20 Giugno 2018

Mercoledì XI Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui” (Gv 14,23).

Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18: Gesù esamina tre pilastri della pietà dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non li condanna, saranno pilastri anche per i cristiani, ma condanna l’ostentazione farisaica. L’elemosina, la preghiera e il digiuno saranno autentici solo se compiuti per piacere a Dio.

Sac. Dolindo Ruotolo (I Quattro Vangeli): Gesù Cristo, dopo aver promulgato i precetti che compivano e perfezionavano l’antica Legge, passa a mostrare come si deve operare il bene, mettendo la creatura innanzi al Signore come figlia amorosa che cerca Lui solo sopra tutte le cose.
La Legge, infatti, soprattutto per i farisei, era diventata tutta una pratica esteriore, alla quale lanima era quasi completamente estranea; la sua sterile osservanza costituiva un mezzo per farsi onorare e per gonfiarsi in una stupida vanità; era necessario perciò che la pratica della Legge diventasse vita dell’anima e relazione di amore col Signore, perché solo così poteva essere fonte di pace e di interiore felicità.
Che cosa si guadagna a fare le cose per gli uomini? Niente altro che un gonfiore fastidiosissimo di vanità, degna ricompensa di una opera vana. L’unzione interiore della grazia di Dio, la sazietà del bene, che appaga l’anima, la tranquilla pace di chi si è elevato in alto, là dove non si avverte più il soffio tempestoso delle passioni, l’amore soavissimo verso Dio che nelle opere buone s’infiamma di più, la libertà dello spirito, la calma e caritatevole relazione verso le creature, l’aspirazione al premio eterno che rende facile l’atto di virtù, tutto svanisce quando si fa il bene per rispetto umano. Chi opera per gli uomini perde ogni semplicità ed ogni libertà, è schiavo dei pregiudizi, è disingannato dagli apprezzamenti disparati che si fanno sulle sue azioni, rimane impigliato in una rete che lo soffoca e dalla quale non sa districarsi, è scontento di sé e rimane sempre scontento degli altri.

L’elemosina - Giuliano Vigini: Dal concetto greco di “misericordia” (eleos), intesa come “opera buona” (eleémosyné) che si traduce concretamente in un’offerta ai più bisognosi di denaro o di beni, deriva anche il significato di elemosina nel Nuovo Testamento.
Per quanto sia poco frequente e circoscritto l’uso del termine - usato tredici volte e soltanto da Matteo (6,2-4) e Lc-At (Lc 11,41; 12,33; At 3,2-3.10; 9,36; 10,2.4.31; 24,17) -, la pratica ebraica dell’elemosina è ben presente nell’insegnamento di Gesù e nello stile di vita dei discepoli. Né poteva essere diversamente, visto che l’elemosina è una delle forme con cui si manifesta 1’amore di Dio e 1’amore del prossimo, cuore del messaggio di Gesù. La fraternità che anima la prima comunità cristiana (At 4,32-35) testimonia di questo impegno a sostenersi a vicenda e a soccorrere i più poveri (At 11,29; Rm 15,25-27; 1Cor 16,1-3).
Nel fare l’elemosina con generosità (Lc 12,33) - come fanno Tabità (At 9,36) o Cornelio (At 10,2) -, viene soprattutto raccomandata la discrezione, in modo che l’elemosina non diventi un’ostentazione fine a se stessa e dunque improduttiva agli occhi di Dio (Mt 6,2-4). Quello che conta, infatti, è sempre lo spirito con cui si dona, non solo nel segno della “compassione” e della “pietà” ma nell’ordine della carità e della giustizia.

