IL PENSIERO DEL GIORNO

28 Dicembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (I Lettura).  


Vangelo secondo Mt 2,13-18: “La fuga in Egitto e la strage degli innocenti manifestano l’opposizione delle tenebre alla luce: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» [Gv 1,11]. L’intera vita di Cristo sarà sotto il segno della persecuzione. I suoi condividono con lui questa sorte. Il suo ritorno dall’Egitto ricorda l’Esodo e presenta Gesù come il liberatore definitivo” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 530).


Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): II grido s’è udito a Rama... Rama, oggi Er-Ram a 8 chilometri circa a Nord di Gerusalemme. Matteo cita Geremia (31,15); il profeta immagina che Rachele, madre di Beniamino e di Giuseppe, compia lamentazioni sulla triste sorte degli appartenenti alla tribù (Beniamino ed Efraim) di cui i suoi figli erano i capostipiti. I discendenti di Beniamino furono in parte massacrati ed in parte deportati in Babilonia dagli Assiri. Gerèmia, con una potente e viva immagine, fa partecipare Rachele allo strazio di questi suoi lontani discendenti. L’applicazione è stata probabilmente suggerita a Matteo da una tradizione (riferita da Genesi 35,19-20 e che forse è un’antica glossa inseritasi nel testo secondo la quale la tomba di Rachel si trovava nelle vicinanze di Bethlem). Secondo un’altra tradizione, attestata da 1Samuele 10,2, la tomba di Rachele va situata nel territorio della tribù di Beniamino.
Matteo nel pianto di Rachele scorge il tipo del dolore delle madri di Bethlem, le quali piangono la tragica morte dei loro teneri bambini.


Giovanni Paolo II (Omelia, 4 Giugno 1997): Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto (Mt 2,13). Giuseppe udì queste parole nel sonno. L’angelo l’aveva avvertito di fuggire con il Bambino, perché era minacciato da un pericolo mortale. Dal Vangelo appena letto veniamo a sapere di coloro che attentavano alla vita del Bambino. In primo luogo Erode, ma poi anche tutti i suoi seguaci. In questo modo la liturgia della parola guida il nostro pensiero verso il problema della vita e della sua difesa. Giuseppe di Nazaret, che salvò Gesù dalla crudeltà di Erode, ci si presenta in questo istante come un grande sostenitore della causa della difesa della vita umana, dal primo istante del concepimento sino alla morte naturale. Vogliamo, dunque, in questo luogo raccomandare alla divina Provvidenza e a san Giuseppe la vita umana, specialmente quella dei bambini non ancora nati, nella nostra Patria e nel mondo intero. La vita ha un valore intoccabile e una dignità irripetibile, specialmente perché - come leggiamo oggi nella liturgia - ogni uomo è chiamato a partecipare alla vita di Dio. San Giovanni scrive: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Con lo sguardo della fede possiamo rilevare con una particolare chiarezza l’infinito valore di ogni essere umano. Il Vangelo, annunziando la buona novella di Gesù, reca anche la buona novella dell’uomo, della sua grande dignità, insegna la sensibilità nei riguardi dell’uomo. Di ogni uomo che, in quanto dotato di un’anima spirituale, è “capace di Dio”. La Chiesa difendendo il diritto alla vita si richiama ad un livello più ampio, ad un livello universale che obbliga tutti gli uomini. Il diritto alla vita non è una questione di ideologia, non è solo un diritto religioso; è un diritto dell’uomo. Il più fondamentale diritto dell’uomo! Dio dice: “Non uccidere”! (Es 20,13). Questo comandamento è al contempo un fondamentale principio e una norma del codice morale, iscritto nella coscienza di ogni uomo.
La misura della civiltà, una misura universale, perenne, comprendente tutte le culture, è il suo rapporto con la vita. Una civiltà che rifiutasse gli indifesi, meriterebbe il nome di civiltà barbara, anche se riportasse grandi successi nel campo dell’economia, della tecnica, dell’arte e della scienza. La Chiesa, fedele alla missione ricevuta da Cristo, nonostante le debolezze e le infedeltà di molti suoi figli e di molte sue figlie, ha portato con coerenza nella storia dell’umanità la grande verità sull’amore del prossimo, ha attenuato le divisioni sociali, ha superato le differenze etniche e razziali, si è chinata sugli infermi e sugli orfani, sugli anziani, sugli handicappati e sui senza casa. Ha insegnato con le parole e con i fatti che nessuno può essere escluso dalla grande famiglia umana, che nessuno può essere spinto al margine della società. Se la Chiesa difende la vita non nata è perché essa guarda anche con amore e sollecitudine ogni donna che deve partorire.


La fuga in Egitto - Redemptoris custos 14: Dopo la presentazione al tempio l’evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).
Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall’Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l’avvertimento, «prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).
In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l’Egitto. Come Israele aveva preso la via dell’esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l’antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.


