21 Aprile 2024
 
IV Domenica di Pasqua
 
At 4,1-12; Salmo Responsoriale dal Salmo 117 (118); 1Gv 3,1-3; Gv 10,11-18
 
Colletta
Dio, nostro Padre,
che in Cristo buon pastore
ti prendi cura delle nostre infermità,
donaci di ascoltare oggi la sua voce,
perché, riuniti in un solo gregge,
gustiamo la gioia di essere tuoi figli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Le mie pecore ascoltano la mia voce: Giovanni Paolo II (Omelia, 16 aprile 1989): “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,27-30). Il Cristo è il Pastore buono e sapiente, e noi siamo le sue pecore, che prestano ascolto a quanto egli dice (cf. Gv 10,27) osservandone i comandamenti e andando dietro ai suoi passi con fede e amore. Egli ha cura del suo gregge e dà la vita per esso, perché ha profondamente a cuore quelli che il Padre gli ha dato (cfr. Gv 10,28). Il Cristo manifesta l’amore del Padre attraverso la libera e totale offerta di sé, affinché i suoi seguaci abbiano la vita eterna e nessuno li sottragga a lui. “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute” (Gv 10,28): queste consolanti parole proclama il Cristo, che nel sacrificio si comunica alle anime per diventare principio di vita piena ora e per l’eternità, in modo analogo a quello con cui il Padre si comunica al Figlio ed è con lui una cosa sola (cfr. Gv 6,59; 10,29).
 
I Lettura: Pietro, interrogato dai Sinedriti sulla guarigione dello storpio che mendicava alla porta Bella, ha l’occasione di annunciare loro la Buona Novella: lo storpio ha ricevuto la sanità fisica nel nome di Gesù, da loro ripudiato e condannato a morte, ma da Dio risuscitato dai morti. Una guarigione fisica che raggiunge l’uomo nella sua totalità in quanto lo guarisce, lo salva e innestandolo nella risurrezione di Gesù lo libera dalla morte.
 
II Lettura: L’affermazione-constatazione dell’apostolo Giovanni è di una straordinaria semplicità: i credenti già sono figli di Dio, ma il mondo non li conosce perché non conosce Dio. Una realtà che sfugge agli stessi credenti in quanto non hanno quella immediata percezione di Dio che avranno solo nel giorno della sua piena manifestazione. Allora, vedendo come lui veramente è, vedranno realmente chi sono loro.
 
Vangelo
Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
 
Rocco Pezzimenti: Siamo ancora nel pieno del periodo pasquale e il brano odierno del Vangelo spiega la grandezza dell’evento avvenuto. Gesù ci ricorda che ha dato la vita per noi e che ha avuto il potere di risorgere. “Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e di riprenderla di nuovo”. Il dare la vita è un fatto volontario che manifesta il suo grande amore per noi. Ci ha dato la sua vita perché noi potessimo diventare una sola cosa con Lui. Solo partecipando alla vita del Signore, si può avere la vita eterna. È questo l’insegnamento del buon pastore che ama le sue pecore non come il mercenario che le abbandona quando sono in difficoltà, proprio nel momento in cui avrebbero maggiormente bisogno. Il Cristo conosce le sue pecore in modo profondo e misterioso, perché le conosce come conosce il Padre. Ci conosce meglio di quanto noi stessi ci conosciamo, perché ci conosce nel disegno di Dio. Conosce le nostre debolezze come i nostri meriti. Come conosce anche le pecore che ancora non sono nel suo recinto, ma che, comunque, verranno. “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io debbo guidare”. Anche quelle verranno chiamate e ascolteranno la sua voce amorevole, perché morirà e resusciterà anche per quelle. Così vuole il Padre e il Signore non le abbandonerà e non lascerà che si perdano lontano da Lui.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
 