Claude Wiéner: Con la venuta di Cristo l’elemosina conserva il suo valore, ma è collocata in una nuova economia che le conferisce un nuovo senso. 1. La pratica dell’elemosina. - Essa è ammirata dai fedeli, soprattutto quando è praticata da stranieri, da «persone che temono Dio», che manifestano in tal modo la loro simpatia per la fede (Lc 7,5; Atti 9,36; 10,2). Del resto Gesù l’aveva annoverata, assieme con il  digiuno e con la  preghiera, come uno dei tre pilastri della vita religiosa (Mt 6,1-18). Ma, raccomandandola, Gesù esige che sia fatta con un perfetto disinteresse, senza alcuna ostentazione (Mt 6,1-4), «senza nulla aspettare in cambio» (Lc 6,35; 14,14), e persino senza misura (Lc 6,30). Di fatto non ci si potrebbe accontentare di raggiungere una «tariffa» codificata per quanto elevata: alla decima tradizionale Giovanni Battista sembra sostituire una divisione a metà (Lc 3,11), che di fatto Zaccheo realizza (Lc 19,8), ma quel che Cristo si aspetta dai suoi è che non restino sordi a nessun appello (Mt 5,42 par.), perché i  poveri sono sempre in mezzo a noi (Mt 26,11 par.); infine, se non si ha più niente di proprio (cfr. Atti 2,44), rimane il dovere di comunicare almeno i doni di Cristo (Atti 3,6) e di lavorare per sovvenire a coloro che sono nel bisogno (Ef 4,28). 2. L’elemosina e Cristo. - L’elemosina è un dovere così radicale perché trova il suo significato nella fede in Cristo, questo in misura più o meno profonda. Se Gesù, con la tradizione giudaica, insegna che l’elemosina è fonte di  retribuzione Celeste (Mt 6,2ss), costituisce un tesoro in cielo (Lc 12,21.33s), grazie agli amici che uno vi si fa (Lc 16,9), non è a motivo di un calcolo interessato, ma perché attraverso i nostri fratelli disgraziati noi raggiungiamo Gesù in persona: «Ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli...» (Mt 25,31-46).
Se il discepolo deve dare tutto in elemosina (Lc 11,41; 12,33; 18,22), è anzitutto per poter seguire Gesù senza rimpiangere i suoi beni (Mt 19,21s par.); e poi per essere liberale come Gesù stesso, che «da ricco qual era si è fatto povero per voi, per arricchirvi mediante la sua povertà» (2Cor 8,9) Infine, per dimostrare che l’elemosina cristiana soggiace ad altre leggi oltre a quelle della semplice filantropia, Gesù non si è peritato di difendere contro Giuda il gesto gratuito della donna che aveva «sprecato» il valore di trecento giornate di lavoro, versando il suo prezioso profumo: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non avrete sempre me» (Mt 26,11 par.). I poveri appartengono all’economia ordinaria (Deut 15,11), naturale in una umanità peccatrice; Gesù, invece, significa l’economia messianica soprannaturale; e la prima non trova il suo vero senso se non per mezzo della seconda: i poveri non sono cristianamente soccorsi se non in riferimento all’amore di Dio manifestato nella passione e morte di Gesù Cristo. 3. L’elemosina nella Chiesa. - Anche se taluni atti gratuiti rimangono necessari per evitare di confondere il vangelo del regno e l’estinzione del pauperísmo, rimane vero che per raggiungere lo «sposo che ci è stato tolto» (cfr. Mt 9,15) bisogna soccorrere il nostro prossimo: «In che modo l’amore di Dio potrà dimorare in Colui che rifiuta ogni pietà dinanzi al fratello nel bisogno?» (1Gv 3,17; cfr. Giac 2,15). Come celebrare il sacramento della comunione eucaristica senza dividere fraternamente i propri beni (1Cor 11,20ss)? Ora l’elemosina può avere una portata ancora più ampia, e significare l’unione delle Chiese. È quel che Paolo vuol dire quando dà un nome sacro alla questua, alla colletta, che fa in favore della Chiesa-madre di Gerusalemme: è un «ministero» (2Cor 8,4; 9,1.12s), «una liturgia» (9,12). Di fatto, per colmare il fosso che incominciava a scavarsi tra la Chiesa d’origine pagana e la Chiesa d’origine giudaica, Paolo si preoccupa di manifestare mediante elemosine materiali l’unione di queste due categorie di membra dello stesso corpo di Cristo (cfr. Atti 11,29; Gal 2,10; Rom 15,26s; 1Cor 16,14); con quale ardore egli pronunzia un vero «sermone di carità» all’indirizzo dei Corinti (2Cor 8-9). Bisogna mirare a stabilire l’uguaglianza tra i fratelli (8,13), imitando la liberalità di Cristo (8,9); affinché Dio sia glorificato (9,11-14), bisogna «seminare con larghezza», perché «Dio ama chi dà con gioia» (9,6s).