Lettera alle Famiglie n. 21: Il breve racconto della infanzia di Gesù ci riferisce in maniera molto significativa, quasi contemporaneamente, la sua nascita e il pericolo che Egli deve subito affrontare. Luca riporta le parole profetiche pronunciate dal vecchio Simeone quando il Bambino viene presentato al Signore nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita. Egli parla di «luce» e di «segno di contraddizione»; a Maria, poi, predice: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (cfr Lc 2,32-35). Matteo, invece, si sofferma sulle insidie tramate nei confronti di Gesù da parte di Erode: informato dai Magi, giunti dall’Oriente per vedere il nuovo re che doveva nascere (cfr Mt 2,2), egli si sente minacciato nel suo potere e, dopo la loro partenza, ordina di uccidere tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni dai due anni in giù. Gesù sfugge alle mani di Erode grazie ad un particolare intervento divino e grazie alla sollecitudine paterna di Giuseppe, che lo porta insieme a sua Madre in Egitto, dove soggiornano fino alla morte di Erode. Tornano poi a Nazaret, loro città natale, dove la Santa Famiglia inizia il lungo periodo di un’esistenza nascosta, scandita dall’adempimento fedele e generoso dei doveri quotidiani (cfr Mt 2,1-23; Lc 2,39-52).
Appare di un’eloquenza profetica il fatto che Gesù, sin dalla nascita, sia stato posto di fronte a minacce e peri- coli. Già come Bambino Egli è «segno di contraddizione». Un’eloquenza profetica riveste inoltre il dramma dei bambini innocenti di Betlemme, uccisi per ordine di Erode e diventati, secondo l’antica liturgia della Chiesa, partecipi della nascita e della passione redentrice di Cristo. Attraverso la loro « passione », essi completano «quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Nei Vangeli dell’infanzia, dunque, l’annuncio della vita, che si compie in modo mirabile nell’evento della nascita del Redentore, viene fortemente contrapposto alla minaccia alla vita, una vita che abbraccia nella sua interezza il mistero dell’Incarnazione e della realtà divino-umana di Cristo. Il Verbo si è fatto carne (cfr Gv 1,14), Dio si è fatto uomo. A questo sublime mistero si richiamavano spesso i Padri della Chiesa: «Dio si è fatto uomo, affinché noi diventassimo dèi». Questa verità della fede è contemporaneamente la verità sull’essere umano. Essa mette in luce la gravità di ogni attentato alla vita del bambino nel grembo della madre. Qui, proprio qui, ci troviamo agli antipodi del «bell’amore». Puntando esclusivamente sul godimento, si può giungere fino ad uccidere l’amore, uccidendone il frutto. Per la cultura del godimento il «frutto benedetto del tuo grembo» (Lc 1,42) diventa in certo senso un «frutto maledetto».
Come non ricordare, a questo proposito, le deviazioni che il cosiddetto stato di diritto ha subito in numerosi paesi? Univoca e categorica è la legge di Dio nei riguardi della vita umana. Dio comanda: «Non uccidere» (Es 20,13). Nessun legislatore umano può pertanto affermare: ti è lecito uccidere, hai diritto di uccidere, dovresti uccidere. Purtroppo, nella storia del nostro secolo, questo si è verificato, quando sono andate al potere, in modo anche democratico, forze politiche che hanno emanato leggi contrarie al diritto di ogni uomo alla vita, in nome di presunte quanto aberranti ragioni eugeniche, etniche e simili. Un fenomeno non meno grave, anche perché accompagnato da larga acquiescenza o consenso di opinione pubblica, è quello delle legislazioni non rispettose del diritto alla vita fin dal concepimento. Come si potrebbero moralmente accettare delle leggi che permettono di uccidere l’essere umano non ancora nato, ma che già vive nel grembo materno? Il diritto alla vita diventa in tal modo appannaggio esclusivo degli adulti, che si servono degli stessi parlamenti per attuare i propri progetti e per perseguire i propri interessi.
Ci troviamo di fronte ad un’enorme minaccia contro la vita: non solo di singoli individui, ma anche dell’intera civiltà. L’affermazione che questa civiltà è diventata, sotto alcuni aspetti, «civiltà della morte» riceve una preoccupante conferma. E non è forse evento profetico il fatto che la nascita di Cristo sia stata accompagnata dal pericolo per la sua esistenza? Sì, anche la vita di Colui che è al tempo stesso figlio dell’uomo e figlio di Dio è stata minacciata, è stata in pericolo sin dall’inizio, e solo per miracolo ha evitato la morte.
Negli ultimi decenni, tuttavia, si notano alcuni sintomi confortanti di un risveglio delle coscienze: esso riguarda sia il mondo del pensiero che la stessa opinione pubblica. Cresce, specialmente tra i giovani, una nuova coscienza di rispetto della vita fino dal concepimento; si diffondono i movimenti per la vita («pro life»). È un lievito di speranza per il futuro della famiglia e dell’intera umanità.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Dio dice: “Non uccidere”! (Es 20,13). Questo comandamento è al contempo un fondamentale principio e una norma del codice morale, iscritto nella coscienza di ogni uomo.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Signore nostro Dio, che oggi nei santi Innocenti sei stato glorificato non a parole, ma col sangue, concedi anche a noi di esprimere nella vita la fede che professiamo con le labbra. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO


27 Dicembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Gioite, giusti, nel Signore» (Salmo responsoriale).  


Vangelo secondo Giovanni 20,2-8: Nonostante che siano state le donne, e in modo particolare Maria di Magdala, le prime a recarsi alla tomba, sono tuttavia Pietro e Giovanni i primi ad entrarvi e ad osservare «i teli posati là, e il sudario... avvolto in un luogo a parte», segni che rivelano tangibilmente la risurrezione di Cristo: infatti, era «inammissibile che un ladro lasciasse le cose così in ordine. La conclusione non andava certo troppo lontano» (Felipe F. Ramos). Che sia Pietro ad entrare, e non l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro, lascia intravedere che già allora a Pietro era riconosciuta una certa preminenza (cfr. Gv 21,15-17).


Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo; questo particolare rileva che Pietro era considerato il capo degli apostoli. E dall’altro discepolo che Gesù amava; cf. 18,15; 13,23; 21,17; dal testo non si può stabilire il fatto se i due discepoli si trovassero insieme o se invece stessero in due luoghi distinti; la formulazione della frase (ripetizione della preposizione pros davanti ai nomi dei due discepoli) lascia supporre che Maria si recasse in due abitazioni distinte. Hanno portato via il Signore dal sepolcro; la scomparsa della salma del Redentore dalla tomba fa pensare subito ad un trafugamento, non già alla risurrezione. E non sappiamo dove lo hanno posto: il plurale - non sappiamo - lascia facilmente supporre che si tratta del gruppo delle pie donne accorse al sepolcro di Gesù, secondo l’esplicita testimonianza dei sinottici (Mt., 28,1; Mc., 16,1; Lc., 24,1). Anche queste pie donne avevano osservato la tomba vuota; Maria Maddalena le precede anche presso gli apostoli, prima ancora che apparisse l’angelo ad annunziare loro che Gesù era risorto (cf. Mt., 28,5-7; Mc., 16,5-8; Lc., 24,3-8).
Uscirono e si recarono verso il sepolcro; appena avvertiti dalla Maddalena, i due discepoli si avviano in tutta fretta al sepolcro del Maestro. Non vi è nessun commento sull’annunzio della tomba vuota, recato dalla donna.
L’altro discepolo che correva più  veloce di Pietro arrivo per primo; l’altro discepolo, essendo più giovane di Pietro, naturalmente giunge per primo alla tomba [...].
Ed egli, curvatosi vide le bende riposte [a terra]; il discepolo, appena giunto, si preoccupa di gettare uno sguardo nella tomba; egli si curva per introdurre la testa nell’apertura bassa della tomba e con un rapido sguardo constata che è vero quanto Maria Maddalena aveva riferito. Le bende giacciono per terra; il particolare offre un elemento nuovo per confermare che la salma è stata asportata, anche se tale asportazione non può essere chiamata trafugamento. Ma non entrò; anche se l’evangelista non indica quale sia il motivo che trattenga il discepolo dall’entrare nella tomba, bisogna ammettere che il discepolo si comporta in questo modo perché riconosce in Pietro una certa autorità (cf. 21,15-17).
E vide le bende riposte [a terra], e il sudario non era insieme con le bende; Pietro entra nella cella funeraria e constata che le bende ed il sudario si trovano nella tomba. Questi particolari sono ordinati ad escludere l’ipotesi di un trafugamento clandestino della salma, ipotesi presentata da Maria Maddalena; infatti, nel caso di un trafugamento, il cadavere sarebbe stato asportato come si trovava (cf. Giov., 11,44), cioè con le bende ed il sudario, poiché i trafugatori non potevano pensare di levare le bende ed il sudario e di deporli ordinatamente sul pavimento. L’evangelista annota che le bende ed il sudario erano stati deposti in due punti differenti della camera funeraria; di più egli rileva che il sudario era piegato e arrotolato; ciò fa pensare ad un oggetto trattato con cura, non già tolto in fretta e gettato via precipitosamente da coloro che avrebbero compiuto il supposto trafugamento.
Allora entro anche l’altro discepolo; dopo Pietro entrò anche l’altro discepolo, il quale nel constatare che le bende e il sudario si trovavano piegati con cura nella tomba, capì che la salma non era stata trafugata, ma che il Maestro era risorto. Egli vide e credette; il discepolo prediletto ricorda con commozione il momento in cui giunse ad una fede compiuta e piena in Cristo; egli, nella tomba vuota e semibuia, trovò la luminosità della fede; egli credette alla risurrezione per aver visto l’abbigliamento funerario di Gesù (bende e sudario), rimasto nel sepolcro. Il testo non dice nulla di Pietro; ciò non significa che il capo degli apostoli non credette alla risurrezione, ma che il primo a credere alla risurrezione del Maestro è stato il discepolo prediletto.


