28 Luglio 2019

XVII Domenica T. O.

Gen 18,20-32; Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13  

Colletta: Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo, nostro fratello e salvatore e donaci il tuo Spirito, perché invocandoti con fiducia e perseveranza, come egli ci ha insegnato, cresciamo nell’esperienza del tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Prima Lettura: Nonostante l’accorata preghiera di Abramo, Sòdoma e Gomorra, furono distrutte da Dio a motivo del loro peccato, un evento ricordato spesso nella Bibbia come esempio del giudizio e dell’ira di Dio (Cf. Dt 29,22; Sir 16,8; Is 1,9-10; 13,19; Ger 49,18; 50,40; Lam 4,6; Am 4,11; Sof 2,9; Mt 10,15; 11,23-24; Lc17,29; ecc.) e come esempio di malvagità (Dt 32,32; Is 3,9; Ger 23,14; Ez 16,44-58; Ap 11,8). Da questo racconto nascono i termini gomorreo, sodomia, sodomita: la «Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati» (Catechismo della Chiesa Cattolica 2357).

Salmo Responsoriale: Il salmo 137 è un canto di ringraziamento rivolto a Dio perché è fedele, perché è eccelso, perché il suo amore è per sempre. Il salmista rende grazie perché Dio ha ascoltato la sua preghiera, perché nel giorno in cui lo ha invocato gli ha risposto e ha accresciuto in lui la forza e lo ha salvato dalla collera dei suoi avversari. Il salmo vuole mettere in evidenza l’amore provvidente di Dio, un amore che non lo rende indifferente al dolore del debole: Dio guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano.

Seconda Lettura: Il breve brano fa parte di una pericope più ampia (2,9-15) nella quale l’apostolo Paolo intende confutare un’eresia impugnata pervicacemente da alcuni della comunità cristiana di Colossi, secondo la quale come condizione di salvezza bisognava assoggettarsi sia alla Legge di Mosè sia all’autorità delle potenze celesti (Cf. Col 2,15). Per Paolo tutto è grazia: non è la Legge di Mosè a salvare i Colossesi, ma l’amore gratuito del Padre il quale abolisce la Legge sulla croce, risuscita il Figlio, perdona i peccati e rende tutti gli uomini partecipi della morte redentrice e della risurrezione di Gesù.

Vangelo: Possiamo trovare un tema comune alle tre letture ed è il tema del Padre misericordioso. Un Padre sempre attento alla preghiera dei suoi figli, sempre ben disposto a perdonare una moltitudine di peccatori per la bontà di pochi giusti, pronto nel dare la salvezza a chi non è circonciso e a chi lo è. Il Padre ha annullato nella carne crocifissa del Figlio “il documento scritto contro di noi”: il peccato è «il debito che l’uomo ha con Dio. La bontà di Dio si esprime annullando questo “debito” che la legge mosaica [...] indicava presente nell’uomo, ma da cui era incapace di salvare. Solo la croce e la pasqua di Gesù ne sono capaci» (Don Primo Gironi).

Dal Vangelo secondo Luca 11,1-13: Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me
un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Signore, insegnaci a pregare - Contro le sette domande di Matteo, il testo lucano contiene solo cinque petizioni. Il testo di Luca, sostanzialmente identico a quello di Matteo, è forse quello che si avvicina di più all’originale. Mancano «sia fatta la tua volontà» e «liberaci dal male». Luca omette o attenua espressioni ebraiche per rendere il testo più comprensibile ai suoi lettori. Matteo inserisce la preghiera del Padre nostro nella magnifica cornice del ‘Discorso della Montagna’ per opporre l’agire cristiano a quello degli ipocriti (Mt 6,9-13); Luca invece, presentando Gesù in preghiera, trasforma intenzionalmente il racconto in una catechesi sulla preghiera: Gesù non insegna ai suoi discepoli una preghiera, ma insegna a pregare.
Oltre a chiedere che sia santificato il nome del Padre, il discepolo deve chiedere il pane quotidiano. Quotidiano, in greco epiousios, potrebbe significare necessario oppure per il giorno dopo, ma quest’ultima interpretazione è in contrasto con altri testi scritturistici: per esempio, in Mt 6,34 viene detto da Gesù: «Non affannatevi per il domani» (Cfr. Prov 27,l [LXX]).
Il primo significato (con Origene possiamo leggere il pane necessario per l’esistenza) suggerisce l’intenzione di Gesù nell’insegnare la preghiera del Padre nostro: l’uomo deve imparare a chiedere al Padre quanto è necessario per la sua sussistenza. Altri invece vi vedono un pane spirituale: il pane della vita, la manna celeste che Gesù mangerà in eterno con i suoi discepoli (Cf. Lc 22,30; Mt 26,29; Ap 2,17). Così soprattutto i Padri della Chiesa, ma è fuor di dubbio che Gesù pensi al pane terreno.
Luca sottolinea la ripetizione della domanda: ogni giorno perché il Padre è Colui che dona all’uomo il pane giorno dopo giorno, senza mai stancarsi. È il Dio buono che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45).
Bisogna chiedere anche il perdono dei peccati. Matteo parla di debiti, Luca di peccati: si «passa così da un contesto piuttosto giuridico ad un contesto più storico ed esistenziale: è il riconoscimento di essere veramente peccatori di fronte a Dio, accompagnato da una sincera domanda di perdono» (Carlo Guidelli). I discepoli che anelano al perdono di Dio, devono perdonarsi a vicenda (Cf. Mt 5,39; 6,12; 7,2; 2Cor 2,7; Ef 4,32; Col 3,13) e devono perdonare il prossimo senza mai stancarsi: fino a settanta volte sette (Cf. Mt 18,22). Chi non vuole perdonare non può pretendere di ricevere il perdono di Dio: se «vogliamo essere giudicati benignamente, anche noi dobbiamo mostrarci benigni verso coloro che ci hanno arrecato qualche offesa. Infatti ci sarà perdonato nella misura in cui avremo perdonato loro, qualunque cattiveria ci abbiano fatto» (Giovanni Cassano).
Con l’ultima petizione il discepolo chiede di non essere abbandonato alla tentazione. Una supplica che nasce dalla consapevolezza della propria debolezza dinanzi alla prepotenza e all’astuzia di Satana, il Tentatore per antonomasia: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41).

