26 Novembre 2019

Martedì XXXIV Settimana T. O.

 Dn 2,31-45; Salmo Responsoriale da Dn 3,57-61; Lc 21,5-11

Colletta: Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza, ottengano in misura sempre più abbondante i doni della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Il tempio di Gerusalemme fu distrutto una prima volta, nel 587 a. C., dal re di Babilonia, Nabucodonosor, nel corso della guerra condotta contro l’Egitto per la conquista della Siria. Di queste vicende rimangono testimonianze archeologiche. Sono state rinvenute delle iscrizioni di tali avvenimenti su tavolette ritrovate nella zona dove sorgeva Babilonia e in numerosi reperti archeologici trovati a Gerusalemme.
Il tempio era stato costruito dal re Salomone intorno al 960 a. C. per essere “la casa del Signore”. La sacra Scrittura fa un elenco dettagliato dell’incalcolabile materiale utilizzato per la costruzione del tempio (1Cr 22,1ss; 1Re 6,1ss).
Il tempio sorgeva sulla spianata dove oggi si trovano le moschee di Al Aqsa e di Omar.
Fu ricostruito nel 515 a.C., dopo che Ciro, re dei Persiani, conquistata Babilonia, permise agli ebrei di lasciare questa città, dove li aveva deportati Nabucodonosor.
Il tempio fu arricchito e abbellito in epoca romana, chi mise mano a questa opera di ricostruzione e di abbellimento fu Erode il Grande. Il Vangelo di Giovanni ricorda i “quarantasei anni” che furono necessari per portare a termine i lavori (Gv 2,26). Il tempio fu distrutto definitivamente dall’imperatore Tito nel luglio del 70 d.C., per soffocare la rivolta degli ebrei contro Roma. Nel 73 fu soffocata nel sangue un nuova insurrezione, ma la distruzione divenne ancora più radicale sessant’anni dopo, quando l’imperatore Adriano rase completamente al suolo Gerusalemme in seguito all’ennesima sommossa.
L’imperatore Adriano, con sadica magnanimità, concesse una singolare punizione a quegli ebrei che, pur di aver salva la vita, accettarono di rimanere sul posto come schiavi. L’imperatore romano accordava loro il diritto di poter piangere i loro cari davanti il muro in rovina del tempio distrutto, un giorno all’anno, il nove del mese di Ab. Questo ordine era stato concepito come un monito, per far ricordare loro la sconfitta, il massacro dei loro padri, ma si trasformò in seguito per tutti gli Ebrei in un culto, un luogo simbolico dove piangere, pregare, ma soprattutto attendere il giorno del castigo divino su chi aveva oppresso e cancellato dalla loro terra un popolo.

L’evangelista Luca che aveva già parlato del ritorno glorioso di Gesù alla fine dei tempi (Lc 17,22-37), qui, tratta della rovina di Gerusalemme (21,5-7) e dei segni premonitori che precedono la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo (21,8-19). Nel racconto della distruzione della città santa e del suo tempio, si può cogliere anche un’allusione alla fine del mondo. Come la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio segna la fine di una nazione con le sue leggi, le sue tradizioni e la nascita di nuovi assetti politici-religiosi, così la venuta del Signore contrassegna la fine di un mondo vecchio e la comparsa di nuovi cieli e una terra nuova (2Pt 3,13). Per il cristiano, la venuta del Signore è giorno di gioia, compimento delle promesse e liberazione piena. Poiché il giorno del Signore verrà nell’ora che non immaginiamo, il discepolo fedele, non lasciandosi trascinare da false sicurezze, deve prepararsi alla venuta del Redentore con la preghiera, la vigilanza, la penitenza e la fiducia nella salvezza che Dio gli offre.

Dal Vangelo secondo Luca 21,5-11: In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. 

Verranno giorni... Il racconto lucano si differenzia sostanzialmente da quello marciano in quanto Luca, a differenza di Marco, rimuove la cornice apocalittica e distingue la distruzione di Gerusalemme dai segni che precedono la manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo.
Le parole di Gesù si avvereranno quando il malgoverno romano e i fermenti religiosi provocheranno la gravissima rivolta che si protrasse dal 66 al 70 per la quale fu necessario l’intervento delle legioni romane comandate da Tito il quale, sedata la rivolta, distrusse la città e il tempio.
Alla profezia sulla rovina del tempio segue il discorso sui segni premonitori la fine del mondo.
Il discorso è un compendio di fatti e avvenimenti comuni che attraversano quotidianamente la storia dell’uomo: proprio per la loro abituale ripetitività i discepoli non devono dare la stura ad ambigue interpretazioni. Innanzi tutto l’apparizione di falsi profeti poi l’esplosione di guerre e rivoluzioni.
Forse il testo lucano si riferisce ai disordini seguiti alla morte di Nerone. La storia umana sarà sempre piena di apparizioni di sedicenti profeti e di orrende carneficine che fatalmente accompagneranno i passi del mondo fino alla sua totale consumazione.
A questi fatti seguiranno terremoti, carestie e pestilenze, accompagnati da fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo: anche se questi eventi precederanno la fine del mondo essa però non è prossima.
I cristiani saranno coinvolti in questi luttuosi avvenimenti, ma non si faranno travolgere dalla paura, resteranno in fervorosa attesa della venuta di Gesù, il quale giudicherà l’umanità.

Badate di non lasciarvi ingannare - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): versetto 8 Per quanto concerne i segni precursori della rovina di Gerusalemme l’autore del terzo vangelo segue fondamentalmente il racconto di Marco; egli tuttavia vi aggiunge dei nuovi elementi e vi apre delle nuove prospettive; per una spiegazione più estesa dei dati comuni ai tre sinottici rinviamo il lettore al commento dei testi di Mt., 21,4-14; Mc., 13,4-13; le presenti note illustreranno i tratti propri di Luca. Il tempo è imminente. Non seguiteli; all’apparizione dei falsi Messia, l’evangelista aggiunge anche quella dei falsi profeti che proclamano l’imminenza della fine del mondo attuale («il tempo è imminente»; cf. Lc., 17,23). «Non seguiteli»; il Maestro, ammonendo di non dar ascolto a queste false predizioni, avverte gli uditori di non attendere entro un tempo prossimo la fine del «secolo» presente, fine che coincide con l’avvento del regno glorioso del Messia. Già da questa prima precisazione si nota come l’evangelista tenda a chiarire le affermazioni di Marco.
versetto 9 Di guerre e di insurrezioni; in luogo dell’espressione: «rumori di guerre», che ricorre in Matteo e Marco, si ha: «insurrezioni»; il termine indica: sommossa, rivoluzione, guerra civile. Bisogna che prima ciò avvengama non (seguirà) subito la fine; con una frase elaborata l’autore precisa le prospettive indicate oscuramente nei testi paralleli di Matteo e di Marco. L’evangelista con le espressioni: «prima» e «non subito» mette a fuoco il senso del discorso escatologico assicurando innanzitutto il lettore che la fine non è immediata.
versetti 10-11 Con il linguaggio proprio del genere apocalittico – genere che ricorre ad immagini imponenti e di carattere cosmico — Luca descrive i segni precursori della fine. I due verss., secondo la prospettiva indicata dall’evangelista, si riferiscono alla fine di Gerusalemme, anche se la descrizione che essi presentano ha una portata cosmica (cf. verss. 25-26); infatti subito dopo, cioè al vers. 12, i segni di cui si parla sono messi in relazione con le prove riservate ai discepoli; i due verss. quindi vanno considerati come una spiegazione più particolareggiata del vers. 9. I segni sono descritti con una particolare grandiosità ed imponenza di immagini; l’evangelista infatti ha in proprio le seguenti espressioni: grandi («terremoti», cioè: violenti terremoti); pestilenze; fatti terrificanti (= fenomeni spaventosi) e nel cielo segni portentosi; tali segni celesti alludono a eclissi di sole o di luna o ad altri fenomeni, come apparizioni di comete.

