27 Settembre 2018

Giovedì XXV Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice “Io sono la via, le verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Gv 14,6 - Acclamazione al Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Luca 9,7-9: Matteo e Marco raccontano l’esecuzione del Battista; Luca preferisce preparare l’incontro che avverrà durante il cammino della passione (cfr. Lc 23). La fama di Gesù era arrivata agli orecchi di Erode, ma il re non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risorto dai morti», altri: «È apparso Elìa», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti». Per il tiranno, violento e corrotto, queste dicerie sono assurde e vanno contro ogni logica umana, e poi i fatti sono sotto gli occhi di tutti: Elia è morto, e Giovanni, l’ho fatto decapitare io, allora, chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose? E cercava di vederlo: forse il desiderio di vedere Gesù nasce solo da curiosità di incontrare un mago e di assistere a qualche miracolo (Lc 23,8) o forse dalla volontà di misurare se è un pericolo per eliminare anche lui. Un’ipotesi, quest’ultima, da non scartare (cfr. Lc 13,31). Quando Erode vedrà Gesù lo interrogherà facendogli molte domande (Lc 23,9). La resistenza passiva di Gesù e la constatazione che si tratta solo di un innocuo Galileo visionario concluderà il loro incontro: lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato (Lc 23,11). Lo aveva visto ma non aveva riconosciuto il mistero della sua identità, perciò lo trattò da povero pazzo. Un’occasione sciupata perché poteva essere l’incontro della vita! Nei vangeli accade spesso che alcune persone vedano fisicamente Gesù: ad esempio gli scribi, i farisei, i sadducei, gli erodiani..., ascoltano i suoi insegnamenti e vedono i miracoli che compie, eppure rifiutano di aderire a lui e di accoglierlo come il Figlio di Dio, l’inviato di Dio.

Erode e Gesù - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Il tetrarca Erode udì tutto quello che accadeva; l’insegnamento, i miracoli, la missione svolta dagli inviati di Cristo avevano suscitato dell’entusiasmo nella folla ed avevano fatto giungere la fama del Maestro agli orecchi di Erode Antipa; tuttavia sulla popolarità del Salvatore circolavano nel popolo le voci più discordanti che Luca, contrariamente a Matteo e Marco, fa giungere fino al tetrarca, causando in questo dell’inquietudine e della perplessità. L’evangelista ritocca notevolmente le espressioni dei testi paralleli degli altri Sinottici (cf. Mt., 14,1-2; Mc., 6,14-16) dando al racconto un suo sviluppo personale. «Tetrarca»: titolo più esatto di quello usato da Marco («re»; cf., Mc., 6,14), poiché ad Erode Antipa non fu riconosciuto da Roma l’appellativo di re, ma quello di tetrarca (capo di una quarta parte del territorio). Ed era molto perplesso; osservazione psicologica determinata dalle circostanze, come queste sono presentate dallo storico; Luca infatti, facendo giungere al tetrarca i vari apprezzamenti che circolavano sul conto di Gesù, doveva anche segnalare la reazione psicologica che essi suscitavano nella mente di Erode. L’imperfetto διηπόρει (δι-α-πορέω, verbo composto da διά: da ogni parte; ἀ-πορος: senza via) sintetizza tutto un atteggiamento psicologico; infatti il verbo διαπορέω (sono incerto da ogni parte mi volgo) significa perplessità nel giudizio, ansietà interiore, irrisolutezza nell’agire. Giovanni è risorto da morte; probabilmente questa voce circolava tra i discepoli di Giovanni Battista ai quali l’opera del loro maestro sembrava incompiuta.

Giovanni è risorto dai morti - Bibbia di Navarra (I Quattro vangeli): Tutti i Giudei, ad eccezione dei sadducei, credevano nella risurrezione dei morti, insegnata da Dio nelle Sacre Scritture (cfr Ez 37,10; Dn 12,2 e 2 Mac 7,9). D’altro canto, era opinione comune presso i Giudei contemporanei di Cristo che Elia. o qualche altro profeta, dovesse nuovamente venire in terra (cfr Dt 19,5). Potrebbe essere questa la ragione per cui Erode arrivò a pensare che Giovanni fosse risuscitato (cfr Mt 14,1-2 e Mc 6,14-16): era indotto a tale opinione avendo udito che Gesù operava miracoli, poiché s’immaginava che solo coloro che fossero tornati in vita avessero i poteri per farli. Ma, nel contempo, era a conoscenza che Cristo aveva compiuto miracoli ben prima che il Battista morisse (cfr Gv 2,23) e. pertanto, non sapeva a quale soluzione attenersi. In seguito, man mano che la fama dei miracoli di Gesù cresceva, e per trovare una qualche spiegazione atta a persuaderlo, il tetrarca si risolse a ritenere che Giovanni fosse risuscitato, come per l’appunto raccontano gli altri Vangeli.

E cercava di vederlo: CCC 312: Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua Provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: “Non siete stati voi”, dice Giuseppe ai suoi fratelli, “a mandarmi qui, ma Dio; ... se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene… per far vivere un popolo numeroso” (Gen 45,8; 50,20). Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l’uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra Redenzione. Con ciò, però, il male non diventa un bene.

Erode cerca di vedere Gesù - Hugues Cousin (Vangelo di Luca): All’udire tutto quello che avviene nella provincia da lui governata, il primo personaggio di Galilea viene a porsi la domanda cruciale sull’identità di Gesù. D’altra parte, non è solo il popolo ad essere colpito ma anche la corte del tetrarca (cfr. 8,3). Le tre opinioni che circolano lo lasciano perplesso. Esse sono d’accordo nel riconoscere il ruolo profetico di Gesù, ma non sono vere che in parte. Vedere in Gesù il Battista risorto lui che era già «più grande di un profeta» (7,26) è un’illusoria lusinga! Che Gesù sia Elia che torna alla fine dei tempi, è in parte vero ... È invece un errore vedere in Gesù un personaggio del passato tornato in vita; la sua morte e la sua risurrezione devono ancora avvenire (9,22). Caratteristica di Erode è un misto di buon senso e di cinismo. Invece di trarre la conclusione più errata (cfr. Mc 6,16), egli arriva alla domanda chiave. Per rispondervi, non trova che un solo mezzo: vedere Gesù, come voleva fare la famiglia in 8,20. La sorte che ha riservato al Battista dimostra tuttavia che non è la fede a guidarlo. In 23,8 egli potrà appagare il suo desiderio; è qualche miracolo compiuto da Gesù e non la sua persona che davvero lo interessa.