Se uno di voi ha un amico - La parabola del visitatore importuno serve a dare forza all’insegnamento di Gesù sulla preghiera. Per gli orientali in genere l’ospitalità è sacra, per cui, nonostante l’ora tarda, l’amico esaudisce la richiesta inopportuna.
Nel racconto parenetico non si deve ricercare l’equivalente di ogni particolare, essendo sufficiente cogliere il messaggio centrale: una ostinata richiesta di aiuto che alla fine viene esaudita. Come nella parabola della vedova e del giudice disonesto (Cfr. Lc 18,1-8), nel testo lucano si trova «il cosiddetto argomento a fortiori che si pone in parallelo con un altro argomento più debole; si argomenta più o meno in questo modo: se quel tale si è alzato di notte per soddisfare le richieste dell’amico importuno [quindi contro voglia] a maggior ragione [a fortiori] Dio interverrà per soccorrere i suoi figli. La parabola infonde quindi serena fiducia nel sicuro intervento di Dio» (Don Mauro Orsatti).
I tre imperativi posti di seguito, chiedete... cercate... bussate, oltre a mettere in evidenza l’insistenza con cui bisogna cercare sottolineano la certezza dell’intervento divino. Per Luca il dono dei doni è lo Spirito Santo che il Padre elargisce largamente a tutti coloro che lo chiedono.
L’affermazione di Gesù, voi, che siete cattivi, non deve risultare offensiva per l’uomo perché vuole solo mettere in evidenza la deficienza creaturale dell’uomo (Cf. Gv 15,5: «Senza di me non potete far nulla»). È una spinta ad aprirsi alla potenza di Dio il quale non farà mai mancare la sua presenza, il suo amore, il suo aiuto quotidiano, anche nelle più disparate situazioni (Cf. 2Cor 12,7-9).

… non abbandonarci alla tentazione … - J. Corron (Dizionario di Teologia Biblica): 1. L’annuncio del vangelo è inserito nella tribolazione escatologica (Mt 24,14). La prova è quindi particolarmente necessaria a coloro Che ricevono il ministero della parola (1Tess 2,4; 2Tim 2,15), diversamente sono dei trafficanti (2Cor 2,17). La prova è il segno della missione (1Tim 3,10; Fil 2,22). Da questo si discernono i falsi inviati (Apoc 2,2; 1Gv 4,1). Sul piano psicologico Dio saggia i cuori e li mette alla prova (1Tess 2,4). Egli permette soltanto la tentazione (1Cor 10,13); questa viene dal tentatore (Atti 5,3; 1Cor 7,5; 1Tess 3,5) attraverso il mondo (1Gv 5,19) e soprattutto il denaro (1Tim 6,9). Perciò bisogna domandare di non «entrare» nella tentazione (Mt 6,13; 26,41), perché essa conduce alla morte (Giac 1,14s). Questo atteggiamento di preghiera filiale è agli antipodi di quella che tenta Dio (Lc 11,1-11). La prova - e tale è la tentazione in cui non si entra - è ordinata alla vita. È un dato della vita in Gesù Cristo: «Sì, tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo, saranno perseguitati» (2Tim 3,12). È una condizione indispensabile di crescita (cfr. Lc 8,13ss), di robustezza (1Piet 1,6s in vista del giudizio), di verità manifestata (1Cor 11,19: ragion d’essere delle divisioni cristiane), di umiltà (1Cor 10,12), in una parola è la via stessa della Pasqua interiore, la via dell’amore che spera (Rom 5,3ss). Quindi essere un cristiano «provato», oppure sperimentare lo Spirito, è la stessa cosa. La prova apre ad un più grande dono dello Spirito, perché in essa egli compie già il suo lavoro di liberazione. Così liberato e illuminato dallo Spirito (1Gv 2,20.27), il cristiano provato sa discernere, verificare, «provare» ogni cosa (Rom 12,2; Ef 5,10). Questa è la fonte teologale dell’esame di coscienza, non aritmetica spirituale, ma discernimento dinamico in cui ognuno si prova alla luce dello Spirito (2Cor 13,5; Gal 6,1). 2. La Bibbia invita a dare alla prova un senso teologale. La prova è passaggio «verso Dio», attraverso il suo disegno. I diversi aspetti della prova (fede, fedeltà, speranza, libertà) confluiscono nella grande prova di Cristo, continuata nella Chiesa ed in ogni Cristiano, terminante in un parto cosmico (Rom 8,18-25). L’afflizione della prova acquista il suo senso nella lotta escatologica. Nel disegno di Dio che mira a divinizzare l’uomo in Cristo, la prova ed il suo sfruttamento satanico, la tentazione, sono ineluttabili: fanno passare dalla libertà offerta alla libertà vissuta, dalla elezione all’alleanza. La prova accorda l’uomo Con il mistero di Dio e, per l’uomo ferito, la vicinanza di Dio è tanto più dolorosa quanto più è intima. Lo Spirito fa discernere nel mistero della croce il passaggio dalla prima alla seconda Creazione, il passaggio dall’egoismo all’amore. La prova è pasquale. 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** La prova è passaggio «verso Dio», attraverso il suo disegno.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, nostro Padre, che ci hai dato la grazia
di partecipare al mistero eucaristico,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che questo dono del suo ineffabile amore
giovi sempre per la nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.



27 Luglio 2019

Sabato XVI Settima T. O.

Es 24,3-8; Sal 49 (50); Mt 13,24-30


Colletta: Sii propizio a noi tuoi fedeli, Signore, e donaci i tesori della tua grazia, perché, ardenti di speranza, fede e carità, restiamo sempre fedeli ai tuoi comandamenti. Per il nostro Signore Gesù Cristo… 

Possiamo mettere in campo tre riflessioni: il nemico che semina la zizzania, l’impazienza dell’uomo, e la pazienza di Dio. La zizzania è stata seminata dal nemico, “Un nemico ha fatto questo”. Certamente il volto del nemico è il volto di satana, ma non possiamo vedere sempre il diavolo dietro a una seminagione di zizzania. Nella Chiesa vi sono cardinali, vescovi, sacerdoti, monache, laici …, spesso “strumenti ciechi di occhiuta rapina” (Giuseppe Giusti, Sant’Ambrogio), spesso nella piena capacità di intendere e di volere: “Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!” (Via Crucis al Colosseo, 2005, IX Stazione).
L’impazienza dell’uomo è costata sempre cara alla Chiesa. Ma anche l’eccessiva pazienza. Il nemico spesso sa approfittare dell’“eterna” pazienza della Chiesa, quella pazienza che spesso è ipocrita e messa in atto per non perdere privilegi, posizioni di onore, immunità, o vantaggi o concessioni, spesso illecite. Casomai la pazienza va messa in campo dopo una sano discernimento, secondo i dettami evangelici. L’impazienza è il bubbone dell’orgoglio, del sentirsi migliore degli altri, del credersi al di sopra di tutti, è l’ipocrita purezza satanica che apre il cuore dell’uomo al razzismo, alla discriminazione, alla intolleranza, al fanatismo, al pregiudizio.
La pazienza di Dio non è tolleranza delle distorsioni morali e spirituali dell’uomo, ma è sapienza divina che conduce al termine il progetto di salvezza attendendo, spesso invano, la collaborazione dell’uomo. Dio “non gode della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva” (Ez 33,11), e se ritarda nell’approntare il giudizio universale è perché è magnanimo e non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi (1Pt 3,9), e di salvarsi. 
La pazienza di Dio nasce dal suo amore verso tutte le creature, ed è preludio di salvezza.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,24-30: In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio”».