La fede nel Signore risorto - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni, III Volume): Il quarto evangelista rappresenta in modo drammatico lo sbocciare della fede nella risurrezione di Gesù, nel cuore dei primi discepoli. Nella descrizione delle apparizioni del Signore ai suoi amici dentro il cenacolo è sottolineata la dipendenza della fede dal vedere il Risorto; questa pericope tuttavia termina con la beatitudine di coloro che credono senza aver visto (Gv 20,29). Non solo qui, ma anche nel brano iniziale è narrato come il discepolo amato giunse alla fede nella risurrezione del Cristo (Gv 20,8s). Dunque la fede nel Signore risorto costituisce uno degli elementi dottrinali di maggior rilievo in Gv 20.
In realtà questa fede forma la base della religione cristiana; esclama, Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede ... Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,14.17). La risurrezione di Gesù è il fondamento della nostra fede e deve essere la forza che anima la nostra esistenza. La certezza che il Cristo ha vinto la morte e il peccato, deve infondere nel nostro cuore la speranza di partecipare a questa vittoria sul male. La fede nel Signore risorto che vive in seno alla chiesa, deve suscitare tanta serenità nel popolo di Dio, soprattutto nei momenti di crisi e di oscurità, allorché sembra prevalgano l’odio e le tenebre.
Il concilio Vaticano II ricorda che la chiesa «dalla virtù del Signore risorto trova forza per vincere con pazienza e amore le sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà» (Lumen gentium, 8).


Il sepolcro vuoto - Catechismo della Chiesa Cattolica n. 640: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato” (Lc 24,5-6). Nel quadro degli avvenimenti di Pasqua, il primo elemento che si incontra è il sepolcro vuoto. Non è in sé una prova diretta. L’assenza del corpo di Cristo nella tomba potrebbe spiegarsi altrimenti. Malgrado ciò, il sepolcro vuoto ha costituito per tutti un segno essenziale. La sua scoperta da parte dei discepoli è stato il primo passo verso il riconoscimento dell’evento della Risurrezione. Dapprima è il caso delle pie donne, poi di Pietro. “Il discepolo... che Gesù amava” (Gv 20,2) afferma che, entrando nella tomba vuota e scorgendo “le bende per terra” (Gv 20,6), “vide e credette” (Gv 20,8). Ciò suppone che egli abbia constatato, dallo stato in cui si trovava il sepolcro vuoto, che l’assenza del corpo di Gesù non poteva essere opera umana e che Gesù non era semplicemente ritornato ad una vita terrena come era avvenuto per Lazzaro.


San Giovanni, il veggente di Patmos - Benedetto XVI (Udienza Generale, 23 Agosto 2006): Al centro delle visioni che l’Apocalisse espone ci sono anche quelle molto significative della Donna che partorisce un Figlio maschio, e quella complementare del Drago ormai precipitato dai cieli, ma ancora molto potente. Questa Donna rappresenta Maria, la Madre del Redentore, ma rappresenta allo stesso tempo tutta la Chiesa, il Popolo di Dio di tutti i tempi, la Chiesa che in tutti i tempi, con grande dolore, partorisce Cristo sempre di nuovo. Ed è sempre minacciata dal potere del Drago. Appare indifesa, debole. Ma mentre è minacciata, perseguitata dal Drago è anche protetta dalla consolazione di Dio. E questa Donna alla fine vince. Non vince il Drago. Ecco la grande profezia di questo libro, che ci dà fiducia! La Donna che soffre nella storia, la Chiesa che è perseguitata alla fine appare come Sposa splendida, figura della nuova Gerusalemme dove non ci sono più lacrime né pianto, immagine del mondo trasformato, del nuovo mondo la cui luce è Dio stesso, la cui lampada è l’Agnello.
Per questo motivo l’Apocalisse di Giovanni, benché pervasa da continui riferimenti a sofferenze, tribolazioni e pianto - la faccia oscura della storia -, è altrettanto permeata da frequenti canti di lode, che rappresentano quasi la faccia luminosa della storia. Così, per esempio, vi si legge di una folla immensa, che canta quasi gridando: “Alleluia! Ha preso possesso del suo Regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell’Agnello, e la sua sposa è pronta” (Ap 19,6-7). Siamo qui di fronte al tipico paradosso cristiano, secondo cui la sofferenza non è mai percepita come l’ultima parola, ma è vista come punto di passaggio verso la felicità e, anzi, essa stessa è già misteriosamente intrisa della gioia che scaturisce dalla speranza. Proprio per questo Giovanni, il Veggente di Patmos, può chiudere il suo libro con un’ultima aspirazione, palpitante di trepida attesa. Egli invoca la venuta definitiva del Signore: “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20). È una delle preghiere centrali della cristianità nascente, tradotta anche da san Paolo nella forma aramaica: “Marana tha”. E questa preghiera “Signore nostro, vieni!” (1Cor 16,22) ha diverse dimensioni. Naturalmente è anzitutto attesa della vittoria definitiva del Signore, della nuova Gerusalemme, del Signore che viene e trasforma il mondo. Ma, nello stesso tempo, è anche preghiera eucaristica: “Vieni Gesù, adesso!”. E Gesù viene, anticipa questo suo arrivo definitivo. Così con gioia diciamo nello stesso tempo: “Vieni adesso e vieni in modo definitivo!”. Questa preghiera ha anche un terzo significato: “Sei già venuto, Signore! Siamo sicuri della tua presenza tra di noi. È una nostra esperienza gioiosa. Ma vieni in modo definitivo!”. E così, con san Paolo, con il Veggente di Patmos, con la cristianità nascente, preghiamo anche noi: “Vieni, Gesù! Vieni e trasforma il mondo! Vieni già oggi e vinca la pace!”. Amen!