Il primogenito avanti ogni creatura. - Xavier Leon Dufour:  Risalire ancora più indietro significa scoprire la preesistenza di Gesù, secondo un procedimento che dovette ispirarsi non già al mito gnostico del Dio-salvatore, ma alle tradizioni apocalittiche giudaiche, preoccupate di mettere in evidenza l’unità della creazione e della fine dei tempi. Perciò, nel libro di Enoch si afferma la preesistenza del figlio dell’uomo (Enoch 39,6s; 40,5; 48,2s; 49,2; 62,6s); altrove, certi ambienti giudaici vedevano all’origine della creazione la sapienza (Giob 28,20-28; Bar 3,32-38; Prov 8,22-31; Eccli 24,3-22; Sap 7,25s).
Con l’antichissimo inno soggiacente a Fil 2,6-11, vengono descritti i tre stati successivi di Gesù, che era a «forma di Dio», prima di annientarsi nella vita terrena ed essere quindi esaltato in cielo. Questo testo non afferma che una certa natura umana viene «assunta» da una persona divina; si sforza di dimostrare che la presenza di Gesù si estende a tutta la durata del tempo. Gesù è «colui per mezzo del quale tutto esiste e grazie al quale noi (andiamo a Dio)» (1 Cor 8,6), è la roccia che accompagnava il popolo nel deserto (10,4). Infine, forse prima che si elaborasse la teologia di Paolo, Gesù è definito «immagine del Dio invisibile, primogenito avanti ogni creatura» (Col l,15), colui «in cui abita la pienezza della divinità» (2,9).
Dopo aver affermato la perfetta giustizia e santità di Gesù (Atti 3,14). il Nuovo Testamento si avvia verso la proclamazione della sua divinità. Egli è il «Figlio di Dio», in un senso che rende esplicite le allusioni fatte da Gesù di Nazaret e che oltrepassa il significate messianico, perché si basa sulla preesistenza del Figlio che Dio ha rivelato a Paolo (Gal 1,12) e di cui questi proclama il vangelo (Rom 1,9). Gesù è «Il Figlio di Dio»: questa è la fede del cristiano (1Gv 4,15; 5,5), proclamata incessantemente nei vangeli (Mc 1,11; 9,7; 14,61; Lc 1,35; 22,70; Mt 2,15; 14,33; 16,16; 27,40.43), come eco della parola di Gesù sul «Figlio» (Mt 11,27 par.; 21,37ss par.; 24,36 par.). Il movimento della rivelazione porta a proclamare (forse già in Rom 9,5, secondo ogni probabilità in Ebr 1,8; Tito 2,13 e certamente in Gv 1,1.18; 20,28) che Gesù è Dio con Dio.
Come corollario della preesistenza, si svela a sua volta la dimensione ecclesiale e cosmica di Gesù. Egli è il capo (testa) della Chiesa che è il suo corpo (Col l,18); la sua signoria si estende sul mondo intero, del quale ha percorso i tre spazi: terra, inferi, cieli (Fil 2,10). Non è forse il «Signore della gloria» (1Cor 2,8), perché «pri­mogenito di tra i morti» (Col l,18)?
A questa prospettiva si ricollegano vari titoli. Gesù è il nuovo Adamo (1Cor 15,15.45; Rom 5,12-21) colui in cui Dio riunisce (anakephalaiòo) ogni cosa (Ef 1,10), colui che ha fondato la pace facendo un solo uomo (2,13-16); è il mediatore della nuova alleanza (1 Tim 2,5; Ebr 9,15; 12,24),

Sacerdote Dolindo Ruotolo (Nuovo Testamento - I Quattro vangeli): Siccome gli apostoli in questa loro prima missione fecero molte guarigioni, si determinò certamente un movimento popolare in tutti i luoghi dove andarono, e questo giunse agli orecchi di Erode. Il tetrarca però non si preoccupò tanto degli apostoli, quanto di Gesù annunziato da essi. Questa circostanza ci fa capire con quanta fedeltà ed entusiasmo gli apostoli dovettero parlare del Maestro divino. I miracoli che essi operavano, li riferivano a Lui, ed i paesi dove si recavano risuonavano del nome di Lui, fra grandi benedizioni.
Erode, che per la stessa sua astuzia e per timore di perdere il regno, vigilava su tutti, come succede nei regimi autoritari e tiranni, s’informò da parecchie persone ed in diversi modi chi fosse Gesù. Le risposte che ebbe erano disparate, e quella che diceva che fosse Giovanni Battista risorto da morte, gli sembrò addirittura assurda, essendo egli certo di averlo fatto decapitare. Per lui, perfido, impuro e materialista, era inconcepibile che un decapitato potesse rivivere. Rimase, perciò, ancora più preoccupato, e cercava di vedere Gesù, ma voleva farlo senza dargli importanza. È questa la ragione per la quale godette molto quando Pilato nei giorni della Passione lo mandò a lui. Egli riuscì a vederlo allora, perché era il momento del potere delle tenebre, ed egli era tutto tenebre di delitti e d’iniquità, ma non poté ascoltare da Lui alcuna parola, perché non ne era capace.
Il Signore non si fa trovare da chi lo cerca per vana curiosità o per male animo, né va alle persone che non accolgono la sua parola; per cercare Gesù e trovarlo bisogna essere pentiti, penitenti e puri, e correre a Lui per averne la vita. Quanti cuori traviati, come Erode, sentono parlare di Gesù in vario modo, e vogliono darsene conto, ma solo come una curiosità storica, ed attingono le loro cognizioni da fonti falsate, restando sempre più confusi!

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Chi è dunque costui? Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica n. 87: Gesù è inscindibilmente vero Dio e vero uomo, nell’unità della sua Persona divina. Egli, il Figlio di Dio, che è «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre», si è fatto vero uomo, nostro fratello, senza con ciò cessare di essere Dio, nostro Signore.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…



26 Settembre 2018

Mercoledì XXV Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice “Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo.” (Mc 1,21 - Acclamazione al Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Luca 9,1-6: Il vento che stava per travolgere la barca dei suoi discepoli con tutto il suo carico umano, nel paese dei Geraseni aveva liberato un uomo posseduto dal demonio, mentre le folle gli si accalcavano attorno una donna, afflitta da una malattia ribelle ad ogni cura medica, gli tocca il lembo del mantello e subito guarisce, la figlia di Giairo, capo della sinagoga, era morta e dalla parola potente di Gesù è riportata in vita. Ora, i Dodici ricevono i poteri che hanno visto esercitare: ... diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. Tale potere è esercitato nel nome di Gesù. I Dodici non dovranno portare nulla, si abbandoneranno fiduciosamente alla Provvidenza (cfr. Lc 12,22-32). Ai Dodici viene chiesta anche la rinuncia a qualsiasi tipo di equipaggiamento, devono rinunciare a tutti i loro averi (cfr. Lc 14,33). Prenderanno con gioia quanto sarà loro offerto, non faranno più distinzione tra cibo puro e impuro: in Gesù è stato abbattuto il muro di separazione che divideva gli uomini (cfr. Ef 2,14). È il tempo della comunione, non vi è più nulla che possa dividere gli uomini. Sarà estromesso da questa comunione il ribelle, il fanatico; saranno tagliati fuori soltanto coloro che amano sbarrare le porte del cuore: Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro. Con questo gesto i Dodici esprimeranno la rottura completa nei confronti di coloro che non credono. Ora, nella pienezza del tempo (Gal 4,4), a tutti gli uomini è annunciato il Vangelo (Lc 4,14ss). Ora il tempo si è fatto breve (1Cor 7,29), non si può più tentennare: gli uomini devono decidere da quale parte stare.