La parabola della zizzania è propria di Matteo e forma una coppia con quella del seminatore, con la quale è affine per il contenuto. La spiegazione della parabola è data dallo stesso evangelista: l’uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo è il Cristo, il campo è il mondo e il buon seme i figli del regno, la mietitura è il tempo del giudizio (Cf. Ger 51,33; Gl 4,13; Os 6,11). Il nemico è il diavolo, il quale, a differenza dei servi che dormono, è l’irrequieto, l’insonne, colui che «come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Il Figlio dell’uomo semina di giorno, il nemico di notte. Da qui si deduce che lì dove semina Dio, semina anche Satana: bisogna arrendersi «alla Parola di Dio e alle prove che la storia e la cronaca offrono ad ogni istante attraverso le edicole dei giornali, le vetrine delle librerie, il piccolo e il grande schermo. I “fiori del male” sono visibili in tutte queste aiuole; se ci sono gli effetti, ci sarà una causa, ci sarà un seminatore di zizzania e un coltivatore di malerba» (Rosario F. Esposito). Conoscere ciò è un ottimo antidoto a un falso ottimismo.
La parabola dà diversi spunti di riflessione. È un invito alla vigilanza, una buona virtù che può limitare efficacemente l’azione nefanda del «nemico» nel mondo e nella Chiesa. Ma è anche vero che i «figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8), da qui il monito evangelico sempre attuale: noi «non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,5-6). Il regno di Dio, finché dura questo mondo, è composto da grano e zizzania. In questa luce, nell’insegnamento evangelico della parabola del grano e della zizzania è nascosta «una lezione di pazienza perché non sta a noi decidere chi è il buono e chi è il cattivo, anche perché la parabola ci sottolinea l’aspetto escatologico della crescita, quando si realizzerà il vero discernimento; ma vi è anche la consapevolezza del valore del “seme”, da parte del padrone, perché sa bene che alla “fine” la zizzania sarà estirpata e bruciata» (G. Carata). A conclusione, il discepolo deve imparare ad avere e ad usare pazienza, e a lasciare a Dio la regolazione dei conti. È un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.

Rosalba Manes (I Vangeli): Una “duplice” semina (vv. 24-26) - Il seminatore ha accuratamente selezionato il seme per seminare il suo campo, certo di ottenere il migliore dei raccolti. In modo inaspettato però entra in scena un altro personaggio, identificato con «il nemico» (o echthrós, v. 25), che agisce di nascosto, quando tutti gli altri dormono, per seminare nello stesso campo la zizzania, con l’intento deliberato di arrecare un danno al proprietario del campo. La zizzania è una sorta di gramigna che cresce alta quanto il grano. Somiglia al grano, ma i suoi chicchi sono neri, come se si trattasse di grano andato a male (inoltre il greco zizània viene dall’ebraico zun-zunim, dove zunim viene dalla radice znh che vuol dire «prostituirsi»). Nel racconto parabolico Gesù menziona la fase della duplice germinazione: quella del grano e quella della zizzania.
La reazione dei servi e la soluzione del problema (vv. 27-30) - Questa germinazione, che accade contemporaneamente, provoca la sorpresa dei servitori che chiedono spiegazioni al padrone, il quale immediatamente intravede lo zampino del suo nemico. I servi allora avanzano una proposta che a loro sembra ragionevole ma che incontra il netto rifiuto del padrone: raccogliere subito la zizzania. Il padrone invita i servi ad attendere, a pazientare fino alla mietitura, quando i mietitori daranno al grano e alla zizzania un domicilio diverso. L’uno sarà depositato nel granaio e l’altra bruciata. Gesù “dilata” il tempo, concede lo spazio della maturazione di ogni cuore dinanzi alla parola. È una dilazione del giudizio, un tempo “supplementare” per offrire ancora la chance di subire il fascino della sua misericordia che soffia su ogni campo.

No, rispose … - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): La situazione descritta dai versetti 28-29 è spiegata dagli esegeti come un fatto dovuto ad un uso agricolo. Il grano e la zizzania erano già troppo avanti per pensare di strappare l’erba nociva senza correre il pericolo di sradicare anche il grano; infatti è difficile mondare il grano dalla zizzania quando le radici dell’uno sono intrecciate con quelle dell’altra. A nostro parere, questa spiegazione, quantunque sia giusta e consideri un fatto oggettivo, non è sufficiente. Il padrone del campo proibisce ai suoi contadini di procedere alla mondatura del grano, per timore che essi, sradicando la zizzania, non strappino anche il grano; ma questo pericolo non era conosciuto anche dagli stessi contadini, i quali avevano chiesto al proprietario di raccogliere la zizzania? Probabilmente è meglio pensare che il padrone abbia impartito l’ordine di non procedere alla mondatura per dare uno sviluppo ulteriore all’immagine. Anche in quelle circostanze si poteva ricorrere ad un rimedio; infatti il padrone poteva sacrificare anche un po’ di grano per salvare l’intero raccolto. L’ordine quindi dato dal proprietario terriero è suggerito da una preoccupazione morale dell’autore della parabola, più che da una misura prudenziale o da un uso agricolo. È il Signore che vuole (cioè: permette) questa mescolanza dei buoni con i malvagi sulla terra per dei fini altissimi e misteriosi. In cielo invece vi saranno soltanto i buoni, perché Egli, al termine della vita di ciascuno, penserà a separare definitivamente i buoni (il grano) dai malvagi.

Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla - Il giudizio nei Vangeli - J. Corbon e P. Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): Nei sinottici, la predicazione di Gesù si riferisce frequentemente al giudizio dell’ultimo giorno. Allora tutti gli uomini dovranno rendere conti (cfr. Mt 25, 14-30). Una condanna rigorosa attende gli scribi ipocriti (Mc 12,40 par.), le città del lago che non hanno ascoltato la predicazione di Gesù (Mt 11,20-24), la generazione incredula che non si è convertita alla sua voce (12,39-42), le città che non accoglieranno i suoi inviati (10,14s). Il giudizio di Sodoma e Gomorra non sarà nulla in confronto al loro (10,23s); essi subiranno il giudizio della Geenna (23,33). Questi insegnamenti pieni di minacce mettono in rilievo la motivazione principale del giudizio divino: l’atteggiamento assunto dagli uomini di fronte al vangelo. L’atteggiamento verso il prossimo conterà altrettanto: secondo la legge mosaica, ogni omicida era passibile di tribunale umano; secondo la legge evangelica, occorrerà molto meno per essere passibili della Geenna (Mt 5,21s)! Bisognerà rendere conto di ogni calunnia (12,36). Si sarà giudicati con la stessa misura che si sarà applicata al prossimo (7,1-5). Ed il quadro di queste assise solenni, in cui il figlio dell’uomo funzionerà da giustiziere (25,31-46), mostra gli uomini accolti nel regno o consegnati alla pena eterna, secondo l’amore o l’indifferenza che avranno dimostrato verso il prossimo. C’è tuttavia un delitto che, più di qualunque altro, chiama il giudizio divino. È quello con cui l’incredulità umana ha raggiunto il colmo della malizia in un simulacro di giudizio legale: il processo e la condanna a morte di Gesù (Mc 14 63 par.; cfr. Lc 24,20; Atti 13,28). Durante questo giudizio iniquo, Gesù si è rimesso a colui che giudica con giustizia (1Piet 2,23); quindi Dio, risuscitandolo, lo ha ristabilito nei suoi diritti. Ma l’esecuzione di questa sentenza ingiusta ha richiesto, in cambio, una sentenza di Dio contro l’umanità colpevole. È sintomatico il fatto che la cornice, in cui il vangelo di Matteo colloca la morte di Gesù, coincide con lo scenario tradizionale del giudizio nell’escatologia del VT (Mt 27,45.51ss). La morte di Gesù è quindi il momento in cui il mondo è giudicato; la storia successiva, fino all’ultimo giorno, non farà che esplicitare questa sentenza. Essa, secondo la testimonianza di Gesù stesso, colpirà dapprima «coloro che sono in Giudea», i primi colpevoli (24,15ss par.); ma questo non sarà che un preludio ed un segno, che annunzierà l’avvento finale del figlio dell’uomo, giudice del grande giorno (24,29 ss). Il condannato della passione, vittima del peccato del mondo, pronunzierà allora contro il mondo peccatore una condanna clamorosa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio” (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Assisti, Signore, il tuo popolo,
che hai colmato della grazia di questi santi misteri,
e fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato
alla pienezza della vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.




26 Luglio 2019

Santi Gioacchino e Anna - Memoria

Es 20,1-17; Sal 18 (19); Mt 13,18-23

Dal Martirologio: Memoria dei santi Gioacchino e Anna, genitori dell’immacolata Vergine Maria Madre di Dio, i cui nomi sono conservati da antica tradizione cristiana.

Santi Anna e Gioacchino: Anna e Gioacchino sono i genitori della Vergine Maria. Gioacchino è un pastore e abita a Gerusalemme, anziano sacerdote è sposato con Anna. I due non avevano figli ed erano una coppia avanti con gli anni. Un giorno mentre Gioacchino è al lavoro nei campi, gli appare un angelo, per annunciargli la nascita di un figlio ed anche Anna ha la stessa visione. Chiamano la loro bambina Maria, che vuol dire «amata da Dio». Gioacchino porta di nuovo al tempio i suoi doni: insieme con la bimba dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia. Più tardi Maria è condotta al tempio per essere educata secondo la legge di Mosè. Sant’Anna è invocata come protettrice delle donne incinte, che a lei si rivolgono per ottenere da Dio tre grandi favori: un parto felice, un figlio sano e latte sufficiente per poterlo allevare. È patrona di molti mestieri legati alle sue funzioni di madre, tra cui i lavandai e le ricamatrici. (Avvenire)

Colletta: Dio dei nostri padri, che ai santi Gioacchino e Anna hai dato il privilegio di avere come figlia Maria, madre del Signore, per loro intercessione concedi ai tuoi fedeli di godere i beni della salvezza eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Nella spiegazione della parabola, Gesù mette in evidenza quattro categorie di persone, tutto e quattro in ascolto della  Parola di Dio, ma con modalità e frutti assai diversi. C’è chi non la “comprende”: un’ignoranza colpevole? Forse sì, in quanto apre le porte dell’anima al Maligno, il quale viene e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore. C’è chi ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non pondera bene i passi da compiere, non riflette con sapienza a cosa va incontro, e così appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. La terza categoria è la più ostica, impenetrabile, sorda, incapace di mettersi in ascolto a motivo della preoccupazione del mondo e della seduzione della ricchezza. E così, affanni e avidità  soffocano la Parola. Infine, vi sono coloro che riflettono sulla Parola ascoltata e si dispongono a mettersi in un serio e ben ponderato cammino di conversione. Se nella parabola il Maligno, le tribolazioni, le persecuzioni, le preoccupazioni del mondo, e la seduzione della ricchezza, la fanno da padroni, la libertà dell’uomo rimane inviolabile.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,18-23: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

La spiegazione della parabola del seminatore - Giuseppe Barbaglio (Il Vangelo di Matteo): L’accento cade sulle diverse disposizioni morali degli uomini che ascoltano la parola di Dio. Questa si trova minacciata in loro da forze esterne: Satana, crisi, persecuzioni, preoccupazioni del mondo e ricchezze. In chi vi soccombe essa resta senza frutto. Invece produce frutti abbondanti in coloro che resistono validamente e accolgono la parola con animo aperto. L’efficacia della parola si trova dunque condizionata dal tipo di accoglienza che gli ascoltatori le riservano. L’ascolto superficiale, unito all’incostanza nelle difficoltà e al cedimento di fronte alle tentazioni, rimane sterile. Risulterà invece operativo in senso salvifico nell’ascoltatore docile e perseverante.
L’intento appare chiaramente esortativo. Si vuol ammonire i membri della comunità cristiana, che hanno ascoltato la parola di Dio accogliendo la predicazione apostolica, di non cedere alle lusinghe e di essere fermi nelle difficoltà, particolarmente in tempo di persecuzione. Altrimenti l’ascolto iniziale sarà inutile. È chiaro l’assillo pastorale di questa interpretazione della parabola. L’attenzione si volge al presente della vita cristiana, che è qualificato come fedeltà alla decisione iniziale per il vangelo.