 
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** La risurrezione di Gesù è il fondamento della nostra fede e deve essere la forza che anima la nostra esistenza.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che per mezzo dell’apostolo Giovanni ci hai rivelato le misteriose profondità del tuo Verbo: donaci l’intelligenza penetrante della Parola di vita, che egli ha fatto risuonare nella tua Chiesa. Per il nostro Signore.


IL PENSIERO DEL GIORNO

26 Dicembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro» (Vangelo Matteo 10,17-22).  


Vangelo secondo Matteo 10,17-22: Il discepolo che ha deciso di seguire il Maestro, non può aspettarsi un destino diverso da quello del Maestro perché il discepolo non è più del maestro (Lc 6,40). E se per Gesù la via della croce non solo fu prevista, ma voluta, così deve essere per il discepolo: la persecuzione fa parte della missione ed è il segno della sua verità. Il vero motivo per cui il mondo odia Cristo e continua ad odiarlo nei suoi discepoli è espresso da Gesù stesso: a causa del mio nome. Il discepolo deve comprendere tutto questo e accettarlo coraggiosamente: deve perfino gioire, ma senza falsi eroismi.  


Bibbia di Navarra (Vangelo secondo Matteo): Gesù dà qui una serie di istruzioni e di avvertimenti, che riceveranno applicazione costante nel corso di tutta la storia della Chiesa. Difficilmente lo spirito del mondo comprenderà le vie di Dio. Quando mancano le persecuzioni ci sarà l’indifferenza e l’incomprensione dell’ambiente. Ma seguire da vicino Gesù comporterà sempre fatica: non può sorprendere che sia così, dal momento che Gesù stesso fu segno di contraddizione; anzi, se un tal segno non è percepibile nella vita del cristiano, bisognerà domandarsi se questi non sia divenuto mondano. Un discepolo di Cristo non può transigere con certe manifestazioni frivole, per quanto possano essere di moda. Perciò la vita cristiana implica necessariamente un atteggiamento non conformistico nei confronti di tutto ciò che possa attentare alla fede e alla morale (cfr Rm 12,2). Non può stupire che la vita del cristiano si muova, non poche volte tra eroismo e tradimento. Innanzi alle difficoltà non dobbiamo aver paura: non siamo soli, possiamo fare affidamento sull’aiuto di Dio, nostro Padre, che ci renderà valorosi e audaci.

Giovanni Paolo II (Omelia, 19 Giugno 1988): Il Vangelo di oggi ci ha ricordato le parole con le quali Cristo Gesù ha annunciato ai suoi discepoli le persecuzioni che avrebbero subito: “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani” (Mt 10,17-18). Gesù ha parlato agli apostoli e ai discepoli di tutti i tempi; ha parlato con grande franchezza! Non ha fatto baluginare davanti a loro delle false promesse ma, nella pienezza della verità che caratterizzava sempre le sue parole, li ha preparati al peggio: “II fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (Mt 10, 21-22).
Tuttavia il divino Maestro non ha lasciato i suoi discepoli e i suoi fedeli indifesi di fronte alle grandi persecuzioni: “Quando vi arresteranno non preoccupatevi di ciò che direte; non sarete voi a parlare; lo Spirito di vostro Padre parlerà per voi” (Mt 10,19-20).
Lo Spirito santo. Lo Spirito della verità. Egli sarà la forza per la vostra debolezza. Con la sua forza voi darete testimonianza.
Il fatto stesso che dobbiate dare testimonianza di Cristo crocefisso, non necessita forse una saggezza e una forza superiori alle forze umane?
E non è forse a proposito di Cristo che l’Apostolo scrive che è considerato “scandalo secondo gli ebrei, stolto secondo i greci?” (1Cor 1,23).
Così avvenne ai tempi degli apostoli. Così ciò si ripete nelle diverse epoche della storia, in tempi e luoghi diversi. Così avvenne anche ai tempi della persecuzione religiosa contro i cristiani vietnamiti.
Era dunque necessaria la forza e la saggezza di Dio per proclamare questo mistero dell’amore di Dio, cioè, la redenzione del mondo per mezzo della croce: il mistero più grande ed, allo stesso tempo, umanamente inconcepibile.
 “Poiché ciò che è stolto in Dio è più saggio degli uomini, e ciò che è debole in Dio è più forte degli uomini” (1Cor 11,25).
Proprio per questo l’Apostolo scrive: “Noi predichiamo Cristo crocefisso”: Cristo che - concretamente nel suo mistero pasquale - è “forza e saggezza di Dio” (1Cor 1,23-24).