Mons. Vincenzo Paglia: Gesù ha appena guarito una donna adulta ed ha ridato la vita a una ragazza. Gesù è venuto a liberare e a guarire dal male che vuole dominare sul mondo. Anche i discepoli sono chiamati a questa lotta. E Gesù dona loro la sua stessa autorità e il suo stesso potere. Scrive l’evangelista che Gesù, tra coloro che lo seguivano, ne scelse Dodici, diede loro il potere di cacciare i demoni e di curare le malattie e li inviò in sua vece. È la seconda volta che l’evangelista narra la missione dei discepoli, quasi a voler dire che l’annuncio del Vangelo non avviene una volta per tutte, e neppure è una iniziativa autonoma e privata. Ogni discepolo è chiamato a inserirsi nella lunga scia dei seguaci di Gesù per combattere la stessa battaglia e per comunicare lo stesso Vangelo. Tale missione richiede di spogliarsi di se stessi e del proprio protagonismo per essere servi del Vangelo. In questa pagina si respira un’ansia che porta i discepoli a recarsi di casa in casa, di villaggio in villaggio, di città in città: nessuno deve restare privo dell’annuncio evangelico. Persino Erode ne è incuriosito. Verrà anche per lui il momento dell’incontro; purtroppo chiuderà il suo cuore a Gesù. Era sazio di sé e aspettava solo prodigi, non la salvezza, come invece attendevano i poveri e i deboli.

La missione della Chiesa - Ad Gentes n. 5: Il Signore Gesù, fin dall'inizio «chiamò presso di sé quelli che voleva e ne costituì dodici che stessero con lui e li mandò a predicare» (Mc 3,13; cfr. Mt 10,1-42). Gli apostoli furono dunque ad un tempo il seme del nuovo Israele e l'origine della sacra gerarchia. In seguito, una volta completati in se stesso con la sua morte e risurrezione i misteri della nostra salvezza e dell'universale restaurazione, il Signore, a cui competeva ogni potere in cielo ed in terra, prima di salire al cielo, fondò la sua Chiesa come sacramento di salvezza ed inviò i suoi apostoli nel mondo intero, come egli a sua volta era stato inviato dal Padre e comandò loro: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte le cose che io vi ho comandato» (Mt 28,19-20); «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; chi invece non crederà, sarà condannato» (Mc 16,15). Da qui deriva alla Chiesa l'impegno di diffondere la fede e la salvezza del Cristo, sia in forza dell'esplicito mandato che l'ordine episcopale, coadiuvato dai sacerdoti ed unito al successore di Pietro, supremo pastore della Chiesa, ha ereditato dagli apostoli, sia in forza di quell'influsso vitale che Cristo comunica alle sue membra: « Da lui infatti tutto quanto il corpo, connesso e compaginato per ogni congiuntura e legame, secondo l'attività propria di ciascuno dei suoi organi cresce e si autocostruisce nella carità» (Ef 4,16).
Pertanto la missione della Chiesa si esplica attraverso un'azione tale, per cui essa, in adesione all'ordine di Cristo e sotto l'influsso della grazia e della carità dello Spirito Santo, si fa pienamente ed attualmente presente a tutti gli uomini e popoli, per condurli con l'esempio della vita, con la predicazione, con i sacramenti e con i mezzi della grazia, alla fede, alla libertà ed alla pace di Cristo, rendendo loro facile e sicura la possibilità di partecipare pienamente al mistero di Cristo. Questa missione continua, sviluppando nel corso della storia la missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri; per questo è necessario che la Chiesa, sempre sotto l'influsso dello Spirito di Cristo, segua la stessa strada seguita da questi, la strada cioè della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso fino alla morte, da cui poi, risorgendo, egli uscì vincitore. Proprio con questa speranza procedettero tutti gli apostoli, che con le loro molteplici tribolazioni e sofferenze completarono quanto mancava ai patimenti di Cristo a vantaggio del suo corpo, la Chiesa. E spesso anche il sangue dei cristiani fu seme fecondo .

L’elezione dei Dodici - Giovanni Paolo II (Discorso 19 Agosto 1991): Nel descrivere “l’elezione” dei Dodici, i Vangeli affermano che Gesù, volendo inviarli, prima li chiamò a sé (cf. Mt 10,1; Mc 6,7; Lc 6,13, Lc 9,11). La missione di “andare” coincise con una chiamata affinché “venissero” a Lui. Infatti la nostra singolare vocazione comporta che per prima cosa siamo strettamente uniti a Gesù non solo come “servi”, ma, in modo del tutto particolare, come “amici” (cf. Gv 15,15). Queste parole, pronunciate proprio nel Cenacolo, nel contesto immediato dell’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio ministeriale, esprimono l’essenza del ministero a cui aspirate. Voi siete persone scelte in modo particolare per essere amici di Gesù Cristo.
Il divino Maestro ha spiegato che cosa significa essergli amici: il servo non sa quello che fa il suo padrone; gli amici invece si conoscono a fondo tra loro, perché nell’amicizia l’uno si svela all’altro (cf. Gv 15,15). Questa rivelazione di sé non produce solamente una notizia fredda, distaccata. L’amico comprende, accoglie, difende il proprio amico; in modo molto vero, egli partecipa alla sua vita. Il Signore ci chiama a tale affettuosa comunione, chiedendoci di avere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5). Egli desidera che abbiamo la “mentalità” (noûs) di Cristo (cf. 1Cor 2,16). In realtà, voi già partecipate ai pensieri di Cristo per il fatto stesso che avete accettato il suo invito, la vocazione. Siete, però, chiamati ad approfondire questa partecipazione, continuando nel cammino dell’amicizia e progredendo nel “vivere intimamente uniti (a Cristo) come amici, in tutta la vita” (Optatam totius, 8).
Quest’intima familiarità con Cristo, il profondo rapporto di figliolanza con Dio Padre, la vissuta esperienza della inabitazione dello Spirito di amore costituiscono la solida base di ogni vita sacerdotale e religiosa. Raccoglimento e preghiera sono i mezzi insostituibili per realizzare una simile unione col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo. Quest’intima familiarità con Cristo, il profondo rapporto di figliolanza con Dio Padre, la vissuta esperienza della inabitazione dello Spirito di amore costituiscono la solida base di ogni vita sacerdotale e religiosa. Raccoglimento e preghiera sono i mezzi insostituibili per realizzare una simile unione col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo. Come Maria, Madre di Gesù, conservava nel suo cuore parole e fatti del Figlio suo (cf. Lc 2,51), così il sacerdote non può svolgere efficacemente il suo lavoro a servizio di Cristo e della Chiesa senza conservarsi costantemente immerso nella contemplazione del mistero dell’amore infinito di Dio. Gli anni di preparazione nel seminario debbono quindi essere una vera scuola di preghiera e di contemplazione, perché tutta l’azione pastorale del futuro sacerdote, tanto diocesano quanto religioso, dovrà trarre alimento da questo intimo rapporto di amicizia con Cristo.