Non sarà lasciata pietra su pietra: Giovanni Paolo II (Omelia, 19 Novembre 1995): [...] il brano del Vangelo tratto da Luca ha un carattere escatologico. In esso, però, non è preponderante il tema della fine del mondo, ma l’annuncio della distruzione di Gerusalemme. “Verranno giorni – dice Gesù – in cui di tutto quello che ammirate non resterà pietra su pietra che non venga distrutta” (Lc 21, 6). Chi ascoltava queste parole aveva visto con i propri occhi la magnificenza del tempio di Gerusalemme. Il Signore, pertanto, annunciava eventi relativamente vicini nel tempo. È noto, infatti, che la distruzione di Gerusalemme e del tempio ebbero luogo nel settanta dopo Cristo.
Alla domanda: “Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?” (Lc 21,7), Cristo dà una risposta che direttamente riguarda la distruzione di Gerusalemme, ma potrebbe anche riferirsi alla fine del mondo. Preannuncia guerre e rivolgimenti, ammonendo contro i falsi messia: “Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo” (Lc 21,10-11).
Simili eventi accompagnarono la caduta di Israele e la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani, ma si può dire che si sono realizzati anche in altre epoche della storia. Non ha forse visto il nostro secolo molte guerre e rivoluzioni? La storia dell’uomo e quella dell’umanità portano il segno del loro destino escatologico. L’orientamento del tempo verso le “ultime realtà” ci rende consapevoli di non avere sulla terra una stabile dimora. Siamo infatti in attesa di un eterno destino, costituito da quel mondo futuro, l’eone redento, in cui abitano stabilmente la giustizia e la pace.
4. Le parole di Cristo si riferiscono indubbiamente pure alla comunità dei primi discepoli: essi dovranno attraversare prove difficili, saranno consegnati alle sinagoghe e saranno messi in prigione, trascinati davanti a re ed a governanti a causa del suo nome (cf. Lc 21,12). E subito aggiunge: “Questo vi darà occasione di rendere testimonianza” (Lc 21,13). Cristo, che dirà: “Mi sarete testimoni... fino agli estremi confini della terra” (At 1,8), sottolinea qui che non si tratterà di una testimonianza facile, ma tanto più difficile per il fatto che quanti professano pubblicamente la loro fede potranno sperimentare la persecuzione da parte dei loro cari. “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (Lc 21,16-17). Noi, oggi, ascoltiamo ancora una volta queste gravi parole che hanno preparato gli Apostoli e tutta la Chiesa ad affrontare varie prove, non soltanto quelle incontrate dai cristiani dei primi secoli ma anche quelle del nostro secolo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Noi, oggi, ascoltiamo ancora una volta queste gravi parole che hanno preparato gli Apostoli e tutta la Chiesa ad affrontare varie prove, non soltanto quelle incontrate dai cristiani dei primi secoli ma anche quelle del nostro secolo.” (Giovanni Paolo II).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questi santi misteri
ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita,
non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.





25 Novembre 2019

Lunedì XXXIV Settimana T. O.

 Dn 1,1-6.8-20; Sal da Dn 3,52-56; Lc 21,1-4

Colletta: Ridesta, Signore, la volontà dei tuoi fedeli perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza, ottengano in misura sempre più abbondante i doni della tua misericordia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Gesù non teme di accusare palesemente di falso e di disonestà gli scribi notoriamente conosciuti come esperti interpreti della Legge. Sedutosi dinanzi al tesoro sembra prendersi un po’ di riposo contemplando la grandezza del tempio, dimora della gloria di Dio, ma non può non soffermarsi sulla ipocrisia di coloro che sfacciatamente si autoproclamano «maestri in Israele» (Gv 3,10). E questa volta lo fa con garbo, quasi in punta di piedi, evidenziando il gesto generoso di una vedova che mette nelle casse del tesoro tutta la sua sussistenza. È un modo spiccio per insegnare ai suoi discepoli la carità, quella delle occasioni ordinarie che non ha come contraccambio gli applausi degli uomini.

Dal Vangelo secondo Luca 21,1-4: In quel tempo, Gesù alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, e disse: «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere».

Vide anche una povera vedova - Hugues Cousin: Il racconto ... è strettamente collegato al precedente: Gesù ha appena finito di mettere in guardia, che si guarda attorno e nota un singolare contrasto.
Le offerte fatte dai ricchi per il tesoro del tempio non sono paragonabili con quella, apparentemente assai modesta - «due monetine» da dieci centesimi - di una vedova povera. Con solennità, Gesù corregge questa valutazione: l’importante non è quello che si offre, ma la somma che si serba in proprio possesso; ora, a differenza dei ricchi, la vedova ha offerto tutto quello che aveva per vivere e non ha conservato nulla.
Ciò nonostante, possiamo dire che Gesù elogia questa vedova e la propone come modello ai discepoli? Ci è noto l’interesse costante che Gesù, in Luca, prova verso gli umili, tra cui le vedove (4,25-26; 7,12; 18,3.5; 20,47), spesso emarginate in una società largamente dominata dagli uomini. Soprattutto, il legame tra questa scena quella precedente - la critica ai dottori della legge che «strappano alle vedove quello che ancora possiedono» - ci aiuta a comprendere come Luca interpreta questo racconto. Qui Gesù non fa tanto l’elogio di una vedova povera, quanto un lamento sul modo in cui essa viene sfruttata; indirettamente denuncia una pratica diffusa tra i dottori della legge, che convincono le vedove a spogliarsi di tutto a loro vantaggio. Il difensore di coloro che vengono sfruttati non può che condannare un sistema di valori che porta a una tale aberrazione.

