2 Maggio 2018 - Mercoledì Feria V Settimana di Pasqua di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Giovanni 15,1-8: La vigna, come segno di benedizione, nell’Antico Testamento, soprattutto nei libri profetici, raffigurava il popolo d’Israele. Ma poiché la vigna-Israele aveva prodotto «uva selvatica», dal Signore sarà trasformata in pascolo e calpestata dai suoi nemici. Il popolo eletto da Dio, «scelto come vigna scelta, tutta di vitigni genuini» (Ger 2,21), sarà abbandonato alla ferocia degli invasori che invaderanno il paese e devasteranno la vigna (Cf. Ger 2,10). Pur tuttavia, «sebbene i profeti abbiano utilizzato la vigna come immagine che serviva ad esprimere con forza e vivacità poetica il castigo divino, l’immagine rimaneva comunque aperta ad un ulteriore sviluppo che, sulla linea del Salmo 80, si sarebbe operato in un orizzonte di speranza e di salvezza», spingendo in questo modo «il credente a guardare in avanti, verso quel futuro nel quale rifulgerà in tutta la sua pienezza l’azione imprevedibile, ma sempre amorosa, di Dio» (G. Odasso).


Io sono la vite vera - G. B. (Vigna-Vite in Schede Bibliche Pastorali, Vol. VII, EDB): Osea, il profeta che condannava l’infe­deltà di Israele presentandola come un vero adulterio nei confronti dello sposo JHWH, aveva descritto il deserto come il periodo ideale dell’amore fedele, delle tenerezze inconfondibili del fidanzamento. Allora Israele, per la sua amorosa fedeltà, aveva portato frutti copiosi di fedeltà a JHWH, era come un’uva nel deserto (Os 9,10). In questo contesto culturale e religioso non suscita meraviglia l’insistenza di Geremia ed Ezechiele sull’immagine della vite. Tutta la vita di Geremia e la prima parte del ministero profetico di Ezechiele (dal 593 al 586) erano infatti rivolti a convincere il popolo delle sue infedeltà, inculcando con forza l’invito alla conversione per stornare il castigo attirato con le proprie colpe. Queste profezie si riscontrano perciò, tematicamente, molto affini al carme della vigna in quanto ricordano con forza gli interventi salvifici di Dio e l’imminenza del giudizio. Così in Ger 2,19-22 il profeta mette in contrasto l’infedeltà del popolo e la cura amorevole di JHWH che l’aveva piantato come vigna preziosa, della più alta qualità; ma essa si è mutata in viticcio degenere di una vigna bastarda. Sempre il profeta di Anatot rileva sconsolato come molti pastori abbiano devastata la vigna del Signore e calpestato il suo campo, facendone un deserto (12,7-10). Il profeta Ezechiele portò alle estreme conseguenze la riflessione dei suoi predecessori affermando l’assoluta inutilità della vite che non produce i frutti attesi. Israele, vigna del Signore, è venuta meno alla sua missione affidatale da Dio e perciò non ha più ragione di esistere! In concreto, JHWH l’aveva piantata su buon terreno e su acque abbondanti, allo scopo di farne una vite magnifica (17,8). Ma poi essa ha tralignato. Ecco perciò il giusto castigo di Dio: getterà il legno della vite a far fuoco (15,1-6). Tale insistenza sull’immagine della vite, per prospettare efficacemente l’ineluttabile imminenza del castigo, costituisce un ulteriore indizio che ci orienta a collocare il tema della vigna nell’orizzonte dell’alleanza. Questa costituiva infatti il fondamento che permetteva ai profeti di proclamare l’ora del giudizio che il popolo aveva attirato su di sé con le sue progressive infedeltà agli impegni assunti con JHWH. E sarà ancora l’ideologia dell’alleanza che permetterà di dare una spiegazione adeguata all’esperienza traumatizzante dell’esilio, che gettando una vera luce sul passato evitasse il rischio della disperazione e facesse balenare, nella conversione, un nuovo orizzonte di speranza (2Re 17,15-18).
Abbiamo alcune testimonianze che ri­salgono al periodo postesilico, nelle quali il simbolo della vigna è permeato da un’atmosfera di serena fiducia nel perdono rinnovatore che JHWH continuamente concede al suo popolo. Il testo più significativo a questo proposito si riscontra in Is 27,2-5, un inno escatologico che celebra il gioioso compimento delle promesse e delle profezie che annunciavano la salvezza: «In quel giorno si dirà: La vigna deliziosa: cantate di lei! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. O, meglio, si stringa alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace!» (Is 27,2-5).