Sarete miei testimoni - Redemptoris Missio 61: Non cè testimonianza senza testimoni, come non cè missione senza missionari. Perché collaborino alla sua missione e continuino la sua opera salvifica, Gesù sceglie e invia delle persone come suoi testimoni e apostoli: «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». (At 1,8) I Dodici sono i primi operatori della missione universale: essi costituiscono un «soggetto collegiale» della missione, essendo stati scelti da Gesù per restare con lui ed essere inviati «alle pecore perdute della casa dIsraele». (Mt 10,6) Questa collegialità non impedisce che nel gruppo si distinguano singole figure, come Giacomo, Giovanni e, più di tutti, Pietro, la cui persona ha tanto rilievo da giustificare l'espressione: «Pietro e gli altri apostoli». (At 2,14) Grazie a lui si aprono gli orizzonti della missione universale, in cui successivamente eccellerà Paolo, che per volontà divina fu chiamato e inviato tra le genti. (Gal 1,15) Nell'espansione missionaria delle origini, accanto agli apostoli troviamo altri umili operatori che non si debbono dimenticare: sono persone, gruppi, comunità. Un tipico esempio di chiesa locale è la comunità di Antiochia, che da evangelizzata si fa evangelizzatrice e invia i suoi missionari alle genti. (At 13,2) La chiesa primitiva vive la missione come compito comunitario, pur riconoscendo nel suo seno degli «inviati speciali», o «missionari consacrati alle genti», come Paolo e Barnaba.

Eucaristia e Unzione degli infermi- Sacramentum caritatis n. 22: Gesù non ha soltanto inviato i suoi discepoli a curare gli infermi (cfr Mt 10,8; Lc 9,2; 10,9), ma ha anche istituito per loro uno specifico sacramento: lUnzione degli infermi. La Lettera di Giacomo ci attesta la presenza di questo gesto sacramentale già nella prima comunità cristiana (cfr 5,14-16). Se lEucaristia mostra come le sofferenze e la morte di Cristo siano state trasformate in amore, lUnzione degli infermi, da parte sua, associa il sofferente allofferta che Cristo ha fatto di sé per la salvezza di tutti, così che anc'egli possa, nel mistero della comunione dei santi, partecipare alla redenzione del mondo. La relazione tra questi Sacramenti si manifesta, inoltre, di fronte all'aggravarsi della malattia: «A coloro che stanno per lasciare questa vita, la Chiesa offre, oltre allUnzione degli infermi, lEucaristia come viatico». Nel passaggio al Padre, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo si manifesta come seme di vita eterna e potenza di risurrezione: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,54). Poiché il Santo Viatico schiude allinfermo la pienezza del mistero pasquale, è necessario assicurarne la pratica. Lattenzione e la cura pastorale verso coloro che si trovano nella malattia ridonda sicuramente a vantaggio spirituale di tutta la comunità, sapendo che quanto avremo fatto al più piccolo lo avremo fatto a Gesù stesso (cfr Mt 25,40).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Ora il tempo si è fatto breve (1Cor 7,29), non si può più tentennare: gli uomini devono decidere da quale parte stare.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…



25 Settembre 2018

Martedì XXV Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano.” (Lc 8,21 - Acclamazione al Vangelo). 


Dal Vangelo secondo Luca 8,19-21: L’episodio della madre e dei fratelli che cercano Gesù, diventa in Luca l’occasione per l’ultima sentenza, che conclude e completa l’istruzione sull’ascolto della parola. Nelle parole di Gesù non possiamo cogliere disprezzo nei confronti dei suoi familiari, ma un insegnamento: Gesù si sente vicino e familiare con tutti quelli che si lasciano coinvolgere nel suo stesso progetto, e soltanto chi si pone in ascolto della Parola può mettersi dietro al Maestro (Mt 16,23).

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): La sua madre ed i suoi fratelli vennero allora a (trovar)lo; l’evangelista colloca l’episodio che interessa la madre ed i fratelli di Gesù nel presente contesto perché egli vuole rilevare un nesso concettuale tra la spiegazione della parabola del seminatore (cf. Lc., 8,15) e la dichiarazione conclusiva del fatto che si accinge a narrare (cf. vers. 21: «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»). Infatti il presente episodio può essere considerato come un’illustrazione di ciò che Gesù aveva detto riguardo a coloro che ascoltano la parola di Dio con cuore buono e generoso. «I suoi fratelli» sono i prossimi parenti del Maestro [...].
Desiderano vederti; per Luca la presenza dei congiunti di Gesù (la sua madre ed i suoi parenti) è unicamente ricordata per offrire una circostanza storica al detto conclusivo dell’episodio che lo interessa maggiormente. Infatti l’espressione «desiderano vederti» è molto generica e non palesa nulla sul vero scopo di quella venuta (Matteo dice: «ti cercano per parlarti»: Marco ha: «ti cercano»; espressioni assai concrete). Il vero motivo è indicato dal testo del secondo evangelista (cf. Mc., 3,20-21) che Luca ha intenzionalmente omesso, perché poco rispettoso per la dignità del Maestro.
Ma egli rispose loro; il racconto è abbreviato dall’evangelista, il quale non ha interesse a dar rilievo alla parentela umana di Gesù, ma vuole principalmente insistere su quella spirituale; perciò egli omette alcuni particolari ricordati da Marco (cf. Mc., 3,33-34), i quali danno vivezza e movimento alla narrazione. La risposta di Gesù ha così un senso più distaccato dalle circostanze e, conseguentemente, assume un valore più universale. Sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica; gli altri due Sinottici hanno: «chi fa la volontà del Padre (opp. di Dio)»; l’espressione del vers. lucano «ascoltare e fare la parola di Dio» richiama direttamente quella ricordata al vers. 15, stabilendo così un nesso ideale tra l’insegnamento racchiuso nella spiegazione della parabola del seminatore e quello concernente i veri parenti di Cristo. «La parola di Dio» è un’espressione cara all’evangelista (cf. Lc., 5,1; 8,11; 11,28; Atti, passim) con la quale egli caratterizza la predicazione del Maestro, concepita come una manifestazione della volontà di Dio agli uomini.

Ascolto della Parola di Gesù - Giuseppe Barbaglio (Ascolto, Schede Bibliche Pastorali - Vol I): Nei sinottici di rilievo abbiamo anzi tutto la parabola conclusiva del discorso della montagna (leggere Mt 7,24-27 e Lc 6,47-49). Vi si contrappongono due tipi di ascoltatori delle parole di Gesù: quelli che le ascoltano e le mettono in pratica e quelli che all’ascolto non fanno seguire la traduzione in atto. Somigliano a due tipi contrapposti di costruttori: coloro che edificano la casa sulla roccia (Mt) o gettando solidi fondamenta (Lc) e chi invece costruisce sulla sabbia (Mt) o senza fondamenta (Lc) La conseguenza: nel primo caso la costruzione sarà solida e resisterà alle intemperie, mentre nel secondo non potrà reggere all’urto. Fuori metafora, solo con una prassi coerente all’ascolto dell’insegnamento di Gesù il credente potrà costruire un’esistenza cristiana solida e ferma.
Matteo presenta un’originale annotazione: qualifica i due costruttori tipici con gli aggettivi «saggio e «stolto» (Mt 7,24 e 26). La sapienza cristiana dunque, ai suoi occhi, consiste nel fair (poiein) in conformità alla parola autorevole di Cristo. Interprete messianico della legge di Dio, cioè delle esigenze etiche del regno.
Il tema ritorna in un’altra parabola, o meglio nella sua spiegazione ecclesiastica: ci riferiamo al racconto parabolico del seminatore (leggere Mc 4,13-20; Mt 13,18-23; Lc 8,11-15). Di nuovo vi si sottolinea l’insufficienza di un puro ascolto, disimpegnato e superficiale. Perché il seme della parola di Dio, rivelata da Gesù, possa portare frutti nel resistenza del credente è necessario che questi resista alla tentazione, sia costante nelle prove, respinga le seduzioni del denaro e gli assalti della cupidigia. In particolare Luca sottolinea l’esistenza della costanza (cf. 8,15) e Matteo contrappone un ascolto senza «comprensione» a un ascolto abbinato alla «comprensione» (cf. 13,19 e 15).
Si noti bene però che per il primo «evangelista il verbo «comprendere» (syniènai) non ha alcun significato intellettualistico; al contrario, indica una profonda appropriazione della parola qualificante il vero discepolo di Cristo (cf. Mt 13,51; 15,10; 16,12; 17,13).