Gesù alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Il tesoro era un locale posto in un atrio del tempio dove erano collocate tredici cassette destinate a raccogliere le elemosine il cui ricavato doveva servire per il buon funzionamento del tempio e del culto. Erano di ferro e il tintinnio della moneta che scivolava dentro, ai buoni intenditori, dava il reale ammontare delle offerte. Sulle cassette erano poste delle targhette su cui era indicata la destinazione dell’obolo. Per cui a volte stazionava lì un addetto del tempio il cui compito era di indicare, soprattutto a chi non sapeva leggere, la buca dove introdurre la moneta. Poi strillava il valore delle offerte, certamente quelle più consistenti, suscitando consensi di ammirazione.
Tra i tanti paludati, applauditi a scena aperta, si fa spazio una povera vedova che getta nel tesoro «due monetine». E così accade che il suono delle monete e lo strillone, denunciando l’esigua offerta, suscitano tra i presenti brontolii e mugolii di disapprovazione. Il tintinnio, lo strillo e i mugugni non sono sfuggiti nemmeno a Gesù ma con una risonanza nel suo cuore molto, molto diversa. Gesù a questo punto chiama a sé i discepoli che forse si erano allontanati per cicalare con i detrattori della povera donna. Li chiama per insegnare loro come Dio vede, valuta e giudica i gesti degli uomini, a differenza degli umani spesso prigionieri della loro effimera sapienza. Quello che conta agli occhi di Dio è il valore morale del dono non quello commerciale, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1Re 16,7). È anche una lezione sulla carità. Quella spicciola, quella di tutti i giorni che non porta lo sporco della bava della superbia.
Ma c’è un altro insegnamento che dovrebbe lasciare insonni tutti i credenti. La vedova, facendo scivolare nel tesoro «tutto quanto aveva per vivere», compie un atto di fede pieno, totale. Dando tutto ha manifestato di fidarsi di Dio e lo ha fatto in un modo molto pratico, lo ha fatto non riservando nulla per sé e il suo futuro. Ha abbandonato tutte le sue sicurezze e si è affidata completamente a Dio sostenuta dalla certezza che il Signore, «Padre dei poveri e difensore delle vedove» (Sal 68,6), non l’avrebbe abbandonata. Questo gesto così diventa per la comunità cristiana un serio esame di coscienza: la mia fede è vissuta veramente come adesione totale a Dio? Tale adesione è tanto sconvolgente da impregnare tutto il mio cuore, tutta la mia mente, tutta la mia vita?

Le vedove ai tempi di Gesù appartenevano ad una classe sociale posta ai margini della società. Alla mercé di una società poco incline alla carità, erano facilmente esposte alla povertà, a mille angherie e a pericoli di ogni sorta. La vedova, obbligata a indossare abiti che ne designavano la condizione (cfr. Gen 38,14.19), era priva di ogni diritto anche quello di ereditare dal marito. Non aveva neppure un difensore legale, e quindi era in balia dei giudici iniqui. La parabola del giudice disonesto è molto palese in questo senso (cfr. Lc 18,1-8; Is 1,23; 10,2; 2Sam 14,4ss).
Nonostante tutto la società ebraica imponeva delle regole ben precise per tutelare i diritti delle vedove. Al creditore era vietato di prendere in pegno la veste della vedova (cfr. Dt 24,17), e in Lev 22,13 si legge: «Se la figlia del sacerdote è rimasta vedova o è stata ripudiata e non ha figli, ed è tornata ad abitare da suo padre come quando era giovane, potrà mangiare il cibo del padre».
La legge del levirato (= levir, cognato, che traduce l’ebraico jabam) obbligava la vedova senza figli maschi a maritare il cognato. Il primo figlio veniva attribuito al defunto e riceveva la sua parte di eredità. L’istituzione, che era in vigore anche presso gli assiri e gli hittiti, aveva lo scopo di perpetuare la discendenza e di assicurare la stabilità del patrimonio familiare (cfr. Dt 25,5-10). Un’altra norma voleva che nella mietitura del campo il mannello dimenticato era «per il forestiero, per l’orfano e per la vedova» (Dt 24,19).
Comunque, queste pratiche benevole non erano seguite da tutti gli Israeliti, ma lasciate alla generosità degli uomini pii. Ma non era raro che alla generosità dei pochi si contrapponesse la malvagità di coloro che non si vergognavano di predare le vedove (cfr. Gb 24,3; Sap 2,10; Is 10,2). In questo contesto di cattiveria, l’iniquo era paragonato agli idoli pagani considerati incapaci di avere pietà della vedova e di beneficare l’orfano (cfr. Bar 6,37). In contrapposizione con Iahvé onorato dal popolo eletto come «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6).
Da qui l’accorato appello dei profeti a difendere la causa delle vedove (cfr. Is 1,17). Nella predicazione profetica disprezzare una vedova significava attirarsi i castighi di Dio e ciò equivaleva ad essere maledetti (cfr. Dt 27,19; Ger 22,1-5). Di contro soccorrere gli orfani e le vedove sottendeva essere amati e benedetti da Dio (Ger 7,6-7).
Nei Vangeli, Gesù rimprovera i Farisei di spogliare le case delle vedove (cfr. Mc 12,40) e loda una «povera vedova» che depone nel tesoro del tempio due quattrini, tutta la sua sussistenza (cfr. Mc 12,43-44). San Paolo invita Timoteo ad onorare le vedove (cfr. 1Tm 5,3). Così farà san Giacomo con i suoi lettori: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze» (Gc 1,27).
Esisteva un catalogo nel quale venivano iscritte le vedove che la Chiesa assisteva con premura e generosità. L’iscrizione era sottoposta ad alcune condizioni: «Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene» (1Tm 5,9-10). Se Paolo in generale suggeriva alle vedove di restare nello stato vedovile (cfr. 1Cor 7,8) alle più giovani, per comprensibili motivi, consigliava di risposarsi (cfr. 1Tm 5,11-15).
La necessità della assistenza delle vedove farà nascere nella Chiesa il ministero del diaconato (cfr. At 6,5ss). Ma dovranno passare ancora molti anni prima che la rivalutazione della vedova, e della donna in particolare, trovi il suo compimento.

Benedetto XVI (Omelia 8 Novembre 2009): Al centro della Liturgia della Parola [...] troviamo il personaggio della vedova povera, o, più precisamente, troviamo il gesto che ella compie gettando nel tesoro del Tempio gli ultimi spiccioli che le rimangono. Un gesto che, grazie allo sguardo attento di Gesù, è diventato proverbiale: “l’obolo della vedova”, infatti, è sinonimo della generosità di chi dà senza riserve il poco che possiede. Prima ancora, però, vorrei sottolineare l’importanza dell’ambiente in cui si svolge tale episodio evangelico, cioè il Tempio di Gerusalemme, centro religioso del popolo d’Israele e il cuore di tutta la sua vita. Il Tempio è il luogo del culto pubblico e solenne, ma anche del pellegrinaggio, dei riti tradizionali, e delle dispute rabbiniche, come quelle riportate nel Vangelo tra Gesù e i rabbini di quel tempo, nelle quali, però, Gesù insegna con una singolare autorevolezza, quella del Figlio di Dio. Egli pronuncia giudizi severi - come abbiamo sentito - nei confronti degli scribi, a motivo della loro ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano. Gesù, insomma, si dimostra affezionato al Tempio come casa di preghiera, ma proprio per questo lo vuole purificare da usanze improprie, anzi, vuole rivelarne il significato più profondo, legato al compimento del suo stesso Mistero, il Mistero della Sua morte e risurrezione, nella quale Egli stesso diventa il nuovo e definitivo Tempio, il luogo dove si incontrano Dio e l’uomo, il Creatore e la Sua creatura.
L’episodio dell’obolo della vedova si inscrive in tale contesto e ci conduce, attraverso lo sguardo stesso di Gesù, a fissare l’attenzione su un particolare fuggevole ma decisivo: il gesto di una vedova, molto povera, che getta nel tesoro del Tempio due monetine. Anche a noi, come quel giorno ai discepoli, Gesù dice: Fate attenzione! Guardate bene che cosa fa quella vedova, perché il suo atto contiene un grande insegnamento; esso, infatti, esprime la caratteristica fondamentale di coloro che sono le “pietre vive” di questo nuovo Tempio, cioè il dono completo di sé al Signore e al prossimo; la vedova del Vangelo, come anche quella dell’Antico Testamento, dà tutto, dà se stessa, e si mette nelle mani di Dio, per gli altri. È questo il significato perenne dell’offerta della vedova povera, che Gesù esalta perché ha dato più dei ricchi, i quali offrono parte del loro superfluo, mentre lei ha dato tutto ciò che aveva per vivere (cfr Mc 12,44), e così ha dato se stessa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere» (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che in questi santi misteri
ci hai dato la gioia di unirci alla tua stessa vita,
non permettere che ci separiamo mai da te, fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.