Raymond Deville (Dizionario di Teologia Biblica): Il mistero della persecuzione - Il fondo del problema - a) La persecuzione degli amici di Dio non è che un aspetto della guerra secolare che oppone Satana e le potenze del male a Dio ed ai suoi servi, e che si risolverà con lo schiacciamento del serpente. Dall’apparizione del peccato (Gen 3) fino alla lotte finali descritte nell’Apocalisse, il dragone «perseguita» la sua e la sua discendenza (Apoc 12; cfr. 17; 19). Questa lotta si estende a tutta la storia, ma si amplifica sempre più a mano a mano che il tempo avanza. Raggiunge il vertice al momento della passione di Gesù, che è nello stesso tempo l’ora del principe delle tenebre e l’ora di Gesù, l’ora della sua morte e l’ora della sua glorificazione (Lc 22,53; Gv 12,23; 17,1). Nella Chiesa, le persecuzioni sono il segno e la condizione della vittoria definitiva di Cristo e dei suoi. A questo titolo hanno un significato escatologico, perché sono un prodromo del giudizio (1Piet 4,17ss) e della instaurazione completa del regno. Legati alla «grande tribolazione» (Mc 13,9-13.14-20), esse preludono alla fine del mondo e condizionano la nascita di una nuova era (Apoc 7,13-17).
b) Se i perseguitati rimasti fedeli nella prova (Apoc 7,14) sono fin d’ora vincitori e «sovrabbondano di gioia», la loro sorte gloriosa non deve far dimenticare l’aspetto tragico del castigo dei persecutori. L’ira di Dio, che si rivela fin d’ora nei confronti dei peccatori (Rom 1, 18), alla fine dei tempi cadrà su coloro che si saranno induriti, specialmente sui persecutori (1Tess 2,16; 2Tess 1,5-8; Apoc 6,9ss; 11,17s; 16,5s; 19,2). La loro sorte era già annunziata nella fine tragica di Antioco Epifane (2Mac 9; Dan 7,11; 8,25; 11,45) che quella di Erode Agrippa ripete (Atti 12,21ss). Questo nesso delle persecuzioni con il castigo escatologico è sottolineato nelle parabole dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46 par.) e del banchetto nuziale (22,1-14). L’ultimo delitto dei vignaioli ed i cattivi trattamenti subiti dagli ultimi servi costituiscono l’anello finale di una serie di oltraggi e scatenano l’ira del padrone o del re. «Poiché hanno versato sangue dei santi, sangue hai dato loro da bere; ne sono meritevoli» (Ap 16,6; 19,2).


Il martirio massima testimonianza di amore, dono insigne, assimila al Maestro: Lumen gentium 42: «Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salvezza del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Se il martirio viene concesso a pochi, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce nelle persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.


Benedetto XVI (Udienza Generale, 10 Gennaio 2007): La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l’impegno sociale della carità dall’annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme. Soprattutto, santo Stefano ci parla di Cristo, del Cristo crocifisso e risorto come centro della storia e della nostra vita. Possiamo comprendere che la Croce rimane sempre centrale nella vita della Chiesa e anche nella nostra vita personale. Nella storia della Chiesa non mancherà mai la passione, la persecuzione. E proprio la persecuzione diventa, secondo la celebre frase di Tertulliano, fonte di missione per i nuovi cristiani. Cito le sue parole: «Noi ci moltiplichiamo ogni volta che da voi siamo mietuti: è un seme il sangue dei cristiani» (Apologetico 50,13: Plures efficimur quoties metimur a vobis: semen est sanguis christianorum). Ma anche nella nostra vita la croce, che non mancherà mai, diventa benedizione. E accettando la croce, sapendo che essa diventa ed è benedizione, impariamo la gioia del cristiano anche nei momenti di difficoltà. Il valore della testimonianza è insostituibile, poiché ad essa conduce il Vangelo e di essa si nutre la Chiesa. Santo Stefano ci insegni a fare tesoro di queste lezioni, ci insegni ad amare la Croce, perché essa è la strada sulla quale Cristo arriva sempre di nuovo in mezzo a noi.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Se il martirio viene concesso a pochi, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce nelle persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Donaci, o Padre, di esprimere con la vita il mistero che celebriamo nel giorno natalizio di santo Stefano primo martire e insegnaci ad amare anche i nostri nemici sull’esempio di lui che morendo pregò per i suoi persecutori. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO


25 Dicembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Tutti i confini della terra vedranno al salvezza del nostro Dio» (Cfr. I Lettura: Is 52,7-10).  