Accoglienza della Parola -  Antonio Bonora (Parola, Schede Bibiche Pastorali - Vol.VI): Grande rilievo ha nell’AT il tema dell’ascolto, cioè dell’accoglienza sincera e docile della parola di Dio. Ricordiamo Dt 6,4 («Ascolta, Israele»), l’inizio della preghiera dello Shemà («Ascolta»), tanto cara alla pietà giudaica. I profeti invitavano con la formula «Ascoltate» (cf. Am 3,1; Ger 7,2) e anche i sapienti ripetevano spesso l’esortazione ad ascoltare (cf. Pro 1,8). «Ascoltare» non significa soltanto un’attenzione superficiale, ma un «avere nel proprio cuore» la parola di Dio (cf. Dt 6,3; Is 1,10; Ger 11,3.6), metterla in pratica (cf. Sal 119,9.17.101), mettere in essa la propria speranza e fiducia (cf. Sai 119, 42.74.81; 30,5). Ma l’uomo è sordo. Allora Dio interviene e apre l’orecchio del suo discepolo (cf. Is 50,5; Sal 40,7), «circoncide il cuore» (Dt 30,6-7) perché l’uomo sappia obbedire alla voce del Signore. L’ascolto, dunque, implica fede e obbedienza, amore e fiducia, pratica effettiva della parola: tutto ciò non è possibile senza la grazia di Dio. Tale tema ricorre anche nel NT, secondo il quale Dio apre il cuore per accogliere la parola di Dio (cf. At 16,14). Giovanni denuncia così il peccato dei giudei e di tutti i non credenti: «Non potete dare ascolto alle mie parole voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro...Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio» (Gv 8,43.47), La voce celeste del Padre presenta il Figlio così: «Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17,5). La parola di Dio è Gesù stesso! Ascoltare lui, ossia credergli e seguirlo, è accogliere la parola di Dio. E Gesù dice: «Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e l’osservano» (Lc 11,28). Ascoltare equivale a mettere in pratica; la conseguenza è la beatitudine, la felicità. Se vuoi essere felice, ascolta la parola di Dio che ultimamente è Gesù stesso.

Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti - Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 12 marzo 1997): Stando ai Vangeli, Maria ha avuto modo di ascoltare suo Figlio anche in altre circostanze. Anzitutto a Cafarnao, dove Gesù si reca, dopo le nozze di Cana, “insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli” (Gv 2,12). Inoltre, è probabile che lo abbia potuto seguire anche a Gerusalemme, in occasione della Pasqua, nel Tempio, che Gesù qualifica come casa del Padre suo, per la quale Egli arde di zelo (cfr. Gv 2,16-17). Ella, poi, si trova tra la folla, allorché non riuscendo ad avvicinarsi a Gesù, lo sente rispondere a chi gli annunzia la presenza sua e dei parenti: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Con tale espressione il Cristo, pur relativizzando i legami familiari, rivolge un grande elogio alla Madre, affermando un vincolo ben più alto con Lei. Maria, infatti, ponendosi in ascolto del Figlio, accoglie tutte le sue parole e le mette fedelmente in pratica. Si può pensare che Maria, pur non seguendo Gesù nel suo cammino missionario, si sia informata sullo svolgimento dell’attività apostolica del Figlio, raccogliendo con amore e trepidazione le notizie sulla sua predicazione dalla bocca di coloro che lo avevano incontrato. La separazione non significava lontananza del cuore, come pure non impediva alla madre di seguire spiritualmente il Figlio, conservando e meditando il suo insegnamento, come già aveva fatto nella vita nascosta di Nazaret. La sua fede, infatti, le permetteva di cogliere il significato delle parole di Gesù prima e meglio dei suoi discepoli, che spesso non comprendevano i suoi insegnamenti e specialmente i riferimenti alla futura Passione (cfr. Mt 16,21-23; Mc 9,32; Lc 9,45).

Vivere di fede - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Di coloro che con viva fede «ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» Gesù dice qualche cosa di inaudito, di ardito e di straordinario: «Essi sono per me madre e fratelli». Essi quindi appartengono a Gesù e fanno con Lui una sola famiglia. Egli li ama come ama sua madre, li tratta come si trattano i fratelli e le sorelle. Essi gli sono vicini, abitano nella sua dimora spirituale, mangiano alla sua tavola, hanno con Lui un’intimità familiare. Vivere di fede significa vivere con Dio e quindi in continua unione con Lui. La fede non è l’obbedienza strappata a stento per una quasi forzata sottomissione della volontà alla parola di Dio. Credere non significa neppure andare a tastoni nelle tenebre di una notte cupa e dolorosa che incute spavento. Né indica la reazione di una flebile, impercettibile voce, che chiama da lontano. Credere significa vivere accanto a Dio, significa fidarsi del suo amore, camminare nella sua luce, stare ogni giorno insieme con Lui.
I dommi di fede e l’insegnamento di Gesù non si esauriscono in discussioni teoriche e in trattati di teologia, ma si concretizzano in paragoni di efficacia rappresentativa e conducono ad una realtà piena di calore, di bontà e di affascinante bellezza.

Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): È evidente l’amore di Gesù per sua Madre, Maria santissima, e per san Giuseppe. II nostro Salvatore approfitta di questo episodio per insegnarci che nel suo Regno i diritti del sangue non possono vantare alcuna priorità. In Lc 8,19 troviamo esposta la medesima dottrina. Solo chi fa la volontà del Padre suo celeste è considerato da Gesù come appartenente alla sua stessa famiglia.
Perciò, anche a costo di sacrificare i sentimenti naturali della famiglia, Gesù dovrà abbandonarla quando l’adempimento della missione che il Padre gli ha affidato lo esigerà (cfr Lc 2,49).
Possiamo affermare che Maria sia amata da Gesù più a motivo dei legami istituiti dalla grazia, che a cagione della generazione naturale, la quale ha fatto di lei la Madre del Salvatore secondo la carne: la maternità divina è la fonte di tutte le altre prerogative della Vergine santissima; tuttavia proprio questa maternità è, a sua volta, la prima e la maggiore delle grazie elargite a Maria.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Vangelo).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…



24 Settembre 2018

Lunedì XXV Settimana T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro” (Mt 5,16 - Acclamazione al Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Luca 8,16-18: Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso...: il mistero del regno di Dio, comunicato da Gesù ai discepoli, non deve restare nascosto, ma, dalla comunità cristiana, deve essere posto sul lampadario perché risplenda per tutti gli uomini. Tutto deve essere posto sul lampadario perché tutto quanto Gesù ha detto, ha insegnato e ha rivelato è luce, e la luce deve illuminare cuori, menti e coscienze. L’immagine della misura, a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere, pone l’accento sull’importanza delle disposizioni degli ascoltatori. Proporzionalmente all’attenzione e allo zelo con cui si ascolta la parola, Dio ricambierà con nuove rivelazioni e grazie. Bisogna accogliere con docilità la Parola che è stata piantata in noi, occorre essere di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo noi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla (Gc 1,20-25). Il cristiano è chiamato anzitutto ad ascoltare la Parola di Dio; solo dopo averla accolta con gioia nel cuore può donarla agli altri. È tutta qui la vita e la missione di ogni discepolo, di ogni comunità cristiana.

