma vi è un altro dono che la croce porta ai discepoli del Cristo crocifisso: l’amicizia di Dio.
Gesù, un giorno, disse a Padre Pio: « Quante volte mi avresti abbandonato, figlio mio, se non ti avessi crocifisso. Sotto la croce si impara ad amare ed io non la do a tutti, ma solo alle anime che mi sono più care» (Ep. Vol. I, lettera 116). Gesù dà la croce soltanto ai suoi amici più cari, forse per questo nel mondo, e non soltanto nel mondo, ha pochi amici.
 
Bibbia per la formazione cristiana: Il racconto della torre di Babele è un nuovo esempio del fatto che la Bibbia non è un libro di scienze (della natura a del linguaggio), ma si preoccupa soltanto di trasmettere un messaggio religioso.
Il testo tuttavia rispecchia alcuni aspetti reali della città e della cultura di Babilonia:
- la diversità degli idiomi parlati dai molti prigionieri;
- l’uso dei mattoni per costruire gli edifici;
- la presenza di una torre piramidale a sette gradini (= ziggurat) sulla cui sommità si trovava un tempio consacrato a Marduk, il dio di Babele o Babilonia.
Questa «torre» - ce n’erano molte in Mesopotamia - rappresenta per l’autore biblico il simbolo del peccato fondamentale: la superbia. Contemplando la città, piena di splendidi edifici e di uomini che «non si comprendono», l’autore riflette sulla divisione fra gli uomini e la vede come una conseguenza dell’aver abbandonato Dio.
Il suo vivace racconto mette davanti ai nostri occhi la realtà di un mondo orgoglioso in cui gli uomini non si comprendono, si odiano e sono divisi perché non vogliono accettare Dio.
Anche oggi possiamo adorare «falsi dèi». Nella nostra civiltà, molti uomini si servono del progresso e della tecnica per schiavizzare altri uomini; alcuni vogliono godersi la vita sempre e comunque, anche a scapito degli altri; l’interesse particolare diventa la norma che regola l’esistenza di ciascuno. In questo modo la società civile si trasforma in una foresta vergine in cui non è possibile intendersi, perché ciascuno parla la lingua del proprio egoismo. Abitiamo in città senza Dio, in cui l’uomo è nemico dell’uomo.
Lo Spirito di Dio riunirà gli uomini nella chiesa di Gesù Cristo. Inviato nel giorno della pentecoste perché tutti possano capirsi e parlare la stessa lingua dell’amore e del rispetto, realizzerà in maniera piena e definitiva la sua opera nell’assemblea dei santi, nella Gerusalemme celeste.
 
Un’umanità scardinata dalla conflittualità - Christifideles laici 6: Non possiamo infine, non ricordare un altro fenomeno che contraddistingue l’attuale umanità: forse come non mai nella sua storia l’umanità è quotidianamente e profondamente colpita e scardinata dalla conflittualità. È questo un fenomeno pluriforme, che si distingue dal pluralismo legittimo delle mentalità e delle iniziative, e si manifesta nell’infausto contrapporsi di persone, gruppi, categorie, nazioni e blocchi di nazioni. È una contrapposizione che assume forme di violenza, di terrorismo, di guerra. Ancora una volta, ma con proporzioni enormemente ampliate, diversi settori dell’umanità d’oggi, volendo dimostrare la loro “onnipotenza”, rinnovano la stolta esperienza della costruzione della “torre di Babele” (cfr. Gen 11,1-9), la quale pero prolifera confusione, lotta, disgregazione ed oppressione. La famiglia umana è così in se stessa drammaticamente sconvolta e lacerata. D’altra parte, del tutto insopprimibile è l’aspirazione dei singoli e dei popoli al bene inestimabile della pace nella giustizia. La beatitudine evangelica: “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9) trova negli uomini del nostro tempo una nuova e significativa risonanza; per l’avvento della pace e della giustizia popolazioni intere oggi vivono, soffrono e lavorano. La partecipazione di tante persone e gruppi alla vita della società è la strada oggi sempre più percorsa perché da desiderio la pace diventi realtà. Su questa strada incontriamo tanti fedeli laici generosamente impegnati nel campo sociale e politico, nelle più varie forme sia istituzionali che di volontariato e di servizio agli ultimi.
 
Portare la sua croce - Cesario di Arles (Discorsi 159,5): Cosa vuoi significare l’espressione: «Prenda la sua croce»? Porti ciò che è molesto: in tal modo deve seguirmi. Quando comincerà a seguirmi secondo i miei mandati e i miei insegnamenti, avrà molti avversari, avrà molti che lo ostacoleranno, non avrà solo schernitori, ma anche persecutori (cfr. Mt 5,11). E questo non solo da parte dei pagani, che si trovano fuori dalla Chiesa, ma anche da parte di coloro, che sembrano essere all’interno del corpo, e che invece sono fuori per la malvagità delle loro azioni, e, benché si glorino del solo nome di cristiani, tuttavia perseguitano continuamente i buoni cristiani. Questi individui sono parte intima della Chiesa, come i cattivi umori sono parte del corpo (cfr. 2 Pt 2,1-3). Tu dunque, se desideri seguire Cristo, non rifiutarti di portare la sua croce: tollera i malvagi, non soccombere ad essi. Non ti corrompa la falsa felicità dei peccatori: infatti per Cristo devi disprezzare ogni cosa, perché tu possa sperare di unirti in comunione con lui.
 
Il Santo del giorno - 21 Febbraio 2025 - San Pier Damiani, vescovo e dottore della Chiesa: Nacque a Ravenna nel 1007. Ultimo di una famiglia numerosa, orfano di padre, ebbe come riferimento educativo il fratello maggiore Damiano. Di qui, probabilmente l’appellativo «Damiani». Dopo aver studiato a Ravenna, Faenza, Padova e insegnato all’università di Parma, entrò nel monastero camaldolese di Fonte Avellana. Nel 1057 il Papa lo chiamò a Roma per averlo accanto in un momento di crisi della Chiesa, dilaniata da discordie e scismi e alle prese con la piaga della simonìa. Nominato vescovo di Ostia e poi creato cardinale, aiutò i sei Papi che si succedettero al Soglio pontificio, a svolgere un’opera moralizzatrice. In quest’azione si avvalse particolarmente dell’abate benedettino di San Paolo Fuori le Mura, Ildebrando che nel 1073 fu eletto Papa con il nome di Gregorio VII. Pier Damiani, fu delegato pontificio in Germania, Francia e nell’Italia settentrionale. Morì a Faenza nel 1072. Nel 1828 Leone XII lo proclamò dottore della Chiesa. (Avvenire)
 
O Signore, che ci hai fatto gustare il pane del cielo,
fa’ che desideriamo sempre questo cibo che dona la vera vita.
Per Cristo nostro Signore.