Vangelo secondo Giovanni 1,1-18: La Parola si fa carne assumendo un’umanità povera, inferma e mortale. È la Parola che ha creato i cieli ed è la Parola che con la sua potenza sostiene il mondo. Dio viene ad abitare in mezzo agli uomini, povero tra i poveri; medico, venuto dal cielo, per curare gli ammalati. Gli uomini, ora, possono vedere, toccare, sentire Dio, in Cristo possono vedere la gloria di Dio. Per dare poi «a tutto l’avvenimento un maggior rilievo, si contrappone Gesù, il Verbo fatto carne, a Mosè. Per mezzo di Mosè, venne la legge che era considerata come la garanzia della grazia e della fedeltà di Dio nei confronti del suo popolo; per mezzo di Gesù, è venuta la grazia, ma una grazia incalcolabile: “grazia su grazia”» (F. F. Ramos).

L’incarnazione: Catechismo della Chiesa Cattolica 461: Riprendendo l’espressione di san Giovanni («Il Verbo si fece carne»: Gv 1,14), la Chiesa chiama «incarnazione» il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto una natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza. La Chiesa canta il mistero dell’incarnazione in un inno riportato da san Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).


... tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste -  Bibbia di Navarra (Vangelo secondo Giovanni): Il prologo dopo aver indicato che il Verbo è nel seno del Padre, passa a descriverne la relazione con le creature. Già nell’Antico Testamento la Parola di Dio appare come potenza creatrice (cfr Is 55,10-11), come Sapienza presente all'atto della creazione del mondo (cfr Pro 8,22-26). Si ha qui un ulteriore passo innanzi nella Rivelazione divina: ci viene svelato che la creazione è stata effettuata per mezzo del Verbo; ciò non vuoi dire che il Verbo sia uno strumento subordinato e inferiore rispetto al Padre, ma che è principio attivo insieme al Padre e allo Spirito Santo. L’azione creatrice è comune alle tre Persone della Santissima Trinità: «Il Padre che genera, il Figlio che è generato e lo Spirito Santo che procede sono consustanziali, coeguali, coeterni e in pari misura onnipotenti: sono un solo principio di tutte le cose; un solo Creatore di tutte le cose, delle visibili e delle invisibili, delle spirituali e delle corporee» (Concilio Lateranense IV, De fide catholica, in Dz-Sch, n. 800). Da ciò si evince, tra laltro, che nella creazione è impressa lorma indelebile della Trinità e, pertanto, tutte le cose create sono radicalmente buone.


Fondamento dell’ottimismo cristiano - Alberto Salvatore Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni, Vol. I): I passi di Gv 1,3.5.10 offrono un eccellente fondamento allottimismo cristiano. Luniverso è buono, perché è creatura del Padre celeste con la mediazione del Verbo. Le realtà terrestri quindi non sono cattive, perché uscite dalle mani di Dio. In antitesi con il credo dello gnosticimo, per il quale la materia è cattiva, anzi è il male metafisico, Il quarto evangelista proclama che tutto è venuto allesistenza per mezzo del figlio di Dio. Quindi la materia e la carne, la terra e il corpo sono realtà buone né possono essere considerate come male.
Inoltre la certezza che le tenebre, ossia le forze del male, non avranno il sopravvento sulla luce, sulla comunità di Gesù illuminata dalla sua rivelazione, ispira fiducia e coraggio nella lotta continua della chiesa contro il peccato, lincredulità e legoismo.
Infine, il fatto che il Verbo incarnato è centro della storia e mediatore delle vicende umane, deve inculcare un sano ottimismo anche sulla storia del mondo.
Gli eventi, spesso tristi, della storia potrebbero ingenerare un senso di sfiducia e di pessimismo. Ma la certezza che il Verbo rivelatore è il mediatore delle vicende umane, deve infondere nel nostro cuore un senso di serenità, anche se al momento presente non riusciamo a vedere come la trinità umana, spesso fatta di violenze di odio e di egoismo, possa avere il mediatore nel figlio di Dio.


Vincenzo Raffa: L’Eucaristia è il sacramento che rievoca e ripresenta la morte e la risurrezione del Cristo, ma, con il mistero pasquale e in ordine ad esso, ricorda e rinnova, in certo modo, tutta la storia della salvezza e particolarmente la redenzione operata dal Cristo. L’incarnazione e la nascita di Cristo sono gli inizi della redenzione. La preghiera eucaristica IV e molte anafore non romane richiamano per l’appunto tutta la storia della salvezza, senza omettere l’incarnazione e la nascita del Cristo. Fu con l’incarnazione e con la nascita che Cristo divenne uomo con un corpo capace della immolazione cruenta e della risurrezione. Con il Natale il Verbo, cioè Dio, si è reso bene disponibile e fruibile al genere umano come mai era avvenuto nei secoli precedenti. Però è solo nell’Eucaristia e nella vita sacramentale che si compie il passo necessario al possesso del dono. Cristo è venuto al mondo nel Natale, ma è nell’Eucaristia che si fa nostro cibo. Le nozze celebrate fra Dio e l’umanità nell’incarnazione e nel Natale si riattualizzano nella comunione intima della Chiesa e dei singoli con il Cristo uomo-Dio nel sacramento eucaristico. L’amore infinito di Dio, manifestatosi a Betlemme, come offerta sponsale a ogni anima, viene qui accettato da chi partecipa alla Cena del Signore e si trasforma in beneficio concreto, presente e personale. Il fedele diventa fecondo di quella pace, cioè di quella salvezza, che fu cantata dagli angeli. Con l’incarnazione e la nascita di Cristo, si verificò la sua venuta storica nel mondo. Allora si fece carne e pose la sua tenda in mezzo alla sua gente. Con l’Eucaristia si verifica la venuta sacramentale in mezzo all’assemblea. Anche in questo sacramento si fa carne sotto le forme fenomeniche del pane e del vino e stabilisce la sua dimora in mezzo ai suoi amici.