Essere luce - Il tema della luce è molto caro alla sacra Scrittura. L’essere di Dio è luce, in contrasto con l’essere umano che è tenebra. La Parola, l’insegnamento sono luce (Cf. Sal 119,5; Pr 6,23). Possiamo ricordare ancora l’invito rivolto a Israele: «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,5). In Is 42,6 e 49,6 Israele è chiamato «luce delle nazioni». Nel giudaismo l’immagine della luce «veniva riferita volentieri alla Legge o al Tempio, come anche ad eminenti personalità religiose. Qui si vuole insinuare che questa prerogativa passa al nuovo popolo di Dio» (Angelo Lancillotti).
Per i cristiani convertirsi dalle tenebre alla luce (Atti 26,18) per credere alla luce (Gv 12,36) è un imperativo improrogabile, così è un impegno fruttuoso quello di far risplendere la propria luce davanti agli uomini, perché vedano le loro opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli.
Essere luce della terra, ovvero camminare come figli della luce (Ef 5,9), è un servizio di alto valore costruttivo, rivolto a tutto il consorzio umano unicamente per la gloria Dio e non per amore di trionfalismo o per accaparrarsi i primi posti nella Chiesa e in mezzo agli uomini.

Luce naturale, creatura di Dio - Emanuela Ghini - Giuseppe Barbaglio (Luce in Schede Bibliche Pastorali - Vol. V): Nel racconto del Genesi, la luce è posta all’inizio della creazione come l’opera del primo giorno (Gn 1,3-5). Posta prima del sole e degli astri, che pure illuminano la terra giorno e notte (Gn 1,14-19), la luce sembra essere considerata un elemento a sé, indipendente anche dal sole (il nesso causale col sole sarà espresso più tardi: Is 60,19), in conformità anche a certe concezioni popolari.
Anche le tenebre sembrano essere considerate una «realtà», non semplice assenza di luce; esse erano la condizione originaria del creato, facenti parte della massa caotica iniziale (Gn 1,2). La luce è detta buona (Gn 1,4), ma non è detto che le tenebre siano cattive. Con la creazione della luce e la successione del giorno e della notte, esse diventano parte integrante dell’universo.
L’una e le altre sono creature di Dio, come appare per es. in Is 45,7: «Io formo la luce e creo le tenebre». Dio manda le tenebre (Sal 105,28), le svela, e nessuna tenebra può nascondere da lui (Is 29,15). Dio chiama la luce e l’invia, ed essa obbedisce tremando (Bar 3,33); essa è «la luce di Dio» (Tb 3,17). «Tuo è il giorno e tua è anche la notte» si canterà (Sal 74,16); la luce stessa e le tenebre, come gli astri (Gb 38,7), è invitata a lodare Dio (Sal 148,3; Dn 3,72). Molti corpi danno luce (sole, luna, stelle: Gn 1,14-18; Is 13,10; ecc.; il fuoco: Sap 17,5; 2Mac 1,32); ma Dio ha riservato a sé il segreto della produzione e della distribuzione della luce (Gb 38,19.24); ed egli la fa spuntare su tutti (Gb 25,3; Mt 5,45). Egli fa essere la luce e la tenebra; egli può oscurare gli occhi e rendere chiaro il buio dinanzi agli occhi dei ciechi (Is 42,16ss). Dio manda la luce, e le tenebre per lui non sono tenebre (Sal 139,11-12).
Nella Bibbia manca ogni divinizzazione della luce e le speculazioni cosmologiche su di essa. Però la posizione eminente che l’elemento naturale della luce ha nel pensiero, anche popolare, in oriente, e nell’esperienza di ognuno, appare spesso nella Bibbia. Si veda Eccle 11,7: «Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole». Quando la luce appare, la terra, cioè tutti gli oggetti prima nell’ombra, acquistano il loro rilievo naturale, come l’argilla che riceve l’impronta (Gb 38,13 ebraico). Alla luce è strettamente associata la vita; «vedere la luce» è sinonimo di «essere vivo» (Gb 3,20; Sail 49,19-20); nascere è «vedere la luce» (Gb 3,16; Sal 56,14); la luce è sorgente di vita (Eccle 11,7). La vita non è vera vita se non può essere goduta e la luce designa spesso il piacere di vivere (Gb 10,22; 30,26; Sal 97,11-12; Is 45,7; 60,19-20; Am 5,18). Non vedere più la «luce di Dio» come il cieco, è pregustare la morte (Tb 5,10); il malato, che Dio ha strappato alla morte, si rallegra di vedere brillare «la luce dei viventi» (Gb 33,30; Sai 56,14).
Le tenebre invece, collegate al caos originario, indicano sventura e afflizione (Gb 17,12; 21,17; 29,3; Sal 18,28; 23,4; Is 5,30; 8,22-9,1; Sof 1,15); esse, che sono un pericolo per le creature (Gb 12,24-25; Is 59,10; Ger 13,16; 23,12; cf. Lc 22,53), sono associate alla morte: lo sheòl è triste, in esso dominano le tenebre (Gb 10,21-22), è il «paese dell’ombra» (Gb 38,17; cf. Sal 88,13; Eccle 6,4; 45,19).

La luce sul lampadario - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Oggi leggiamo la parabola-proverbio della lampada nella redazione di Luca (che è un duplicato di Mc 4,21ss).
Gesù dice alla folla: «Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce ». Cristo è la luce destinata a illuminare ogni uomo. Anche se al momento il suo messaggio attraversa una tappa in penombra, propria della notte umana dell’incredulità, un giorno si manifesterà completamente. Perché «non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce... A chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche ciò che crede di avere».
La piena rivelazione della luce causerà gioia e la conoscenza esauriente dei segreti del regno per quelli che si sono aperti a Dio e alla sua parola, possedendo già ora il regno. Sono quelli che, come abbiamo visto ieri nella parabola del seminatore, producono frutto in abbondanza. Invece chi rifiuta di credere si chiude da solo l’accesso ai segreti di Dio e perderà non soltanto la gioia della luce e il frutto del raccolto, ma anche lo stesso seme del regno, come i terreni inospitali e sterili della parabola.