Il popolo che, dopo la dura esperienza dell’esilio, ricostruisce la propria vita nella terra dei padri, sente l’esaltante sicurezza di essere la vigna deliziosa di JHWH, l’interlocutore del suo amore e della sua salvezza. Dio stesso distruggerà per sempre i suoi nemici, a meno che anch’essi non aderiscano a lui nella pace dell’alleanza.
La novità che il NT apporta all’immagine della vigna va ricercata nell’affermazione di Gesù: «Io sono la vera vite» (Gv l5,l). Il detto fa parte dell’allegoria della vite che si legge in Gv 15,1-8.
L’immagine della vite, o della vigna, nell’AT designava Israele non già nella sua accezione politica, ma nella sua dimensione religiosa: indicava, cioè, Israele in quanto popolo di Dio, sua particolare proprietà (Es 19,5-6), unito a lui con il vincolo dell’alleanza. Ora Gesù applica a sé in modo pieno questa immagine. Egli, in altre parole, realizza perfettamente la missione di Israele, è il vero Israele. La relazione di intimità e di amore tra Dio e Israele raggiunge in lui una intensità non mai sospettata prima, perché Gesù è il Figlio unigenito, il Verbo continuamente rivolto col suo amore verso il cuore del Padre (Gv 1,18).


Rimanete in me (Gv 15,4) - I capitoli 13 -17 del Vangelo di Giovanni custodiscono due discorsi di Gesù enunciati durante l’ultima cena. Queste sue ultime parole, proprio perché pronunciate prima della sua beata passione, possono essere considerate come il suo testamento. Gesù «sta per lasciare i suoi discepoli, sta per fare ritorno al Padre. Egli ha già insegnato loro che non li abbandonerà, ma tornerà da loro con il Padre e lo Spirito della verità, per dimorare nel loro cuore. I discepoli possono vivere sempre vicini al Maestro, anche se non lo vedranno con gli occhi del corpo; anzi essi dovranno rimanere intimamente uniti al loro Signore, se vorranno portare molto frutto» (Salvatore Alberto Panimolle).
L’immagine della vigna richiama numerosi passi dell’Antico Testamento nei quali il popolo d’Israele viene definito una vigna (Cf. Sal 80,15; Is 3,14; 5,1-7; 27,2; Ger 2,21; 6,9; 11,17; Ez 15,2; 17,5-10; 19,10; Os 10,1; Na 2,2).  Sir 24,17 raffigura la Sapienza a una vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori danno frutti di gloria e ricchezza».
Nel brano giovanneo il Padre è l’agricoltore e poiché nella parabola si parla di una vite, può essere inteso in senso più restrittivo come vignaiolo. Il Figlio è la «vite vera» (Cf. Sal 84,16).
Se i Profeti paragonavano Israele a una vigna ed esprimevano rincrescimento per la scarsità e la cattiva qualità dei frutti, Gesù nel paragonare se stesso alla «vite vera» e i discepoli ai tralci vuole suggerire ai suoi amici che in avvenire non ci sarà più scarsezza di frutti per difetto della vigna; una fecondità che sarà donata anche alla sua Chiesa, ai suoi discepoli: se resteranno fedelmente uniti lui, essi faranno frutti abbondanti e duraturi.
L’evangelista Giovanni, nel riprendere l’immagine della vite, vuole illustrare e sottolineare soprattutto la necessità dell’unione profonda dei discepoli con Gesù. E lo fa usando con insistenza l’espressione rimanere in. Un’espressione a lui tanto cara da ripeterla ben cinque volte in questo brano. Rimanere in, per l’autore del IV Vangelo, indica prima di tutto una relazione personale tra Gesù e i suoi discepoli-amici (Cf. Gv 8,31.35; 15,9-10.15; Sap 3,9), ma per comprendere il senso della esortazione nella sua valenza più pregnante occorre ricordare che l’invito è preceduto da due oscure e dolorose profezie fatte da Gesù prima di consegnarsi nelle mani dei carnefici: quella della sua morte (Cf. Gv 12,1-7) e quella dell’apostasia di un suo discepolo (Cf. Gv 13,21-30). Gesù, dunque, mentre si avvicina la sua ultima ora, l’ora dei suoi nemici («l’impero delle tenebre» Lc 22,53; Cf. Lc 4,13), raccomanda ai suoi amici di rimanere uniti a lui e lo fa intenzionalmente perché «vuole impedire che la sua passione e la sua morte imminenti interrompano il rapporto che lega lui ai discepoli, quelli che lo hanno seguito durante il suo ministero in Palestina. Ma si rivolge anche chiaramente a tutti i suoi discepoli futuri, ai membri della sua Chiesa, per affermare con forza la necessità che essi restino uniti a lui e al suo Vangelo, che non interrompano il canale che comunica a loro la sua vita: solo così essi prenderanno parte già fin d’ora al grande dono della vita eterna [11,25-26]» (Don Alfonso Sidoti).