Nella parabola del seminatore, Gesù suggerisce quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: è l’immagine di colui che ascolta la parola, non la comprende e, a motivo della sua stoltezza, fa sì che il diavolo rubi ciò che è stato seminato. Il diavolo, il «dio di questo mondo» (2Cor 4,4), ha un progetto: non vuole che l’uomo si salvi e conoscendo la potenza della Parola di Dio è pronto a scendere in campo. Ma la parabola mette a nudo l’estrema impotenza del diavolo: infatti, egli riesce a rubare «ciò che è stato seminato nel cuore», non perché capace di farlo, ma per la negligenza dell’uomo.
L’affermazione, Quello che è stato seminato sul terreno sassoso, mette in relazione l’incostanza con la tribolazione o la persecuzione a causa della Parola. Praticamente, quando si vive una vita cristiana ovattata tutto va bene, si può essere anche gioiosi, ma quando la croce incomincia a far capolino, allora tutto cambia repentinamente. La parabola ritorna così a ricordarci una profonda comunione tra la fede e la croce. Il credente non può essere così ingenuo da pensare che gli verrà risparmiata la croce proprio da Colui che liberamente in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce (Eb 12,2) per la salvezza degli uomini. Cristo «chiama i suoi discepoli a prendere la croce e a seguirlo, poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari. Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice. Al di fuori della croce non vi è altra salvezza» (CCC 618).
Il seme caduto tra i rovi, mette in evidenza il ruolo negativo della preoccupazione del mondo e della seduzione della ricchezza nella vita dei discepoli: un ruolo negativo perché di fatto «soffocano la Parola ed essa non porta frutto» (Mt 13,28). È una condanna senza appello! Mentre per i due primi casi l’uomo può sempre mettersi in carreggiata, nel caso della preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza la creatura si avvia alla morte per soffocamento. Il Signore Dio concede la grazia e non violenta l’uomo, il quale deve corrispondere liberamente. Chi risponde con generosità riceve ulteriore grazia, arricchendosi così ogni giorno di più in grazia e santità. Chi invece la respinge, muore soffocato nel suo egoismo.
Alla fine c’è il terreno buono. Con questa immagine Gesù vuol dirci che l’uomo può farcela perché Dio lo vuole. Basta aprirsi al suo Amore, basta credere alla sua Parola. Basta accogliere con fiducia la Parola che Dio, per bocca del profeta Isaia, rivolge al suo popolo: «Credetemi, pare che voglia dire Yahveh, la mia parola è efficace. Tutto quello che vi dico, è vero. Come la pioggia che scende dal cielo non torna lassù senza aver inzuppato e fecondato la terra, così la mia parola non torna a me senza aver adempiuto il suo compito. La parola di Dio è il piano di Dio, i suoi eterni disegni di salvezza, piano e disegni che si sono realizzati in Cristo, sua parola incarnata» (Epifanio Callego).

Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende - Angelo Lancellotti (Matteo):  la parola del Regno: è l’annuncio della misteriosa realtà del regno dei cieli fatto da Gesù durante la sua esistenza terrena, mentre nell’applicazione che ne fa la Chiesa è il messaggio apostolico rivolto al mondo sia giudaico che pagano. - non la comprende: cioè non l’accoglie, mostrandosi del tutto refrattario ad assimilarne il contenuto e a tradurre nella vita pratica le esigenze morali, come refrattario è verso la semente il fondo ben compatto di una via, sia esso anche un sentiero di campagna. In questa categoria di persone va identificato, in primo luogo, il popolo ebraico, il popolo ebraico che non accolse la parola di salvezza offertagli dal Messia ed ora si ostina a rifiutare il messaggio cristiano. - viene il maligno: nell’assurda, preconcetta incredulità d’Israele e di quanti ne imitano e ne imiteranno l’esempio, si nasconde la misteriosa azione di Satana il «nemico» del Regno (cf v. 28).

Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Infine, l’ultimo gruppo, il principale e il più importante della parabola, è costituito da coloro che ascoltano e capiscono; da coloro che comprendono rettamente - non solo in maniera iniziale e imperfetta e neppure solo per qualche tempo o finché la cosa è facile e dà gioia il credere -; da coloro che restano fedeli nelle opposizioni e nelle tribolazioni, nelle dure lotte con le altre potenze che vogliono dominare la nostra vita. Comprendere a fondo significa rendersi conto che Dio vuole essere il nostro unico Signore, per sempre e ovunque; che l’essere discepoli di Gesù comporta un legame stabile e profondo con lui per tutta la vita. Chi ha così «compreso», viene continuamente e riccamente ricoperto dei doni di Dio, e porta molto frutto: il cento, il sessanta, il trenta, secondo la misura della propria comprensione.

Le parabole non sono finite - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Ancora oggi Dio ci parla del suo regno in parabole, cioè in segni, al passo con la vita che continua incessantemente il suo corso. In primo luogo, continua a parlarci attraverso suo Figlio, Gesù Cristo, che è la parabola viva ed eterna del Padre, come disse Gesù all’apostolo Filippo che gli chiedeva di fargli vedere il Padre: « Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Dio ci parla anche con la parola della Chiesa e con la comunità dei fratelli; ci interpella in parabola attraverso i più poveri e bisognosi di liberazione, come con gli avvenimenti positivi e negativi del nostro tempo, con le legittime aspirazioni dell’umanità, con il dolore dei popoli oppressi, con le vittime dell’oppressione e dell’ingiustizia, con la natura e l’inquietudine degli ecologisti, con i successi e i fallimenti personali, familiari e sociali, con l’innocenza dei bambini, l’entusiasmo e l’anticonformismo dei giovani e con la maturità e responsabilità degli adulti, con l’arte e la bellezza, con tutto quello che esiste. Chi ama percepisce la voce dell’Amato in tutto ciò che è umano, bello e nobile. Sarebbe triste metterci nell’atteggiamento dei sordi che, udendo, non ascoltano, dei ciechi che, guardando, non vedono e degli stolti che, nonostante l’evidenza, non capiscono.
Comprendere questa multiforme parola di Dio nella vita personale e nella storia umana richiede il passaggio dall’ascolto all’azione, superando gli scogli che le nostre passioni, la superficialità, l’opportunismo, l’incostanza, le ansie e l’avidità comportano per uno splendido raccolto del seme del regno in noi

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Al di fuori della croce non vi è altra salvezza. 
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che nella tua provvidenza
hai voluto che il tuo Figlio
nascesse come membro dell’umana famiglia
per farci rinascere alla nuova vita,
santifica con lo Spirito di adozione
i figli che hai nutrito alla tua mensa.
Per Cristo nostro Signore.




25 Luglio 2019

SAN GIACOMO, APOSTOLO - FESTA

2Cor 4,7-15; Sal 125 (126); Mt 20,20-28


Dal Martirologio: Festa di san Giacomo, Apostolo, che, figlio di Zebedeo e fratello di san Giovanni evangelista, fu insieme a Pietro e Giovanni testimone della trasfigurazione del Signore e della sua agonia. Decapitato da Erode Agrippa in prossimità della festa di Pasqua, ricevette, primo tra gli Apostoli, la corona del martirio.