Confessione della fede - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Non basta aver la fede solo nell’intimo del cuore. Bisogna professarla anche apertamente. Non si accende una luce per metterla sotto il moggio o sotto il letto, ma sullo stipite, perché possa risplendere. La fede non deve tenersi nascosta e segreta. La si deve praticare alla luce del giorno. Chi nasconde la sua fede corre il rischio di perderla. Chi invece la professa crescerà in essa. La fede non è qualche cosa che si esaurisce, come l’acqua di un recipiente, ma è una fonte che zampilla sempre fresca. Essa non dice timidezza e cauto riserbo, ma esuberanza, ricchezza e quindi impegno e lavoro. La fede non appartiene solo al tempio inaccessibile del cuore, ma anche alle strade e alle piazze della vita. Essa non è solo un gioiello chiuso nello scrigno, un brillante nella sua custodia, ma è pure un ornamento che l’uomo porta visibilmente a gloria di Dio, una bandiera che sventola in vetta, qualche cosa che si pone in piena evidenza e di cui si parla senza impaccio, con naturalezza.

Luce - Wolfgang Klein: Nell’Antico Testamento è designazione dell’opera della creazione e simbolo di felicità e di salvezza. Dio dona entrambe. Luce significa anche la sua gloria e quella del mondo celeste. Il mondo dei morti è il paese delle tenebre.
L’“uomo tra due mondi” viene poi caratterizzato a Qumran mediante l’antitesi etico-cosmologica luce-tenebre (1Q 111,13). I membri della setta, in quanto “figli della luce”, nel combattimento escatologico lottano contro gli altri esseri umani, i “figli delle tenebre”. Il dualismo poggia sulla predestinazione di ogni essere umano agli ambiti luce o tenebre già prevista nel progetto creazionale di Dio; è dunque legato al concetto veterotestamentario di Dio: “Dio ha creato i due spiriti della luce e delle tenebre”, il cui campo di battaglia sono il mondo e l’uomo.
Per la comprensione del simbolismo neotestamentario della luce questi antecedenti giudaici sono importanti; Paolo estende la loro applicazione in senso etico-escatologico all’evento Cristo nella parenesi battesimale, Rm 13,11-14: luce e tenebre sono come a Qumran i due ambiti di potere nei quali si compie il cammino dell’uomo, la sua condotta di vita non per predestinazione, ma attraverso la decisione per la fede o per l’incredulità.
L’immagine della vicinanza del “giorno” è usata come motivazione per deporre le “opere delle tenebre” e rivestire le “armi della luce”. La vicinanza del ritorno significa dunque combattimento: “Questo combattimento è identico a quello tra fede e incredulità”.
In Giovanni, Cristo, la “luce del mondo” (Gv 8,12), entra nel cosmo tenebroso. Con la venuta della “vera luce”, il tempo escatologico della salvezza è diventato presente: la luce come salvezza non è più soltanto immagine, ma designa l’essenza storica del rivelatore. I concetti luce e tenebre servono a designare la discriminazione degli uomini provocata da Cristo (Gv 1,11s). Il giudizio s’identifica con la decisione per l’incredulità, la salvezza con la decisione per la fede. A partire da questo dualismo decisionale, luce e tenebre designano due modi d’esistere: “La doppia possibilità dell’esistere umano, quella a partire da Dio, o quella a partire dall’uomo”.
Il significato del “cammino” come compimento di vita è limitato, nel Nuovo Testamento, quasi esclusivamente a Paolo e Giovanni.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro” (Mt 5,16).
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la ChiesaO Dio, che nell’amore verso di te e verso il prossimo hai posto il fondamento di tutta la legge, fa’ che osservando i tuoi comandamenti meritiamo di entrare nella vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…


23 Settembre 2018

 XXV Domenica T. O.


Oggi Gesù ci dice: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me.” (Gv 10,14 - Antifona alla comunione). 

Dal Vangelo secondo Marco 9,30-37: Durante il viaggio in Galilea, Gesù istruisce i discepoli sulla sua missione salvifica che si sarebbe conclusa a Gerusalemme, su una croce. In verità, a ben guardare la geografia, il viaggio di Gesù verso Gerusalemme sembra piuttosto confuso: abbandonata la regione di Cesarea di Filippo e attraversata la Galilea, situata più a nord, raggiunge la città di Gerusalemme che è a sud. Forse più che un viaggio fisico sembra che Marco voglia dare al viaggio di Gesù un valore teologico. Gesù non vuole che alcuno lo sapesse: questo ordine, anche se è da collocare nel contesto del cosiddetto segreto messianico, deve essere visto come il desiderio, da parte del Maestro, di evitare fraintendimenti sulla sua Persona e sulla sua missione. Oramai la sua vita pubblica volge al termine e la sua morte cruenta è a un passo: il diavolo e i nemici del giovane Rabbi di Nazaret stanno affilando le armi per l’ultimo, decisivo assalto. Gesù è consapevole di tutto questo, non è affatto turbato, ma si premura di istruire i suoi discepoli, cioè coloro che avrebbero dovuto continuare la sua opera di salvezza nel mondo (cfr. 2Ts 2,4). Non vuole che la sua morte orrenda, maledetta dalla Legge (cfr. Gal 3,13; cfr. Dt 21,23), colga gli Apostoli impreparati. Non vuole che la sua morte frantumi la loro debole fede. Non vuole che la sua morte, a motivo della loro estrema debolezza, possa gettarli tra gli artigli di satana (cfr. Lc 22,31). Vuole che la sua morte sia invece un messaggio di speranza, una porta spalancata sulla vita. Ecco perché vuol stare solo con i suoi discepoli: li vuole istruire fin nei più minuti dettagli perché comprendano, perché accettino la volontà del Padre.

Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà - Jacque Hervieux (Vangelo di Marco): È la seconda volta che Gesù fa ai suoi amici questo annuncio, e ciò avviene con parole pressoché identiche alla prima (cfr. 8,31). Il Figlio dell’uomo sta per essere «consegnato» nelle mani degli uomini: l’espressione è forte.
Da chi sarà consegnato? Marco lo preciserà chiaramente più avanti. Sono degli uomini che condanneranno Gesù a morte: Giuda (14,10), i capi dei sacerdoti (15,1) e Pilato (15,15). Ma qui la forma del verbo è al passivo: Gesù «viene consegnato»; i giudei parlano spesso di Dio, evitando di nominarlo in segno di rispetto. Occorre tenerlo ben presente: la morte di Gesù, imputabile ai peccatori, non sarà tuttavia solo un accidente o incidente storico. I cristiani spiegheranno questo «scandalo» dimostrando che esso rientrava in un misterioso disegno di Dio, come intendeva già significare la brusca espressione del primo annuncio: «è necessario» che il Figlio dell’uomo conosca la sofferenza e la morte (8,31). Qui, la promessa, immediatamente associata, della sua risurrezione (v. 31 b) non doveva - più che in precedenza - confortare i discepoli di fronte alla prospettiva dolorosa della morte. I suoi amici restano ostinatamente sordi alle parole del maestro (v. 32): è il tema dell’«incapacità di comprendere» dei discepoli davanti al tentativo di Gesù di introdurli nel mistero del suo destino. Come si è visto, Pietro ha avuto un autentico gesto di ribellione all’annuncio della sua morte (cfr. 8,32); questa volta, la chiusura dei discepoli è rivelata dal timore di «interrogarlo , di proseguire la discussione col maestro riguardo le prove che lo attendono: il lettore può così comprendere che è davvero duro guardare la morte in faccia.