24 Novembre 2019

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

 2Sam 5,1-3; Sal 121 (122); Col 1,12-20; Lc 23,35-43

“Cristo è il Re dell’universo, poiché in lui, attraverso di lui e in vista di lui tutto è stato creato. Diventò il Signore di tutto per la sua Morte e Risurrezione: il Padre lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli e tutto ha sottomesso ai suoi piedi [cf. Ef 1,20-22]. Nel cielo risuona il cantico nuovo: «l’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» [Ap 5,12]. Invece, sulla terra avviene il ritorno di tutto a Dio. Cristo ha costituito il suo regno, «regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace».
Il suo regno non è di questo mondo, ma si realizza nel mondo e lo deve abbracciare tutto. La storia del mondo, gli affanni che l’umanità attraversa, gli avvenimenti sconvolgenti della storia: tutto ciò è definitivamente una preparazione alla signoria di Cristo, che conterrà tutto nel giorno del suo ritorno nella gloria. «Venga il tuo regno», dicono milioni di credenti nella preghiera quotidiana. L’uomo non chiede soltanto la venuta del Regno di Dio sulla terra, ma contribuisce al suo sviluppo. Morire al peccato e vivere per Dio, uscire dalla schiavitù del male e vivere nella libertà dei figli di Dio vuol dire rafforzare il Regno di Gesù sulla terra. Siamo consapevoli della nostra elezione per collaborare al rinnovamento di tutto in Cristo” (La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]).

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine. Per il nostro Signore...

I Lettura Il brano è il racconto della unzione regale di Davide e del riconoscimento da parte di tutte le tribù d’Israele: «Ecco noi siamo tue ossa e tua carne». Con il regno davidico Israele, unificandosi politicamente sotto un unico re, raggiungerà l’apice della potenza e della espansione. Con l’unzione regale, si realizza la parola del Signore (1Sam 16,1.13): per volontà divina Davide sarà pastore e capo. Pastore è una delle più antiche denominazioni del re non solo del mondo semitico: dice responsabilità e cura indefessa del popolo; si dirà anche del Cristo (1Pt 2,25; 5,4) e del suo vicario in terra (Gv 21,15ss).

Salmo Responsoriale “Questo canto dei pellegrini è incentrato sulla grandezza materiale e spirituale di Gerusalemme. Essa riempie di gioia il salmista e il suo gruppo di pellegrinaggio (vv. 1-2). La visione della compattezza delle sue costruzioni strappa l’ammirazione (v. 3). È il centro religioso delle tribù israelitiche, che sono tenute per legge a salirvi in pellegrinaggi annuali per lodare la potenza e la bontà di Iahvé («il suo nome») (v. 4). È anche il centro politico e giudiziario, perché il re vi esercita il suo potere di giudice sovrano (v. 5).
Il salmista fa quindi voti ripetuti di pace, cioè di salvezza e di favore divino, per Gerusalemme e per quanti l’amano, soprattutto per i parenti e gli amici (v. 6-8). Si ripete, infine, che Sion è abitazione di Dio (v. 9, che richiama il v. 1). Il Nuovo Testamento ha interpretato Gerusalemme come tipo della comunità dei credenti, nuova Gerusalemme (cfr. Ap 21)” (AA. VV. I Salmi - Morcelliana).

Seconda Lettura San Paolo descrive l’opera della salvezza come passaggio dalle tenebre al Regno del Figlio diletto, Regno di luce (v. 13). Questa opera salvifica è iniziativa del Padre. È lui infatti che ci ha resi eredi della promessa, mettendoci in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce (v. 12; Ef 1,11-13). La seconda parte del brano (vv. 15-20) è un inno al primato assoluto di Cristo.

Vangelo Gesù crocifisso riceve un triplice insulto: dai capi del popolo, dai soldati e da uno dei malfattori crocifisso con lui. Il popolo, indifferente, «stava a vedere». Il motivo degli scherni e degli insulti è preso dai titoli di Gesù: Salvatore, Unto di Dio e Messia, Eletto, servo di Dio, Figlio di Dio e re (Lc 9,20.35; 23,37; Is 42,21). I versetti 39-43, propri di Luca, sono elaborati sulla linea della letteratura dei martiri. La morte del giusto, intesa come martirio (= testimonianza), conquista i peccatori (vv. 40-42). Nel brano lucano possiamo ravvisare anche queste indicazioni: Gesù è il Signore, ha potere sulla vita e sulla morte; Giudice degli uomini dona il premio ai giusti e il castigo ai reprobi; infine, l’universalità della salvezza. Tutti gli uomini sono chiamati al banchetto del Regno. È la fede in Gesù a salvare l’uomo: «oggi con me sarai nel paradiso». Luca, ancora una volta, testimonia, con delicata finezza, la misericordia di Dio che si rivela soprattutto nel perdono (cfr. Lc 15).

Dal Vangelo secondo Luca 23,35-43: In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

La crocifissione - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Il racconto della crocifissione e morte di Gesù in sostanza corrisponde a quello di Marco. Eccone gli elementi in comune: crocifissione sul Calvario tra due malfattori. derisione del Crocifisso, le tenebre che coprono la terra, rottura del velo del tempio, grido implorante di Gesù morente, il centurione che ne proclama l’innocenza, presenza delle donne di Galilea, sepoltura. Sono però numerose anche le differenze: si riscontrano modifiche, inversioni, aggiunte e omissioni (come l’offerta del vino aromatizzato, la menzione delI ‘ora della crocifissione). Perciò alcuni esegeti fanno dipendere la redazione lucana da una fonte particolare, integrata con quella di Marco.
Solo Luca ricorda la preghiera di perdono per i crocifissori (v. 34) e la conversione di un malfattore (vv. 42-43). II popolo stava a guardare in un atteggiamento religioso, senza partecipare agli insulti contro Gesù in croce, e alla fine se ne andò battendo i il petto (v. 35). Gesù non appare isolato, ma proteso verso coloro che lo circondano. Più che ai dettagli cronachistici l’evangelista è interessato a mettere in risalto il comportamento esemplare di Gesù, che domanda il perdono per i suoi crocifissori e si rimette al volere del Padre con fiducia filiale. Quindi è sempre un intento teologico e parenetico che prevale sull’interesse torico anche nel racconto lucano della crocifissione.