Benedetto XVI (Messaggio Urbi et Orbi, Natale 2008): “Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri omnibus hominibus” (Tit 2,11).
Cari fratelli e sorelle, con le parole dell’apostolo Paolo rinnovo il gioioso annuncio del Natale di Cristo: sì, oggi, “è apparsa a tutti gli uomini la grazia di Dio nostro Salvatore”!
È apparsa! Questo è ciò che la Chiesa oggi celebra. La grazia di Dio, ricca di bontà e di tenerezza, non è più nascosta, ma “è apparsa”, si è manifestata nella carne, ha mostrato il suo volto. Dove? A Betlemme. Quando? Sotto Cesare Augusto, durante il primo censimento, al quale fa cenno anche l’evangelista Luca. E chi è il rivelatore? Un neonato, il Figlio della Vergine Maria. In Lui è apparsa la grazia di Dio Salvatore nostro. Per questo quel Bambino si chiama Jehoshua, Gesù, che significa “Dio salva”.
La grazia di Dio è apparsa: ecco perché il Natale è festa di luce. Non una luce totale, come quella che avvolge ogni cosa in pieno giorno, ma un chiarore che si accende nella notte e si diffonde a partire da un punto preciso dell’universo: dalla grotta di Betlemme, dove il divino Bambino è “venuto alla luce”. In realtà, è Lui la luce stessa che si propaga, come ben raffigurano tanti dipinti della Natività. Lui è la luce, che apparendo rompe la caligine, dissipa le tenebre e ci permette di capire il senso ed il valore della nostra esistenza e della storia. Ogni presepe è un invito semplice ed eloquente ad aprire il cuore e la mente al mistero della vita. È un incontro con la Vita immortale, che si è fatta mortale nella mistica scena del Natale; una scena che possiamo ammirare anche qui, in questa Piazza, come in innumerevoli chiese e cappelle del mondo intero, e in ogni casa dove è adorato il nome di Gesù.
La grazia di Dio è apparsa a tutti gli uomini. Sì, Gesù, il volto del Dio-che-salva, non si è manifestato solo per pochi, per alcuni, ma per tutti. E’ vero, nella umile disadorna dimora di Betlemme lo hanno incontrato poche persone, ma Lui è venuto per tutti: giudei e pagani, ricchi e poveri, vicini e lontani, credenti e non credenti… tutti. La grazia soprannaturale, per volere di Dio, è destinata ad ogni creatura. Occorre però che l’essere umano l’accolga, pronunci il suo “sì”, come Maria, affinché il cuore sia rischiarato da un raggio di quella luce divina. Ad accogliere il Verbo incarnato, in quella notte, furono Maria e Giuseppe che lo attendevano con amore ed i pastori, che vegliavano accanto alle greggi (cfr Lc 2,1-20). Una piccola comunità, dunque, che accorse ad adorare Gesù Bambino; una piccola comunità che rappresenta la Chiesa e tutti gli uomini di buona volontà. Anche oggi coloro che nella vita Lo attendono e Lo cercano incontrano il Dio che per amore si è fatto nostro fratello; quanti hanno il cuore proteso verso di Lui desiderano conoscere il suo volto e contribuire all’avvento del suo Regno. Gesù stesso lo dirà, nella sua predicazione: sono i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia (cfr Mt 5,3-10). Questi riconoscono in Gesù il volto di Dio e ripartono, come i pastori di Betlemme, rinnovati nel cuore dalla gioia del suo amore.
Fratelli e sorelle che mi ascoltate, a tutti gli uomini è destinato l’annuncio di speranza che costituisce il cuore del messaggio di Natale. Per tutti è nato Gesù e, come a Betlemme Maria lo offrì ai pastori, in questo giorno la Chiesa lo presenta all’intera umanità, perché ogni persona e ogni umana situazione possa sperimentare la potenza della grazia salvatrice di Dio, che sola può trasformare il male in bene, che sola può cambiare il cuore dell’uomo e renderlo un’“oasi” di pace.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  Il quarto evangelista proclama che tutto è venuto allesistenza per mezzo del figlio di Dio. Quindi la materia e la carne, la terra e il corpo sono realtà buone né possono essere considerate come male.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana. Egli è Dio, e vive e regna con te...