Colletta: Dio onnipotente ed eterno, tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli Apostoli, sacrificasse la vita per il Vangelo; per la sua gloriosa testimonianza conferma nella fede la tua Chiesa e sostienila sempre con la tua protezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Gesù per la terza volta aveva preannunziato la sua morte (Mt 20,17-19), eppure la domanda della madre dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, e la reazione scomposta degli Apostoli, mostra con chiarezza come il discorso sulla croce non sia stato recepito. La replica di Gesù è chiara: i discepoli non devono preoccuparsi di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma di bere il suo calice. Gli uomini a volte, per brama di onore e di potere, agognano occupare nella società i primi posti, nella Chiesa tutto questo deve essere bandito: i capi della Chiesa devono essere servi. Gesù si pone ancora una volta come modello da imitare: Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Chi nella Chiesa occupa i primi posti lo deve fare con spirito di servizio, la fecondità dell’autorità non è determinata dall’affermazione di sé, ma nel farsi schiavo, come il Figlio dell’uomo.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,1-9: In quel tempo, si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato». Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Voi non sapete ciò che domandate - I figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, se avessero avuto la conoscenza del come si muore su una croce, l’esperienza del martirio dei flagelli romani o della tortura delle spine e se avessero saputo cosa significa sudare sangue come il Maestro avrebbe fatto di lì a poco nel Getsemani, agonizzante fra mille pene fisiche e morali, certamente sarebbero stati più cauti nell’avanzare certe pretese! Gesù aveva annunciato diverse volte la sua morte dolorosa per mano dei pagani e in questa ambientazione la richiesta suona ancora più sorprendente. È veramente deludente che proprio alla vigilia della morte di Gesù, attorno alla sua persona si sogni prestigio sociale e gloria politica. Ma nel Vangelo, ma non sempre nella comunità cristiana, non c’è posto per l’arrivismo, il carrierismo, l’ambizione del potere e la corsa ai primi posti o agli onori. Basta osservare Gesù per comprendere che la salvezza dell’uomo imbocca strade diverse ed ha un prezzo sconvolgente. Ancora una volta i discepoli hanno mancato l’appuntamento con la Croce! La Croce “l’abbiamo inquadrata nella cornice della sapienza umana e nel telaio della sublimità di parola. L’abbiamo attaccata con riverenza alle pareti di casa nostra, ma non ce la siamo piantata nel cuore. Pende dal nostro collo, ma non pende sulle nostre scelte. Le rivolgiamo inchini e incensazioni in chiesa, ma ci manteniamo agli antipodi della sua logica. L’abbiamo isolata, sia pure con tutti i riguardi che merita. È un albero nobile che cresce sulle zolle recintate” (Rinaldo Paganelli). Se umilmente accettassimo di bere il calice di Gesù, la Croce, da strumento di tortura e di morte, si muterebbe in via regale che conduce all’eterna salvezza.

Potete bere il calice che io sto per bere? - Giovanni Paolo II (Omelia, 9 novembre 1982): San Giacomo era fratello di Giovanni Evangelista. Essi furono i due discepoli a cui - in uno dei dialoghi più impressionanti che riporta il Vangelo - Gesù fece quella famosa domanda: “«Potete bere il calice che io sto per bere?». Ed essi risposero: «Possiamo»” (Mt 20,23). Era la parola della disponibilità, del coraggio; un atteggiamento tipico dei giovani, però non loro esclusivo, ma di tutti i cristiani, ed in particolare di coloro che accettano di essere apostoli del Vangelo. La generosa risposta dei due discepoli fu accettata da Gesù. Egli disse loro: “Il mio calice lo berrete” (Mt 20,23). Queste parole si compirono in Giacomo, figlio di Zebedeo, che col suo sangue diede testimonianza della risurrezione di Cristo a Gerusalemme. Gesù aveva fatto la domanda sul calice che avrebbero dovuto bere i due fratelli, quando la loro madre, come abbiamo letto nel Vangelo, si avvicinò al Maestro, per chiedergli un posto di speciale rilievo per entrambi nel Regno. Però Cristo dopo aver costatato la loro disponibilità a bere il calice, disse loro: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio” (Mt 20, 23). La disputa per conseguire il primo posto nel futuro Regno di Cristo, che i suoi discepoli immaginavano in modo troppo umano, suscitò l’indignazione degli altri Apostoli. Gesù approfittò allora dell’occasione per spiegare a tutti che la vocazione al suo Regno non è una vocazione al potere ma al servizio, “appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28). Nella Chiesa, l’evangelizzazione, l’apostolato, il ministero, il sacerdozio, l’episcopato, il papato, sono servizio.

Il mio calice, lo berrete - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): La risposta di Gesù, « berrete il mio calice », annuncia la partecipazione dei figli di Zebedeo (anche qui la loro presenza è più simbolica che individuale), alla passione e morte redentiva. La loro associazione arriverà fino al martirio. Questa imitazione del maestro, a cui i due fratelli non avevano pensato, è uno dei fondamenti più inconcussi non solo della dottrina evangelica ma anche di tutta la morale neotestamentaria. Ciò che ai figli di Zebedeo stava più a cuore (i primi posti del regno) rimane incerto, perché si tratta di una concessione che dipende solo dal Padre. Egli ha ideato il piano della salvezza ed egli lo va realizzando secondo schemi prefissi. Gesù non «sa» quali posti in essi sono assegnati ai figli di Zebedeo; come dirà di ignorare, più tardi, il giorno e l’ora della fine di Gerusalemme (Mt. 24, 36).

Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli - «Gli altri dieci si sdegnarono». Una nota che mette in luce una realtà fin troppo scomoda: nel gruppo apostolico serpeggiavano divisioni, liti, manie di grandezza ... La risposta di Gesù tronca al nascere ogni velleità di primeggiare: Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.
La vera grandezza sta nel servire, nell’occupare gli ultimi posti come il Figlio dell’uomo. Una risonanza di questo insegnamento è nel racconto della lavanda dei piedi (Gv 13,1ss). Con questo detto «non si condanna di aspirare ai posti di responsabilità né si insegna paradossalmente che per raggiungere tali posti bisogna farsi servi e schiavi di tutti, ma più semplicemente si vuol dire che nell’ambito della comunità cristiana i chiamati al comando devono adempiere al loro mandato con spirito di servizio, facendosi tutto a tutti e guardando solo al bene degli altri [cf. 1Cor 9,19-23; 2Cor 4,5]» (A. Sisti).
Per Gesù servire vuol dire essere obbediente alla volontà del Padre fino alla morte, senza sconti e ripiegamenti, come il Servo di Iahvè, che si fa solidale con il peccato degli uomini. Affermando che è venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti», il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte. Donandosi alla morte per la salvezza degli uomini e per la loro liberazione dalla schiavitù del peccato, Gesù offre alla Chiesa un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella storia

Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti - C. Augrain e M.-F. Lacan (Dizionario di Teologia Biblica): 1. Gesù fa sua la missione del servo; maestro mite ed umile di cuore (Mt 11,29) che annunzia la salvezza ai poveri (cfr. Lc 4,18s), egli è in mezzo ai suoi discepoli «come Colui che serve» (Lc 22,27), pur essendo il loro Signore ed il loro maestro (Gv 13,12-15), e giunge fino al colmo delle esigenze dell’amore che ispira questo servizio (Gv 13,1; 15,13), dando la sua vita per la redenzione della moltitudine dei peccatori (Mc 10,43ss.; Mt 20,26ss); perciò, trattato come uno scellerato (Lc 22,37), muore sulla croce (Mc 14, 24; Mt 26,28), sapendo che risorgerà, secondo quanto è scritto del figlio dell’uomo (Mc 8,31 par.; 9,31 par.; Lc 18,31ss par.; 24,44; cfr. Is 53,10ss). Se dunque è il Messia atteso, il figlio dell’uomo non viene a ristabilire un regno temporale, ma per entrare nella sua gloria ed introdurvi il suo popolo, passando attraverso la morte del servo. 2. La predicazione apostolica ha applicato a Gesù il titolo di servo per annunciare il mistero della sua morte (Atti 3,13s.18; 4,27s), fonte di benedizione e di luce per le nazioni (Atti 3,25s; 26,23). Agnello immolato ingiustamente come il servo (Atti 8, 32 s), Gesù ha salvato le sue pecore sviate; le piaghe del suo corpo hanno guarito le anime dei peccatori (1Piet 2,21-25). Per Matteo, Gesù è il servo che annuncia la giustizia alle nazioni ed il cui nome è la loro speranza (Mt 12,18-21 = Is 42,1-4). Infine un inno permette a Paolo di presentare il mistero di Cristo e della sua carità in una sintesi potente: esso proclama che Cristo è entrato nella gloria assumendo la condizione di servo e morendo sulla Croce per obbedire a Dio suo Padre (Fil 2,5-11); la profezia del servo annunziava quindi il sacrificio redentore del Figlio di Dio fatto uomo. Perciò il nome del santo servo di Dio, Gesù, Crocifisso e risorto, è la sola fonte della salvezza (Atti 4,10ss.29ss). 3. I servi di Dio sono ormai i servi di Cristo (Rom 1,1; Gal 1,10; Fil 1,1; cfr. Tito 1,1). Come il Signore ha preso per madre colei che si chiamava la sua serva (Lc 1, 38.43.48), così fa dei suoi servi i suoi amici (Gv 15,15) ed i figli del Padre suo (20,17). Essi d’altronde, come il loro maestro, devono passare per la stessa via della sofferenza (15,20); trionfando della prova i servi di Dio entreranno nella gloria del regno (Apoc 7,3.14s; 22,3ss). 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Se umilmente accettassimo di bere il calice di Gesù, la Croce, da strumento di tortura e di morte, si muterebbe in via regale che conduce all’eterna salvezza.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Proteggi la tua famiglia, Signore,
per l’intercessione dell’apostolo san Giacomo,
nella cui festa abbiamo ricevuto con gioia i tuoi santi misteri.
Per Cristo nostro Signore.





24 Luglio 2019

Mercoledì della XVI SETTIMANA T. O.

Es 16,1-5.9-15; Sal 77 (78); Mt 13,1-9


Colletta: Sii propizio a noi tuoi fedeli, Signore, e donaci i tesori della tua grazia, perché, ardenti di speranza, fede e carità, restiamo sempre fedeli ai tuoi comandamenti. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Il Vangelo di oggi ci suggerisce due riflessioni. La prima, il seminatore, Gesù, uscì a seminare, e possiamo dire che certamente non è oculato nello spargere la semente. Diremmo che avrebbe potuto cercare soltanto il “terreno buono” e lì spargere a iosa il seme. E così, la parabola ci suggerisce che non dobbiamo avere timore a spargere il seme della Parola anche in cuori incattiviti dal male, chi semina è Gesù, ed è Lui a fare crescere la pianta e a far sì che porti frutti abbondanti di santità e di salvezza: “Quando uno dice: «Io sono di Paolo, e un altro: «Io sono di Apollo, non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio” (1Cor 3,4-9).
La seconda riflessione la suggerisce il terreno buono e i suoi frutti: Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Perché questa differenza di frutti? Non ci è data una risposta, forse perché così “predisposta” dalla grazia di Dio, forse perché il tutto dipende dalla risposta dell’uomo, che rimane pur sempre una risposta libera, anche se viziata dal peso del peccato originale: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,18-19). 
In ogni caso ben valga il monito di Gesù, Chi ha orecchi, ascolti. Un monito fondante per la vita cristiano, perché l’“ascolto” può mutare un deserto in un giardino, come il non ascolto può far sì che un ameno giardino si trasformi in un desolato deserto. Ascoltare apre l’uomo alla Vita senza fine, il non ascolto lo fa addormentare tra le braccia della morte eterna.

Dal Vangelo secondo Matteo 13,1-9: Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici
, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Il XIII capitolo di Matteo, con sette parabole, espone sotto diversi aspetti il mistero del regno e le sue vicissitudini. Il numero sette, che indica pienezza, è un numero molto caro a Matteo (cfr. 1,17; 5,3.5; 6,9; 18,22; 23,1). La parabola “come appare nel vangelo, può definirsi: un racconto fittizio, ma verosimile, che serve ad illustrare un insegnamento morale o una verità dottrinale mediante un paragone” (Angelo Lancellotti). Da qui la possibile incomprensione del racconto parabolico da parte di molti, ma, sopra tutto, da parte di chi è mal disposto. L’accoglienza «positiva da parte del credente, come il rifiuto da parte del non credente, nei confronti del messaggio di Gesù, è in fondo l’effetto di intime disposizioni personali che condizionano l’ascolto. Si respinge il Signore non perché non si capisca il senso delle sue parabole, ma perché in ultima analisi manca la volontà di capirlo, si è mal disposto verso la persona stessa di Gesù» (A. S. - R. S). In questo modo, per «le anime ben disposte, al possesso dell’antica alleanza si aggiungerà il perfezionamento della nuova (cfr. Mt 5,17.20); alle anime mal disposte, verrà tolto anche quello che hanno, cioè la stessa legge giudaica che, lasciata a se stessa, diverrà caduca» (Bibbia di Gerusalemme).  La parabola del seminatore vuole mettere in evidenza gli ostacoli che il regno di Dio trova nel suo sviluppo sulla terra. Ma, nonostante i fallimenti e l’incorrispondenza di molti, il seme, a suo tempo, porterà abbondanti frutti. Un messaggio di ottimismo per tanti cristiani delusi (cfr. Lc 24,13ss).

Il seminatore uscì a seminare - La parola di Dio - X. Dufour (Dizionario di Teologia Biblica): Secondo una linea direttamente metaforica, il seme è la parola di Dio. Già il consolatore di Israele annunziava l’azione efficace della parola divina, paragonandola alla pioggia che rende fecondo il seme (Is 55,10s). Annunciando la parabola del seminatore, Gesù associa il dovere di portare frutto, non alla messe, ma alle semine; opera così una retrospettiva sull’inaugurazione degli ultimi tempi (cfr. Os 2,25) che ha luogo nel momento in cui sta parlando. Questa è la storia vissuta dell’incontro tra il Germe divino e il popolo di Dio. Bisogna essere una buona terra, proprio perché la semente è gettata con la parola stessa di Dio. E allora, che splendido raccolto! E tuttavia, accanto al buon seme seminato dal figlio dell’uomo, c’è anche la zizzania seminata dal maligno (Mt 13,24-30.36-43). Questa parola è Cristo in persona, che ha voluto morire in terra per portare frutto (Gv 12,24.32). E la Chiesa ha riconosciuto la sua propria storia attraverso le parabole di Gesù. Ha fortificato la sua fede presentendo, attraverso gli umili inizi del regno dei cieli, la gloria finale: il granello di senapa diventa un grande albero (Mt 13,31s; cfr. Ez 17,23; Dan 4,7-19), secondo la promessa fatta un tempo ad Abramo di un «seme» innumerevole come le stelle del cielo. Infine la Chiesa, «seme» di Gesù (Apoc 12,17), resiste vittoriosamente al dragone, perché Cristo dimora in essa (1Gv 3,9).  