Il popolo sta a guardare la terrificante morte di Gesù, ma non si unisce ai dileggi dei capi e dei soldati. La folla sembra essere soltanto smarrita: l’Uomo che pende dalla croce ha fatto solo del bene e numerose sono le testimonianze; molti hanno ritrovato la sanità fisica, altri quella spirituale, ecco perché quella morte crudele appare incomprensibile, assurda. Sentimenti opposti anche alla morte di Gesù: «la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48); i capi invece si preoccuperanno di ben custodire il sepolcro per timore di essere subornati dai discepoli del Crocifisso (cfr. Mt 27,62-65). Gli insulti che impietosamente piovono su Gesù riprendono i capi di accusa che lo hanno portato al patibolo: le guide del popolo, nell’insultare il Cristo, si riferiscono alla dichiarazione del processo giudaico (Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto ); i soldati, invece, a quella del processo romano (Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso ). In questa cornice, la scritta che campeggia sulla croce è più una provocazione che un’attestazione della regalità del Cristo. Al morente i soldati porgono dell’aceto: per Luca è un gesto di scherno, diversamente per Matteo e Marco che vi ravvisano invece un gesto di pietà. Due sono i malfattori che condividono la triste sorte di Gesù. Uno rabbiosamente fa coro con coloro che vomitano insulti; l’altro, reagendo con forza e dando prova di intuire il progetto salvifico del Cristo, si affida a Gesù chiedendogli «non una liberazione momentanea [come l’altro ladrone si sarebbe augurato], ma la salvezza eterna [riconosce in Gesù il Messia-salvatore]» (Carlo Ghidelli). Nelle parole del morente si può raccogliere quindi una richiesta di salvezza: lui, condannato alla pena capitale, nel momento in cui sta per attraversare definitivamente la porta della morte si affida a Colui che ha dimostrato di essere giusto perché entrato nel suo regno si ricordi di lui. Il buon ladrone «chiede un ricordo [forse una raccomandazione]. Senza che ne abbia lucida coscienza, il regno invocato è quello che cresce in terra, ma che si radica in cielo, quello che avviene nel tempo, ha caratteri di eternità. È il regno che Gesù sta meritando con il sacrificio della sua vita. È il regno che potrebbe avere il suo archetipo in quel giardino, un tempo luogo di incontro amoroso tra Dio e la sua creatura [cfr. Gen 2], e ora sigillato dal peccato. Gesù si appresta a riaprirlo. Non servono chiavi. Occorre un atto di amore infinito che può compiere solo il Figlio dell’uomo che è altresì il Figlio di Dio» (Mauro Orsatti). Il malfattore ottiene in modo insperato il dono desiderato: entrerà in Paradiso con il Cristo. Questa promessa di Gesù si farà verità per tutti i credenti: la morte non è tolta, ma viene trasformata in passaggio alla vera vita e alla vera felicità. Questa è la fede della Chiesa.

Re che salva con il suo sacrificio - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): La Croce e la morte di Cristo si verificano all’insegna della sua regalità. Sembra strano, ma è questo il paradosso della rivelazione. Le due cose, immolazione e dominio, si condizionano a vicenda nel Cristo. È condannato perché è re, gli viene domandata la salvezza perché è re: «Se tu sei re dei Giudei salva te stesso... Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi...» . Il buon ladrone pure si appella alla sua regalità parlando del suo regno: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Il prefazio di oggi esprime l’intima consociazione del sacrificio e della regalità nel Cristo quando canta: «Hai consacrato sacerdote eterno e re dell’universo il tuo unico Figlio perché, sacrificando se stesso, immacolata vittima di pace sull’altare della croce, operasse il mistero della redenzione e, assoggettate al suo potere tutte le creature, offrisse alla tua maestà infinita il regno eterno e universale ...». Del resto in altro luogo la liturgia dice: «Regna su di te il Signore, o croce gloriosa. Sul tuo legno lavò le nostre colpe nel sangue» (Responsorio breve dei Vespri nella festa dell’Esaltazione della Croce). L’innalzamento sulla croce è l’esaltazione gloriosa del Cristo (Gv 12,32-33; cfr. 3,13-16; 8,28), l’ora della sua morte è quella della sua gloria (Gv 7,30; 8,20; 12,23-27; 13,1; 17,1). La sconfitta del Cristo coincise con la sua vittoria. Il dragone diabolico ingoiò l’umanità del Cristo nelle sue fauci mortali, credendo di aver ormai conquistato definitivamente la sovranità universale e invece fu allora che ingoiò la sua rovina totale. Così si esprime immaginosamente sant’Efrem (Liturgia delle Ore II, 662). La sovranità, il dominio, la potenza del Cristo si identificano con il suo programma di universale restaurazione. Più gli uomini entrano nella sfera della redenzione e più si allarga il Regno di Cristo e si afferma la sua regalità.
Non è errato dire che il mistero di Cristo re è il mistero della vera, più grande promozione umana a gloria di Dio. È questo propriamente il Regno di Cristo comprendente gli uomini suoi fratelli e tutte le realtà cosmiche, da lui ricapitolate. È un regno che ha pure le sue dimensioni temporali, ma che trova la sua più autentica realizzazione nell’eternità.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Vangelo).  
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, nostro Padre, che ci hai nutriti
con il pane della vita immortale,
fa’ che obbediamo con gioia
a Cristo, Re dell’universo,
per vivere senza fine con lui
nel suo regno glorioso.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.




23 Novembre 2019

Sabato XXXIIII Settimana T. O.

  1Mac 6,1-13; Sal 9; Lc 20,27-40

Colletta:  Il tuo aiuto, Signore, ci renda sempre lieti nel tuo servizio, perché solo nella dedizione a te, fonte di ogni bene, possiamo avere felicità piena e duratura. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi...: la domanda posta dai sadducei è capziosa, ed è altresì deviante perché poggia su una legge umana, la legge del levirato (Dt 25,5-10), che presa alla lettera finisce con il ridicolizzare l’idea della risurrezione. La vita eterna, quella che attende ogni uomo, non è la continuazione della vita terrena con tutte le sue complicanze. L’uomo ritornerà nella polvere, ma non precipiterà nel nulla. La risurrezione “non fu chiaramente percepita agli inizi della rivelazione biblica, donde la credenza a uno «sheol» senza resurrezione [Is 38,10-20; Sal 6,6; 88,11-13], alla quale il tradizionalismo conservatore dei sadducei [At 23,8] pretendeva di restar fedele. Ma il progresso della rivelazione a poco a poco ha compreso e soddisfatto questa esigenza [Sal 16,10-11; 49,16; 73,24], annunziando il ritorno alla vita [Sap 3,1-9] di tutto l’uomo, salvato perfino nel suo corpo [Dn 12,2-3; 2Mac 7,9s; 12,43-45; 14,46]” (Bibbia di Gerusalemme). La risposta di Gesù ai sadducei fa ben intendere che la vita dei risorti è una vita completamente nuova, un approdo nell’immensità dell’amore di Dio, una esaltate trasformazione che ha inizio già in questa povera vita: noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore (2Cor 3,18).