Il buon pastore - Nell’Antico Testamento, la figura allegorica del buon pastore oltre a rappresentare Dio (Cf. Gen 48,15; 49,24; Sal 23,1-4; 80,2; Sir 18,13; Is 40,11; Ger 31,10; Mic 4,6-8; 7,14; Sof 3,19; Zac 9,16; 10,3) indicava anche le guide spirituali del popolo eletto (Cf. Sal 78,72; Ger 2,8; 3,15; 10,21; 12,10, 22,22; ecc.). Questo uso passò nelle comunità cristiane (Cf. Ef 4,11; 1Pt 5,1-4; ).
Il brano odierno va letto alla luce di Ez 34, dove i pastori del popolo eletto vengono rimproverati perché lasciano le pecore in preda alle bestie selvatiche (vv. 1-10). Dio stesso si incarica di averne cura: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare» (vv. 11-16). Donando agli uomini suo Figlio Gesù (Cf. Gv 3,16) Dio realizza la sua promessa.
Per il testo greco Gesù è il bel (kalos) pastore, non volendo certamente esaltare i tratti fisici: nei LXX l’uso prevalente di kalos è quello di tradurre tob che significa buono, «non tanto però nel senso di una valutazione etica, quanto piuttosto in quello di gradito, soddisfacente, benefico; kalos è... ciò che è gradito a Jahvé, che gli procura gioia o gli piace» (E. Beyreuther). Gesù è il pastore buono perché compie ciò che piace al Padre. È il pastore, quello vero, gradito al Padre, perché affronta il lupo impegnando e donando la propria vita.
Al buon pastore si contrappone il mercenario cioè colui che lavora dietro determinato compenso giornaliero. Sono messi bene in evidenza sia la pusillanimità del pastore, che per salvare la vita abbandona le pecore e fugge; sia l’azione fulminea del lupo, che rapisce e disperde le pecore lasciate incustodite. Una scena drammatica quest’ultima, nella quale si può intravedere la situazione delle prime comunità cristiane assediate da nemici esterni ed interni. Tracce di questi “assedi pressanti” le troviamo, per esempio, nelle parole di Paolo nel discorso d’addio agli anziani di Èfeso: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio. Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé. Per questo vigilate» (Atti 20,28-31a).
Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me: per la sacra Scrittura, conoscere Dio per lo più non significa averne una conoscenza teorica, ma farne l’esperienza, per esempio, attraverso la storia (Cf. Is 41,20; Sal 91,11). Per Giovanni, la conoscenza «prende forma in un comportamento storico conforme a Dio e alla sua rivelazione storica. Poiché Dio rivela nella missione del Figlio il proprio amore per i suoi [Gv 17,23; 1Gv 4,9s] e per il mondo [Gv 3,16], oppure poiché il Figlio ama i suoi secondo la misura dell’amore con cui il Padre lo ama [Gv 15,9; 17,26], si realizza storicamente anche da parte dell’uomo amato un conoscere che appunto nell’amore trova la sua forma concreta [1Gv 4,8]: “Chi non ama non ha conosciuto Dio”. Come il Figlio esprime il suo amore per il Padre nell’obbedienza verso la missione che Dio gli ha affidato [Gv 14,31], così il conoscente esprime il suo conoscere nell’osservanza dei comandamenti [1Gv 2,3-5], specialmente di quello dell’amore fraterno [1Gv 4,7s; Cf. 2,7ss], nel non peccare [1Gv 3,6]» (E. D. Schmitz).
Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, cioè da Israele. È un chiaro cenno alla portata universale della salvezza. Ma può essere un’allusione ai «figli di Dio che erano dispersi» di 11,52, riuniti poi in un’unica nazione, o ai cristiani in conflitto con la comunità di Giovanni.
Ai Giudei e ai discepoli Gesù svela perché il Padre lo ama: il Padre mi ama: perché io do la mia vita. La compiacenza va ricercata nell’obbedienza alla volontà salvifica del Padre (Cf. Gv 4,4; 14,31), una obbedienza vissuta tra gli spasimi mortali della sofferenza (Cf. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22, 40-46; Gv 18,1; 12,27-30; Eb 5,7-10), ma lieta, serena, totale, completa fino «alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Mentre nei Vangeli sinottici è il Padre che consegna il Figlio, in Giovanni è il Figlio stesso che si dona.
Le ultime parole di Gesù marcano la sua divinità: a differenza di At 2,24, 4,10 e Rom 1,4; 4,24 dove è il Padre a risuscitare Gesù, liberandolo dai dolori della morte, qui, come Dio, mostra assoluto potere sulla vita e sulla morte: «Ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo». Naturalmente in perfetta e filiale comunione con il Padre, infatti subito dopo si aggiunge: «Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre».
 
Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni, Vol. II) - In Gv 10,14s l’evangelista non adopera più il «óida», bensì il sinonimo «ginôskein» e compone per stretta concatenazione, come appare nel testo strutturato:
Conosco le mie
e le mie CONOSCONO ME,
come MI CONOSCE il Padre
e IO CONOSCO il Padre.
La conoscenza di cui parla Gesù, in questo passo, deve essere intesa in senso biblico, come scambio di amore profondo (Cf. Am 3,2;Os 6,6; 13,4; Ger 22,16; Sal 37,18; 139,1-6). Essa quindi non consiste in una nozione intellettiva, ma in una penetrazione nell’essere della persona conosciuta.
Siamo perciò nella sfera del coinvolgimento esistenziale. Si tratta della conoscenza che porta all’unione personale, alla comunione perfetta.
Non a caso la conoscenza reciproca tra il Verbo incarnato e le sue pecore vuol motivare e spiegare l’amore profondo del buon Pastore per il suo gregge, in antitesi con l’atteggiamento del mercenario, il quale non si preoccupa affatto della sorte delle pecore (Gv 10,13-15). Gesù conosce i membri del popolo di Dio, come conosce esistenzialmente il Padre. Il buon Pastore ha tale conoscenza vitale delle sue pecore (Gv 10,27), simile a quella dei discepoli verso Dio (Gv 14,7; 17,3) e che il mondo, nemico della luce e della verità, non può possedere (Gv 16,3; 17,25).
La conoscenza mutua tra il Verbo incarnato e il suo gregge trova il termine di paragone e il fondamento nel rapporto d’amore tra il Padre e il Figlio (Gv 10,15). Tra queste due persone divine vige il più profondo scambio di vita e di conoscenza esistenziale. Per tale ragione Gesù può proclamare di conoscere bene Dio, a differenza dei suoi nemici che lo ignorano (Gv 7,28s; 8,19.55).
Il buon Pastore conosce così intimamente le sue pecore, le ama in modo tanto intenso, da deporre la sua anima a favore di esse (Gv 10,15). Egli sacrifica la sua vita con estrema libertà per la salvezza del suo gregge; ai suoi amici offre questa suprema prova di amore (Gv 15,13). Ora, il discepolo deve prendere esempio da questo modello divino nel dono di sé ai fratelli: «In ciò abbiamo conosciuto l’amore: egli per noi ha deposto la sua anima, anche noi perciò dobbiamo deporre l’anima per i fratelli» (1Gv 3,16).
A questo punto, il pensiero del buon Pastore corre alle pecore che non sono del recinto giudaico: anch’esse saranno conquistate al suo amore e così ci sarà un solo gregge e un solo pastore (Gv 10,16).
L’uso dei verbi al futuro, in questo passo, invita a pensare a un tempo posteriore, dopo che Gesù sarà morto per radunare in unità i dispersi figli di Dio (Gv 11,51s). In realtà il Verbo incarnato vuole salvare non solo i circoncisi, ma tutta l’umanità, tutto il mondo (Gv 3,16s; 4,42; 12,47).
L’ascolto della voce del buon Pastore, da parte delle pecore dell’altro recinto (Gv 10,16), indica l’adesione di fede e la docilità dei discepoli ellenisti. Il verbo ascoltare infatti, anche negli scritti giovannei, indica l’obbedienza della fede al Verbo incarnato, come il non-ascoltare significa il rifiuto di credere (Cf. Gv 8,47). Con la conversione dei pagani al vangelo, si rompono gli steccati tra i due recinti del mondo, quello giudaico e quello dei gentili, per formare un solo gregge, sotto un solo pastore (Gv 10,16). In realtà, secondo l’autore della lettera agli Efesini, il Cristo, la nostra pace, «ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo» (Ef 2,14).
 
La Parola di Dio commentata dai Maestri della Chiesa: La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo: «È manifesto per tutti che questo è detto del Cristo, perché lui stesso ha citato questa profezia: Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori avevano scartato è diventata capo d’angolo? [Mt 21,42]. I costruttori sono i giudei, i dottori della legge, gli scribi e i farisei che lo rifiutarono. Non diciamo con ragione noi che sei un Samaritano e hai un demonio? ... Costui non è da Dio, ma seduce la folla. Ora questo riprovato si è manifestato talmente approvato che è diventato testata d’angolo. Non una pietra qualunque è atta ad essere pietra angolare: è necessaria la pietra scelta, capace di unire due muri. Il profeta dice qui: respinto dai giudei e tenuto in nessun conto, è apparso talmente ammirabile che non solo si integra all’edificio, ma è lui che riunisce e tiene insieme i due muri. Quali muri? I credenti, giudei e gentili» (San Giovanni Crisostomo).
 
Il Santo del Giorno 21 Aprile 2024 - Sant’Anselmo d’Aosta, Vescovo e Dottore della Chiesa: Nasce verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese, entrambi nobili e ricchi. Travagliato il rapporto con la famiglia che lo invia da un parente per l’educazione. Sarà solo con i benedettini d’Aosta che Anselmo trova il suo posto: a quindici anni sente il desiderio di farsi monaco. Contrastato dai genitori decide di andarsene: dopo tre anni tra la Borgogna e la Francia centrale, va ad Avranches, in Normandia, dove si trova l’abbazia del Bec con la scuola, fondata nel 1034. Qui conosce il priore Lanfranco di Pavia che ne cura il percorso di studio. Nel 1060 Anselmo entra nel seminario benedettino del Bec, di cui diventerà priore. Qui avvierà la sua attività di ricerca teologica che lo porterà ad essere annoverato tra i maggiori teologi dell’Occidente. Nel 1076 pubblica il «Monologion». Nel 1093 diventa arcivescovo di Canterbury. A causa di dissapori con il potere politico è costretto all’esilio a Roma due volte. Muore a Canterbury nel 1109. (Avvenire)
 
O Dio, pastore buono,
custodisci nella tua misericordia
il gregge che hai redento con il sangue prezioso del tuo Figlio
e conducilo ai pascoli della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.