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto: solo se il credente-tralcio, potato amorevolmente dal Padre, rimane unito alla Vite divina potrà portare abbondanti frutti di vita eterna: «Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (Rom 6,5). In altre parole, restare uniti a Gesù significa ricevere il dono della lettura intelligente e sapienziale della sua passione e della sua morte: il discepolo conoscerà «lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,10-11). In questo è glorificato il Padre mio: ogni volta che i discepoli si sforzano, con l’aiuto della grazia, di portare copiosi frutti, il loro agire è anche manifestazione della gloria del Padre (Cf. Gv 14,3).


In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli - Se tutta la vita dei credenti deve essere tesa a dare gloria a Dio, con queste parole Gesù suggerisce ai suoi seguaci come possono glorificare il Padre che è nei cieli: Dio è glorificato dai credenti quando essi, mostrandosi al mondo autentici discepoli di Gesù, si impegnano a portare abbondantemente i «frutti dello Spirito» (Gal 5,22).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ricorda che Cristo a «coloro che ha unito alla sua vita e alla sua missione, concede di partecipare anche alla sua funzione sacerdotale, perché abbiano ad esercitare il culto spirituale, a gloria di Dio e a salvezza degli uomini» (LG 34).
Perciò i fedeli con la loro vita santa, seguendo «le orme [di Cristo] e divenuti conformi alla sua immagine, fedelmente obbedienti alla volontà del Padre» devono dedicarsi «con tutto il cuore alla gloria di Dio e al servizio del prossimo» (LG 40). E ancora, tutti i cristiani «in forza del precetto della carità, che è il più grande comandamento del Signore, vengono sollecitati a procurare la gloria di Dio con l’avvento del suo regno» (AA 3).
Tuttavia la gloria perfetta a Dio sarà resa dalla Chiesa «nel giorno in cui sarà consumata, e in cui gli uomini, salvati dalla grazia, renderanno gloria perfetta a Dio, come famiglia da Dio e da Cristo fratello amata» (GS 32). E il giorno della consumazione, anche se in punta di piedi, viene ricordato da Gesù nel brano odierno: «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano».
Un’allusione chiara al giudizio particolare prima e universale dopo: «Nel giorno del giudizio, alla fine del mondo, Cristo verrà nella gloria per dare compimento al trionfo definitivo del bene sul male che, come il grano e la zizzania, saranno cresciuti insieme nel corso della storia. Cristo glorioso, venendo alla fine dei tempi a giudicare i vivi e i morti, rivelerà la disposizione segreta dei cuori e renderà a ciascun uomo secondo le sue opere e secondo l’accoglienza o il rifiuto della grazia» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 680-681).
Gli uomini, lasciata la vita terrena, vanno incontro al giudizio divino (Cf. Mt 25,31-46) e qui conoscono il loro ultimo destino: se sono rimasti uniti alla vite vera ricevono il regno preparato per loro fin dalla creazione del mondo; se sono rami secchi sono gettati nel fuoco eterno, preparato per i diavoli e per i suoi angeli. Un monito che non deve atterrirci e non deve essere considerato fuori moda.
Il giudizio finale è «una realtà, un evento al quale saremo sottoposti anche noi. Se la nostra vita è contrassegnata dalla sterilità di fede, se noi siamo tralci infruttuosi, veniamo già ammoniti sulla sorte che ci attende alla fine dei nostri giorni. Sempre, ma soprattutto nei momenti forti della vita dobbiamo riflettere sul giudizio, non per rattristarci o disperarci, ma per stimolarci a una conversione sincera e profonda» (Salvatore Alberto Panimolle). Dove poi vengono gettati i rami secchi è ben conosciuto: «Gesù parla ripetutamente del fuoco inestinguibile che è riservato a chi, fino alla fine della vita, rifiuta di credere e di convertirsi. La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, il fuoco eterno. La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita, e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1034-1035). L’Inferno, una possibilità per tutti gli uomini, lì dove c’è la testarda volontà di vivere e di morire nel peccato.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio di infinita sapienza, che hai suscitato nella tua Chiesa il vescovo sant’Atanasio, intrepido assertore della divinità del tuo Figlio, fa’ che per la sua intercessione e il suo insegnamento cresciamo sempre nella tua conoscenza e nel tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...