Dal Vangelo secondo Luca 20,27-40: In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi - i quali dicono che non c’è risurrezione - e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui». Dissero allora alcuni scribi: «Maestro, hai parlato bene». E non osavano più rivolgergli alcuna domanda.

La risurrezione dei morti - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva - cfr XXXI I Domenica T. O.): Nell’ultimo periodo dell’anno liturgico la Chiesa ci porta a considerare la realtà della fase finale della storia salvifica. Fra queste realtà, connesse con i destini umani, vi è la risurrezione dei morti (cfr. il « Credo »). Tale dottrina non è un dogma originale del cristianesimo, anche se ne sono originali tutto il contesto e gli addentellati col mistero di Cristo. I farisei, partito religioso-politico al tempo di Gesù, tenevano e difendevano questa fede contro l’altra setta, quella materialista e razionalista dei sadducei, che la negavano. Lo si legge anche nel vangelo di oggi. Nel secondo libro dei Maccabei, composto parecchio tempo prima di Cristo, la verità della risurrezione è affermata esplicitamente. Dei sette fratelli ebrei, immolati per la loro fede religiosa, il secondo, fra gli spasimi del supplizio, proclamava la sua convinzione « di risuscitare a una vita nuova ed eterna » (7, 9). Il terzo fratello precisò che si trattava di risurrezione di corpi. Disse infatti delle sue membra martoriate per Dio: « Da lui spero di riaverle di nuovo», certo nella risurrezione (7,11). Il quarto fratello dichiarò al persecutore che per lui, empio e carnefice, non vi sarebbe stata « risurrezione per la vita » (7,14). Gesù nel vangelo di oggi afferma vigorosamente non solo una vita dell’anima dopo la morte, ma anche la risurrezione corporale, che porta l’essere umano a ricomporsi nella sua integrità, per vivere un’esistenza nuova, libera da tutti i condizionamenti propri della fase terrestre, in uno stato di realizzazione completa e perfetta del destino, assegnatogli da Dio. Del resto Gesù è ritornato più volte sulla dottrina della risurrezione corporale. Egli afferma la possibilità e il pericolo per l’uomo di precipitare nella Geenna con l’anima e con il corpo (Mt 10,28; Mc 9,43-48). Però sottolinea particolarmente la risurrezione dei giusti (Lc 14,14). Chiarissime e molteplici poi le affermazioni in questo senso nel vangelo di san Giovanni (5,29; 11,25; 6,39.40.54; 11,25). San Paolo nella prima lettera ai Corinti (c. 15) disserta lungamente su questa tesi, applicandosi a illustrare principalmente la risurrezione dei giusti e il loro destino glorioso. Riconosce però la risurrezione anche dei cattivi, che dovranno presentarsi davanti al tribunale del giudizio futuro. Lo dichiarò mentre era prigioniero a Cesarea, a due personaggi poco esemplari, quali erano il governatore Felice e sua moglie Drusilla. Egli nutriva «in Dio la speranza, condivisa pure da costoro (cioè dai farisei), che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti» (At 24, 15).

 La risurrezione dei morti - Franco Giulio Brambilla: Il riferimento all’Antico Testamento e più in genere al contesto giudaico consente di mostrare come l’annuncio della risurrezione di Gesù si collochi sullo sfondo della fede nella risurrezione dei morti. Questa nasce in epoca piuttosto tarda, con la crisi del tempo dei Maccabei (II sec. a.C), anche se ha alcune anticipazioni importanti nel libro di Daniele (12,2-3). Il racconto dei Maccabei (2 Mac 7) fonda la fede nella risurrezione sulla potenza-fedeltà creatrice di Dio che fa risorgere i giusti che gli sono rimasti fedeli nella persecuzione (martiri). I precedenti biblici della fede nella risurrezione dei morti si trovano nel libro di Osea (6,1-3) ed Ezechiele (37,1-14): si tratta di visioni che usano un linguaggio di risurrezione per indicare la fedeltà di Dio, che fa risorgere continuamente il popolo dalle sue sconfitte. La fede nella risurrezione dei morti poi si sviluppa e si accelera nel giudaismo ed entra in contatto con l’ellenismo e la credenza dell’immortalità dell’anima (libro della Sapienza). Su questo sfondo, la risurrezione di Gesù diventa la sorgente della risurrezione dei cristiani: è il senso del grande sviluppo del capitolo 15 sulla risurrezione della Prima lettera ai Corinzi. Paolo attraverso questa riflessione tenta di rispondere alle obiezioni dei corinzi, di mentalità greca: essi avevano difficoltà a pensare alla risurrezione del corpo e si chiedevano come fosse il corpo dei risorti. Paolo argomenta a partire dalla verità della risurrezione di Gesù, che fonda quella dei credenti, fornendo motivi presi dalla storia della salvezza e dall’esperienza degli uomini. Il discorso sulla risurrezione viene in tal modo collegato con l’attesa della sopravvivenza al di là della morte, presente in quasi tutte le culture antiche e moderne. La speranza cristiana risulta una specifica determinazione dell’universale attesa di una promessa di vita contenuta nell’umano sperare. Le attuali teologie, ispirate al tema della speranza, tentano di mediare tra la fede nella risurrezione dei morti e la speranza di salvezza finale contenuta nell’agire umano, volta a raggiungere un futuro buono e felice per l’umanità.

Il mistero della morte - Gaudium et spes 18: In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta un giorno, quando l’onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all’uomo la salvezza perduta per sua colpa. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte. Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, dandoci la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio.

Giorno del Signore e risurrezione - Catechismo degli Adulti 1209: Sebbene ciascuno con la morte raggiunga la propria salvezza definitiva o la perdizione eterna, salvezza e perdizione diventano complete, secondo tutte le dimensioni della persona, solo alla fine del mondo.
Dio dirige la storia e la porta a termine. I profeti dell’Antico Testamento annunziano il giorno del Signore, suprema manifestazione della sua gloria su tutta la terra, per punire i nemici, per purificare e salvare i fedeli. Sarà vittoria totale, separazione definitiva del bene dal male.
Sullo sfondo di questa attesa emerge progressivamente la fede nella risurrezione dei morti: «Quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna» (Dn 12,2). I sette fratelli, di cui narra il secondo Libro dei Maccabei, muoiono con la certezza di essere risuscitati da Dio nell’ultimo giorno.
 1210 L’insegnamento di Gesù conferma la fede nella risurrezione: «A riguardo dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi!» (Mc 12,26-27). Alla risurrezione sarà congiunto il giudizio universale, separazione del buon grano dalla zizzania, delle pecore dai capri. Anzi Gesù dichiara di aver ricevuto dal Padre il potere di risuscitare e di giudicare; perciò «verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5,28-29).

… quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio - Papa Francesco (Angelus 10 Novembre 2019): Con questa risposta, Gesù anzitutto invita i suoi interlocutori - e anche noi - a pensare che questa dimensione terrena in cui viviamo adesso non è l’unica dimensione, ma ce n’è un’altra, non più soggetta alla morte, in cui si manifesterà pienamente che siamo figli di Dio. Dà grande consolazione e speranza ascoltare questa parola semplice e chiara di Gesù sulla vita oltre la morte; ne abbiamo tanto bisogno specialmente nel nostro tempo, così ricco di conoscenze sull’universo ma così povero di sapienza sulla vita eterna.
Questa limpida certezza di Gesù sulla risurrezione si basa interamente sulla fedeltà di Dio, che è il Dio della vita. In effetti, dietro l’interrogativo dei sadducei se ne nasconde uno più profondo: non solo di chi sarà moglie la donna vedova di sette mariti, ma di chi sarà la sua vita. Si tratta di un dubbio che tocca l’uomo di tutti i tempi e anche noi: dopo questo pellegrinaggio terreno, che ne sarà della nostra vita? Apparterrà al nulla, alla morte?
Gesù risponde che la vita appartiene a Dio, il quale ci ama e si preoccupa tanto di noi, al punto di legare il suo nome al nostro: è «il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (vv. 37-38). La vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte. È l’egoismo. Se io vivo per me stesso, sto seminando morte nel mio cuore.
La Vergine Maria ci aiuti a vivere ogni giorno nella prospettiva di quanto affermiamo nella parte finale del Credo: «Aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Aspettare l’al di là.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che ci hai nutriti con questo sacramento,
ascolta la nostra umile preghiera:
il memoriale, che Cristo tuo Figlio
ci ha comandato di celebrare,
ci edifichi sempre nel vincolo del tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.




22 Novembre 2019

Venerdì XXXIIII Settimana T. O.

Santa Cecilia Vergine e Martire - Memoria

 1Mac 4,36-37.52-59; Salmo da 1Cr 29,10-12; Lc 19,45-48

Dal Martirologio: Memoria di santa Cecilia, vergine e martire, che si tramanda abbia conseguito la sua duplice palma per amore di Cristo nel cimitero di Callisto sulla via Appia. Il suo nome è fin dall’antichità nel titolo di una chiesa di Roma a Trastevere. 

Colletta: Ascolta, Signore, la nostra preghiera e per intercessione di santa Cecilia, vergine e martire, rendici degni di cantare le tue lodi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

La scacciata dei venditori o la purificazione del tempio è presente in Matteo e in Marco. Anche Giovanni ricorda l’episodio, ma lo pone all’inizio del ministero di Gesù a differenza dei sinottici che lo pongono al termine della vita pubblica di Gesù. Inoltre, se nei sinottici il racconto è molto asciutto in Giovanni è molto più articolato. L’evangelista Giovanni «l’avrebbe trasposta all’inizio, perché, mentre nei sinottici questa costituiva il motivo della condanna a morte di Gesù, nel IV vangelo il motivo ultimo di essa è costituito dalla risurrezione di Lazzaro [11,45-12,11]» (Giuseppe Segalla).
Entrato nel tempio, è il recinto sacro, che comprendeva il cortile dove potevano entrare anche i pagani, che non potevano essere ammessi oltre una certa soglia, pena la morte. In questa nota apparentemente cronachistica vi è il richiamo alla profezia di Malachia: «E subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate…» (3,1). Oltre ai venditori di animali erano presenti i cambiamonete, seduti ai loro banchi, avevano l’ufficio, dietro compenso, di cambiare per gli ebrei il denaro proveniente dalle nazioni pagane riproducenti l’effige dei sovrani e per tale motivo inadatte per pagare la tassa del Tempio.
L’azione di Gesù non nasce da un moto d’ira (cfr. Gv 2,15), Gesù è Dio e dalla sacra Scrittura Dio è descritto come colui che è «lento all’ira», ma è il gesto del profeta inviato dal Signore per ristabilire la sacralità del luogo dove Dio ha posto la sua dimora: «mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me» (Salmo 69,10). Quindi una vera e propria “gelosia” di Gesù per la casa del Signore, nei confronti di chi si è approfittato del luogo per farne un covo di ladri.
Anche Marco, Matteo e Luca, richiamando dal canto loro le parole del profeta Isaia, aprono ad una dimensione universale per il luogo in cui ci si trovava, il monte di Dio e il tempio: «Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera» (Is 56,6-7).
La purificazione del tempio quindi ha una valenza profetica, che è quella di riportare il tempio alla sua funzione originaria: il luogo dove si rende un servizio cultuale a Dio.

Dal Vangelo secondo Luca 19,45-48: In quel tempo, Gesù, entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: «Sta scritto: “La mia casa sarà casa di preghiera”. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri». Ogni giorno insegnava nel tempio. I capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo morire e così anche i capi del popolo; ma non sapevano che cosa fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue labbra nell’ascoltarlo.

Nel racconto della purificazione del Tempio, Gesù si mostra come modello di coraggio e di fortezza. Nei Vangeli viene definito il «più forte» (Mc 1,7). Nella sua mano «c’è forza e potenza» (1Cr 29,12). È più forte di Giovanni il Battista: infatti, differentemente dal Precursore che battezza con l’acqua in segno di purificazione e di rinnovamento, egli battezza «in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,16). Mediante «questi strumenti purificatori egli opererà un giudizio dell’umanità, nel giorno del Signore [Mt 3,11-12]» (A. Z.).
È più forte di Satana, perché scaccia con autorità i demoni; entra nel suo regno, «gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino» (Lc 11,22). Scacciando i demoni, Gesù «manifesta di adempiere le promesse dell’Antico Testamento: è lui il servo di Dio che vince le potenze del male e strappa loro il bottino conquistato [Is 49,24-25; 33,12]. Se Satana esercita il suo potere sugli uomini mediante il peccato e la morte, servendosi anche dei demoni come suoi strumenti, Cristo è più forte di lui e salva gli uomini, spezzando le loro catene e ridonando loro la libertà dei figli di Dio. La forza ormai appartiene interamente a Dio e all’Agnello che siede accanto a lui, nei cieli [Ap 5,12; 7,12]» (A. Z.).
È più forte del mondo perché lo ha vinto (Cf. Gv 16,1-8.33): lo vincerà con lui anche il discepolo mediante la fede (Cf. 1Gv 5,4). Sfida a viso aperto i farisei, i sadducei, gli scribi mettendo a nudo la loro ipocrisia (Cf. Mt 23,13-36) e non esita a rimproverare le città impenitenti che hanno rifiutato la Buona Notizia (Cf. Mt 11,21-24; Lc 21,20-24).
La fortezza cristiana è partecipazione alla forza di Cristo: attingendo forza nel Signore e nel vigore della sua potenza, rivestiti della corazza di Dio, i cristiani potranno resistere alle insidie del diavolo e vincere i dominatori di questo mondo di tenebra (Cf. Ef 6,10-12). Avranno forza dallo Spirito Santo (Atti 1,8; 2Tm 1,7-8) per essere «veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarsi mai della sua croce» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1303).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ammonisce sopra tutto i vescovi, «pastori del gregge di Cristo»,  a compiere il loro ministero apostolico, a «immagine del sommo ed eterno Sacerdote», «in santità e generosità, in umiltà e fortezza», non temendo «di dare la vita per le pecore» (LG 41). Ma anche i laici devono rivestirsi di fortezza, in modo particolare quando devono rendere testimonianza al Vangelo in ambienti ostili al messaggio del Cristo (AA 17). Fortezza è così anche libertà di parola, peculiarità tutta cristiana.

Gesù Cristo, nuovo tempio - F. Amiot: 1. Gesù ed il tempio antico. - Gesù, al pari dei profeti, professa per il tempio antico il più profondo rispetto. Vi è presentato da Maria (Lc 2,22- 39). Vi si reca per le solennità, come ad un luogo d’incontro con il Padre suo (Lc 2,41-50; Gv 2,14; ecc.). Ne approva le pratiche cultuali, pur condannandone il formalismo che minaccia di viziarle (Mt 5,23s; 12,3-7 par.; 23,16-22). Per lui il tempio è la casa di Dio, una casa di preghiera, la casa del Padre suo, e si indigna che se ne faccia un luogo di traffico; quindi, con un gesto profetico, ne scaccia i mercanti di  colombe per purificarlo (Mt 21,12-17 par.; Gv 2,16ss; cfr. Is 56,7; Ger 7,11). E tuttavia annunzia la rovina dello splendido edificio, di cui non rimarrà pietra su pietra (Mt 23,38s; 24,2 par.). Durante il processo, gli si rimprovererà perfino di aver dichiarato che distruggerebbe questo santuario fatto dalla mano dell’uomo, ed in tre giorni ne ricostruirebbe un altro non fatto dalla mano dell’uomo (Mc 14,58 par.), e la stessa accusa è ripresa in modo ingiurioso mentre agonizza sulla Croce (Mt 27,39 s par.). Ma qui si tratta di una frase misteriosa, di cui soltanto il futuro spiegherà il senso. Nell’attesa, al momento del suo ultimo respiro, il laceramento del velo del santissimo mostra che il santuario antico perde il suo carattere sacro: il tempio giudaico ha finito di svolgere la sua funzione di segno della presenza divina.
2. Il nuovo tempio. - Di fatto questa funzione è svolta ormai da un altro segno, che è il corpo stesso di Gesù. Il vangelo di S. Giovanni colloca nel contesto della purificazione del tempio la frase misteriosa sul santuario distrutto e ricostruito in tre giorni (Gv 2,19). Ma aggiunge: «Parlava del santuario del suo Corpo», ed i suoi discepoli, dopo la sua risurrezione, lo compresero (2,21s). Ecco dunque il tempio nuovo e definitivo, che non è fatto dalla mano dell’uomo, quello in cui il Verbo di Dio stabilisce la sua dimora tra gli uomini (1,14) come un tempo nel tabernacolo di Israele. Tuttavia, affinché il tempio di pietra sia decaduto, bisogna che Gesù stesso muoia e risusciti: il tempio del suo corpo sarà distrutto e ricostruito, tale è la volontà del Padre suo (10,17s; 17,4). Dopo la risurrezione questo corpo, segno della presenza divina in terra, conoscerà un nuovo stato trasfigurato che gli permetterà di rendersi presente a tutti i luoghi ed a tutti i secoli nella celebrazione eucaristica. Allora il tempio antico non avrà più che da sparire, e la distruzione di Gerusalemme nel 70 verrà ad indicare in modo decisivo che la sua funzione è ormai terminata.

Santa Cecilia, Vergine e Martire: C. Augrai: Il martire cristiano - Il glorioso martirio di Cristo ha fondato la Chiesa: «Quando sarò innalzato da terra, aveva detto Gesù, attirerò a me tutti gli uomini» (Gv 12,32). La Chiesa, corpo di Cristo, è chiamata a sua volta a dare a Dio la testimonianza del sangue per la salvezza degli uomini. La comunità ebraica aveva già avuto i suoi martiri, specialmente all’epoca dei Maccabei (2Mac 6-7). Ma nella Chiesa cristiana il martirio assume un senso nuovo, che Gesù stesso rivela: è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione perfetta alla sua testimonianza ed alla sua opera di salvezza: «Il servo non è maggiore del padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 51,20). Ai suoi tre intimi Gesù annunzia che lo seguiranno nella passione (Mc 10,39 par.; Gv 21,18 ss); ed a tutti rivela che soltanto il seme che muore in terra porta molto frutto (Gv 12,24). Così il martirio di Stefano - che evoca con tanta forza la passione - determinò la prima espansione della Chiesa (Atti 8,4s; 11,19) e la conversione di Paolo (22,20). L’Apocalisse, infine, è veramente il Libro dei Martiri, di coloro che sulle orme del Testimone fedele e veridico (Apoc 3,14) hanno dato alla Chiesa e al mondo la testimonianza del loro sangue. L’intero libro ne celebra la prova e la gloria, di cui la passione e la glorificazione dei due testimoni del Signore sono il simbolo (Apoc 6,9s; 7,14-17; 11,11s; 20,4ss). 

La castità per il  regno dei cieli - Perfectae Caritatis n. 12: La castità «per il regno dei cieli» (Mt 19,12), quale viene professata dai religiosi, deve essere apprezzata come un insigne dono della grazia. Essa infatti rende libero in maniera speciale il cuore dell’uomo (cfr. 1Cor 7,32-35), cosi da accenderlo sempre più di carità verso Dio e verso tutti gli uomini; per conseguenza essa costituisce un segno particolare dei beni celesti, nonché un mezzo efficacissimo offerto ai religiosi per potere generosamente dedicarsi al servizio divino e alle opere di apostolato. In tal modo essi davanti a tutti i fedeli sono un richiamo di quella mirabile unione operata da Dio e che si manifesterà pienamente nel secolo futuro, mediante la quale la Chiesa ha Cristo come unico suo sposo.
Bisogna dunque che i religiosi, sforzandosi di mantener fede alla loro professione, credano nelle parole del Signore e, fidando nell’aiuto divino, non presumano delle loro forze, ma pratichino la mortificazione e la custodia dei sensi. E neppure trascurino i mezzi naturali che giovano alla sanità mentale e fisica. In tal modo essi non potranno essere influenzati dalle false teorie, che sostengono essere la continenza perfetta impossibile o nociva al perfezionamento dell’uomo; e, come per un istinto spirituale, sapranno respingere tutto ciò che può mettere in pericolo la castità. Inoltre ricordino tutti, specialmente i superiori, che la castità si potrà custodire più sicuramente se i religiosi sapranno praticare un vero amore fraterno nella vita comune.
Poiché l’osservanza della continenza perfetta tocca le inclinazioni più profonde della natura umana i candidati alla professione di castità non abbraccino questo stato, né vi siano ammessi, se non dopo una prova veramente sufficiente e dopo che sia stata da essi raggiunta una conveniente maturità psicologica ed affettiva. Essi non solo siano preavvertiti circa i pericoli ai quali va incontro la castità, ma devono essere educati in maniera tale da abbracciare il celibato consacrato a Dio integrandolo nello sviluppo della propria personalità.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La mia casa sarà casa di preghiera” (Vangelo).
Nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.
 
Signore, che hai glorificato santa Cecilia
con la corona della verginità e del martirio,
per la comunione a questo sacro convito
donaci energia nuova,
perché superiamo la forza del male
e raggiungiamo la gloria del cielo.
Per Cristo nostro Signore.