La parabola - Angelo Lacellotti (Matteo): «parabola», dal greco parabolé, vuol dire: paragone, discorso per similitudine. La parabola, come appare nel vangelo, può definirsi: un racconto fittizio, ma verosimile, che serve ad illustrare un insegnamento morale o una verità dottrinale mediante un paragone.
Si deve distinguere bene la parabola dall’allegoria; poiché mentre nell’allegoria, che è una serie di metafore, ogni elemento ha un suo preciso significato, nella parabola ciò che conta è la sostanza dell’insegnamento, mentre i dettagli hanno spesso una funzione ornamentale. Inoltre, mentre la parabola ha per sé lo scopo di chiarire, l’allegoria ha quello di velare la verità. Ora però, essendo l’allegoria e la parabola forme letterarie affini, è comprensibile che nelle parabole evangeliche si infiltrino spesso elementi allegorici.
13,1-9 (Mc 4,3-9; Lc 8,4-8): la parabola del seminatore, cioè la sorte del messaggio evangelico deposto come un seme da Cristo e dalla Chiesa nel cuore degli uomini. Nonostante i molteplici ostacoli, nonostante il parziale insuccesso, alla fine il seme porterà il suo frutto, e un frutto sovrabbondante. La parabola del seminatore, accompagnata dal detto di Gesù sul motivo dell’insegnamento in parabole (vv. 10-13) a cui fa seguito la spiegazione della parabola stessa (vv. 18-23), è riportata senza variazioni notevoli da tutti e tre i Sinottici.

Il contesto di una parabola - Claude Tassin (Vangelo di Matteo): In genere, una parabola nasce da una situazione concreta, situazione che si manifesta in due modi: attraverso il quadro e/o l’applicazione della favola. a) Il quadro è costituito dal luogo e dalle persone che muovono il narratore a raccontare la parabola. Se La Fontaine avesse osato raccontare il corvo e la volpe davanti alla corte di Versailles, Luigi XIV sarebbe certamente impallidito di rabbia, sentendosi preso di mira dalla parabola. Il quadro di questa può variare e, di conseguenza, la sua stessa portata. In Luca 15, la pecora smarrita ha come quadro le critiche dei farisei e degli scribi che osservano Gesù seduto a mensa con i peccatori. In Matteo 18, lo stesso racconto riguarda i responsabili della Chiesa più preoccupati della loro dignità che dell’accoglienza dei piccoli, fattore che muta la portata dell’immagine adoperata. b) L’applicazione è la lezione che si trae dalla favola. Quando La Fontaine scrive: «Ogni adulatore vive a spese di colui che lo ascolta», questo non fa più parte della parabola; è una lezione che egli pone in bocca alla volpe. In Matteo 13, l’applicazione è quasi sempre manifesta: «Il regno dei cieli è simile...»; in altre parole, la storia raccontata (la zizzania, il tesoro) si applica al regno. Ma spetta sovente all’ascoltatore (al lettore) scoprirne l’applicazione.

Il carattere enigmatico delle parabole - D. Sesbouè (Dizionario di Teologia Biblica): l. Nella profezia del VT. - Per spiegare il carattere enigmatico di talune parabole evangeliche, più che agli enigmi dei sapienti (1Re 10,1-3; Eccli 39,3), bisogna ricorrere alla presentazione volutamente misteriosa di scritti tardivi. A partire da Ezechiele, l’annuncio profetico del futuro si trasforma a poco a poco in apocalisse, avvolge cioè deliberatamente il contenuto della rivelazione in una serie di immagini che hanno bisogno di spiegazione per essere comprese. La presenza di un «angelo-interprete» fa generalmente spiccare la profondità del messaggio e la sua difficoltà. Così l’allegoria dell’aquila in Ez 17,3-10, chiamata «enigma» e «parabola» (masal), è poi spiegata dal profeta (17,12-21). Le visioni di Zaccaria comportano un angelo-interprete (Zac 1,9ss; 4,5s...) e soprattutto le grandi visioni apocalittiche di Daniele, nelle quali si suppone sempre Che il veggente non comprenda (Dan 7,15s; 8,15s; 9; 22). Si giunge così a uno schema tripartito: simbolo - richiesta di spiegazione - applicazione del simbolo alla realtà.
2. Nel Vangelo - Il mistero del regno e della persona di Gesù è talmente nuovo che anch’esso non può manifestarsi se non gradualmente, e secondo la ricettività diversa degli uditori. Perciò Gesù, nella prima parte della sua vita pubblica, raccomanda a suo riguardo il «segreto messianico», posto in così forte rilievo da Marco (1,34.44; 3,12; 5,43 ...). Perciò pure egli ama parlare in parabole che, pur dando una prima idea della sua dottrina, obbligano a riflettere ed hanno bisogno di una spiegazione per essere perfettamente comprese. Si perviene così a un insegnamento a due livelli, ben sottolineato da Mc 4, 33-34: il ricorso a temi classici (il re, il banchetto, la vite, il pastore, le semine...) mette sulla buona strada l’insieme degli ascoltatori; ma i discepoli hanno diritto a un approfondimento della dottrina, impartito da Gesù stesso. I loro quesiti ricordano allora gli interventi dei veggenti nelle apocalissi (Mt 13,10-13.34s-36.51; 15,15; cfr. Dan 2,18ss; 7,6). Le parabole appaiono così una specie di mediazione necessaria affinché la ragione si apra alla fede: più il credente penetra nel mistero rivelato, più approfondisce la comprensione delle parabole; viceversa, più l’uomo rifiuta il messaggio di Gesù, più gli resta interdetto l’accesso alle parabole del regno. Gli evangelisti sottolineano appunto questo fatto quando, colpiti dalla ostinazione (indurimento) di molti Giudei di fronte al vangelo, rappresentano Gesù che risponde ai discepoli con una citazione di Isaia: le parabole mettono in evidenza l’accecamento di coloro che rifiutano deliberatamente di aprirsi al messaggio di Cristo (Mt 13,10-15 par.). Tuttavia, accanto a queste parabole affini alle apocalissi, ce ne sono di più chiare che hanno di mira insegnamenti morali accessibili a tutti (così Lc 8,16ss; 10,30-37; 11,5-8).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Nonostante i molteplici ostacoli, nonostante il parziale insuccesso, alla fine il seme porterà il suo frutto, e un frutto sovrabbondante.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Assisti, Signore, il tuo popolo,
che hai colmato della grazia di questi santi misteri,
e fa’ che passiamo dalla decadenza del peccato
alla pienezza della vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.