Una sapienza che scende dall’alto ... di una croce - Alessandro Pronzato (Parola di Dio!): «Ma i suoi discepoli non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni». L’incomprensione è continuata nel corso della storia. E ancor oggi non credo possiamo dimostrare di aver capito.
Ha ragione padre Ernesto Balducci: abbiamo piantato la croce sulle cime delle montagne e su tutti i colli, l’abbiamo messa a tutti i crocicchi, l’abbiamo appesa in tutte le camere e le aule (e perfino nelle stanze in cui si tortura). Ma non possiamo dire di aver imparato la logica del Crocifisso.
Chi di noi può escludere di aver continuato fervorosamente la discussione accesasi tra gli apostoli su chi di loro fosse il più grande, mentre Gesù aveva appena precisato ancora una volta il suo itinerario verso il Calvario? Posso dire di aver assunto come modello dei miei comportamenti il servo, il bambino (debolezza disarmata, impotenza, irrilevanza)?
Chi ha avuto più seguaci: il Cristo «consegnato», oppure Pietro che sfodera uno spadone per difendere il Maestro? Non abbiamo ancora compreso quelle parole, anche se oggi, per fortuna, le spade sono di carta (i fendenti, tuttavia, vengono menati con uguale, antica violenza ...).
E abbiamo timore di chiedergli spiegazioni. Perché siamo paralizzati soprattutto dalla paura di capire ... No. Dobbiamo riconoscerlo battendoci il petto. La «sapienza dall’alto» non è molto gradita.
Per il semplice motivo che ha il difetto di «scendere» dall’alto ... di una croce.

Di che cosa stavate discutendo per la strada? - I Giorni del Signore ( Commento delle Letture Domenicali): Gesù si rende conto che i discepoli non capiscono le sue parole, ma non insiste. Aspetta di arrivare a Cafarnao, a «casa», per chiedere loro: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via?». Essi tacciono confusi, accorgendosi che Gesù ha sentito quando discutevano tra loro «chi fosse il più grande». Una precisazione a questo punto è indispensabile. Gesù si siede, nell’atteggiamento del maestro che insegna, e chiama i Dodici per dare loro la sua risposta al problema che avevano discusso: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultmo di tutti e il servo di tutti». Questo insegnamento, oltre ai Dodici, riguarda la Chiesa intera: nella comunità non c’è e non ci dev’essere altra distinzione se non quella dei «ministeri», parola che significa «servizi» (1Cor 12,1-30). Coloro che sono investiti di una carica devono considerarsi ed essere considerati come «ministri di Cristo», «amministratori dei misteri di Dio», ai quali è chiesto di «risultare fedeli», di «meritare fiducia» (1Cor 4,1-2). Questa responsabilità - ed è lodevole aspirarvi (1Tm 3,1) - comporta doveri e non dà il diritto a vantaggi materiali e a onori.

Forse per scacciare lo spettro della morte preannunciata da Gesù, gli Apostoli, dribblando le argomentazioni del Maestro, per via si infervorano a discutere «tra loro chi fosse il più grande». Forse pensavano ai seggi da occupare nel regno di Gesù, ma la loro non è rozzezza perché questi discorsi nei loro paesi da sempre animavano riunioni o convivi.
Colti in fallo, arrivati a Cafarnao, forse in casa di Pietro, Gesù approfitta del fatto per dare loro una lezione di vita cristiana. Sedutosi, è la postura del maestro nell’atto di insegnare (cf. Mt 5,1), chiama i Dodici: Gesù restringe il cerchio ai soli Dodici perché sono loro che devono assimilare fin in fondo il suo insegnamento e viverlo integralmente poi nel loro ruolo di «colonne della Chiesa» (Gal 2,9).
Gesù ancora una volta rovescia i modelli sui quali tanti maestri avevano costruito l’identikit del vero figlio della Legge (cf. Lc 15,25-32).
Nella casa di Pietro la persona che veramente conta non è il mercenario o chi abusa del potere: «Esorto gli anziani... pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,1-3). Nella casa di Pietro il primo è colui che si fa servo, non chi dà ordini a destra e a manca; chi sa piegare le ginocchia e, come l’ultimo sguattero della terra, mettersi a lavare i piedi dei suoi amici e dei suoi nemici: «Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,13-15).
Poi, la seconda manovra, il porre un bambino in mezzo a loro, spiazza del tutto gli Apostoli. I bambini sono i membri più deboli della comunità cristiana, i più bisognosi e i più dimenticati. Di essi deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile gemente sotto il dominio del peccato.

E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): E, preso un piccolo fanciullo, lo pose in mezzo a loro; la discrezione degli evangelisti non ci ha trasmesso il nome del fanciullo; alcuni scrittori antichi hanno pensato che fosse il figlio di Pietro. Un fanciullo, con la disinvoltura propria alla sua età, si era introdotto nella casa (cf. vers. 35) dove si trovavano raccolti gli apostoli insieme con il Maestro. Gesù lo prende per mano, lo pone in mezzo al gruppo, lo abbraccia (soltanto Marco nota quest’ultimo particolare) e se ne serve per insegnare ai discepoli una generosa prestazione di lavoro a servizio dei piccoli e degli umili che appartengono al regno. Per il mio nome (ἐπί τῷ ὀνόματί μου), non già: nel mio nome; l’espressione indica che per amore di Gesù bisogna servire i piccoli. Il Maestro con questo consiglio non esorta ad accogliere i bimbi e ad interessarsi dei loro bisogni materiali (ciò rientra nel precetto della carità verso il prossimo), ma presenta quel fanciullo come tipo di tutti gli umili, i piccoli ed i semplici, i quali per il fatto che appartengono al suo regno, vanno curati spiritualmente dai discepoli per amore suo. Chi accoglie uno di questi umili membri del regno, siano essi fanciulli o adulti, accoglie Cristo stesso ed il Padre che lo ha mandato.

Cristo presente nei fanciulli e in tutti i bisognosi - Vincenzo Raffa (Liturgia Festiva): Gesù dice: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Vangelo). Dunque Gesù ha voluto ritenersi presente nei bambini e in tutti i bisognosi di aiuto e di affetto. Ma vuole che anche le tenerezze verso queste categorie di persone siano dettate dall’amore verso di lui e che le premure siano usate a causa sua. In lui v’è il Padre. La carità verso il prossimo perciò diviene un atto religioso fondamentale, un rito cultuale verso Dio. A proposito di carità la colletta di oggi ci ricorda il pensiero di Cristo, secondo il quale tutta la legge e tutti i precetti divini e quindi anche il culto e la religione si riassumono nell’amore di Dio e del prossimo. La vita eterna è data a chi osserva i precetti divini (Antifona alla Comunione / 2), ma sempre sulla linea di ispirazione genetica della carità. Il giudice eterno infatti, riferendosi alla carità, giustificherà la sua sentenza di ammissione alla gloria o di condanna con il riguardo o l’indifferenza usati alla sua persona, presente nei poveri (Mt 25, 31-46).

 Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Ma i suoi discepoli non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni». L’incomprensione è continuata nel corso della storia. E ancor oggi non credo possiamo dimostrare di aver capito.
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai creato e governi l’universo, fa’ che sperimentiamo la potenza della tua misericordia, per dedicarci con tutte le forze al tuo servizio. Per il nostro Signore Gesù Cristo…