Il digiuno: Raymond Girard: Poiché l’uomo è anima e corpo, non servirebbe a nulla immaginare una religione puramente spirituale: per impegnarsi, 1’anima ha bisogno degli atti e degli atteggiamenti del corpo. Il digiuno, sempre accompagnato da una preghiera supplice, serve ad esprimere l’umiltà dinanzi a Dio: digiunare (Lev 16,31) equivale ad «umiliare la propria anima» (16,29). Il digiuno non è quindi una prodezza ascetica; non mira a procurare qualche stato di esaltazione psicologica o religiosa. Simili utilizzazioni sono attestate nella storia delle religioni. Ma nel contesto biblico, quando l’uomo si astiene dal mangiare per tutto un giorno (Giud 20,26; 2 Sam 12,16s; Giona 3,7) mentre considera il cibo come un dono di Dio (Deut 8, 3), questa privazione è un atto religioso di cui bisogna comprendere esattamente i motivi; lo stesso per l’astensione dai rapporti coniugali. Ci si rivolge al Signore (Dan 9,3; Esd 8,21) in un atteggiamento di dipendenza e di abbandono totale: prima di affrontare un compito difficile (Giud 20,26; Est 4,16), od ancora per implorare il perdono di una colpa (1Re 21,27), sollecitare una guarigione (2Sam 12,16.22), lamentarsi in occasione di una sepoltura (1Sam 31,13; 2Sam 1,2), dopo una vedovanza (Giudit 8,5; Lc 2,27) o in seguito a una sventura nazionale (1Sam 7,6; 2Sam 1,12; Bar 1,5; Zac 8,19), per ottenere la cessazione di una calamità (Gíoe 2,12-17; Giudit 4,9-13), per aprirsi alla luce divina (Dan 10,12), per attendere la grazia necessaria al compimento di una missione (Atti 13,2s), per prepararsi all’incontro con Dio (Es 34,28; Dan 9,3). Le occasioni ed i motivi sono vari, ma in tutti i casi si tratta di porsi con fede in un atteggiamento di umiltà per accogliere la azione di Dio e mettersi alla sua presenza. Questa intenzione profonda svela il senso dei quaranta giorni trascorsi senza cibo da Mosè (Es 34,28) e da Elia (1 Re 19,8). Quanto ai quaranta giorni di Gesù nel deserto, che si modellano su questo duplice esempio, essi non hanno per scopo di aprirlo allo Spirito di Dio, perché ne è ripieno (Lc 4,1); se lo Spirito lo spinge a questo digiuno, lo fa perché inauguri la sua missione messianica con un atto di abbandono fiducioso nel Padre suo (Mt 4,14).
La liturgia giudaica conosceva un «grande digiuno» nel giorno dell’espiazione (cfr. Atti 27,9); la sua pratica era una condizione di appartenenza al popolo di Dio (Lev 23,29). C’erano pure altri digiuni collettivi nei giorni anniversari delle sventure nazionali. Inoltre i Giudei pii digiunavano per devozione personale (Lc 2,37); così i discepoli di Giovanni Battista ed i Farisei (Mc 2,18), taluni dei quali digiunavano due volte la settimana (Lc 18,12). Con ciò si cercava di soddisfare uno degli elementi della giustizia definita dalla legge e dai profeti. Se Gesù non prescrive nulla del genere ai suoi discepoli (Mc 2,18), non è perché disprezzi questa giustizia oppure voglia abolirla; ma viene a compierla; e perciò vieta di ostentarla ed invita, su taluni punti, a superarla (Mt 5,17.20; 6,1). Gesù insiste maggiormente sul distacco nei confronti delle ricchezze (Mt 19,21), sulla continenza volontaria (Mt 19,12) e soprattutto sulla rinuncia a se stessi per portare la Croce (Mt 10,38-39).
Di fatto la pratica del digiuno non è esente da taluni pericoli: pericolo di formalismo, già denunciato dai profeti (Am 5,21; Ger 14,12); pericolo di orgoglio e di ostentazione, se si digiuna «per essere visti dagli uomini» (Mt 6,16). Per piacere a Dio, il vero digiuno deve essere unito all’amore del prossimo ed implicare una ricerca della vera giustizia (Is 58,2-11); esso non è separabile né dall’elemosina, né dalla preghiera. Infine, bisogna digiunare per amore di Dio (Zac 7,5). Gesù quindi invita a farlo con una perfetta discrezione: noto a Dio solo, questo digiuno sarà la pura espressione della speranza in lui, un digiuno umile che aprirà il cuore alla giustizia interiore, opera del Padre che vede ed agisce nel segreto (Mt 6,17s). In materia di digiuno la Chiesa apostolica conservò le usanze del giudaismo, compiute nello spirito definito da Gesù. Gli Atti degli Apostoli menzionano celebrazioni cultuali implicanti digiuno e preghiera (Atti 13,2ss; 14,23). Durante il suo massacrante lavoro apostolico, Paolo non si accontenta di soffrire la fame e la sete quando lo esigono le circostanze; vi aggiunge ripetuti digiuni (2Cor 6,5; 11,27). La Chiesa è rimasta fedele a questa tradizione, cercando con la pratica del digiuno di mettere i fedeli in un atteggiamento di apertura totale alla grazia del Signore, in attesa del suo ritorno. Infatti, se la prima venuta di Cristo ha posto fine all’attesa di Israele, il tempo che consegue alla sua risurrezione non è quello della gioia totale in cui gli atti di penitenza sarebbero fuori posto. Difendendo, contro i farisei, i suoi discepoli che non digiunavano, Gesù stesso ha detto: «Possono forse digiunare gli amici dello sposo, finché lo sposo è con essi? Verranno giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora in quei giorni digiuneranno» (Mc 2,19s par.). In attesa che lo sposo ritorni a noi, il digiuno penitenziale ha il suo posto nelle pratiche della Chiesa. 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  In attesa che lo sposo ritorni a noi, il digiuno penitenziale ha il suo posto nelle pratiche della Chiesa.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, fortezza di chi spera in te, ascolta benigno le nostre invocazioni, e poiché nella nostra debolezza nulla possiamo senza il tuo aiuto, soccorrici con la tua grazia, perché fedeli ai tuoi comandamenti possiamo piacerti nelle intenzioni e nelle opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo...