9 Settembre 2020

Mercoledì XXIII Settimana T. O.

1 Cor 7,25-31; Sal 44; Lc 6,20-26

Colletta: O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo, guarda con benevolenza i tuo figli di adozione, perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Apostolicam actuositatem 4. Spinti dalla carità che viene da Dio, [i laici] operano il bene verso tutti e in modo speciale verso i fratelli nella fede (cfr. Gal 6,10) «eliminando ogni malizia e ogni inganno, le ipocrisie e le invidie, e tutte le maldicenze » (1Pt 2,1), attraendo così gli uomini a Cristo.
La carità di Dio, « diffusa nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5), rende capaci i laici di esprimere realmente nella loro vita lo spirito delle beatitudini. Seguendo Gesù povero, non si deprimono nella mancanza dei beni temporali, né si inorgogliscono nella abbondanza di essi; imitando Gesù umile, non diventano avidi di una gloria vana (cfr. Gal 5,26), ma cercano di piacere più a Dio che agli uomini, sempre pronti a lasciare tutto per Cristo (cfr. Lc 14,26) e a soffrire persecuzione per la giustizia (cfr. Mt 5,10), memori delle parole del Signore: « Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). Coltivando l’amicizia cristiana tra loro si offrono vicendevolmente aiuto in qualsiasi necessità.
Questa spiritualità dei laici deve parimenti assumere una sua fisionomia particolare a seconda dello stato del matrimonio e della famiglia, del celibato o della vedovanza, della condizione di infermità, dell’attività professionale e sociale. I laici non tralascino dunque di coltivare costantemente le qualità e le doti ricevute, corrispondenti a tali condizioni, e di servirsi dei doni ottenuti dallo Spirito Santo.

Le beatitudini, introdotte dalla formula di benedizione “beato” (makarios) o “beati” (makarioi) costituiscono un genere letterario conosciuto nel mondo antico. Oltre che dal Vangelo di Luca sono ricordate anche in Mt 5,3-12. Le beatitudini descrivono la condizione che si avrà nel Regno di Dio. Nel Vangelo di Luca, a differenza del Vangelo di Matteo, sono riportate solo alcune di queste beatitudini, ed è forse il testo lucano ad essere più vicino all’insegnamento di Gesù. Molto probabilmente Matteo si è allontanato dalla forma originaria aggiungendone altre per ottenere un elenco sistematico. Le beatitudini lucane, a differenza di quelle di ricordate da Matteo, sottolineano il futuro tempo della salvezza, che porterà una nuova situazione. Nel Vangelo di Luca alle beatitudini seguono i guai.

Dal vangelo secondo Luca 6,20-26: In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Bibbia di Navarra: versetti 20-26: Le otto beatitudini che san Matteo ci consegna nel suo Vangelo (5,3-12) vengono da san Luca compendiate in quattro, accompagnate però a un pari numero di antitesi. Con sant’Ambrogio possiamo certamente dire che le otto beatitudini di san Matteo sono contenute nelle quattro di san Luca (cfr Expositio Evang. sec. Lucarn, in lac.). Le parole del testo di Luca sono a volte più immediate e recise di quelle del primo Vangelo, che presentano al contrario forma maggiormente esplicativa; così, ad esempio, la prima beatitudine di Luca recita semplicemente “beati voi poveri …” mentre in Matteo leggiamo “beati i poveri in spirito …”: espressione, quest’ultima, che costituisce una breve spiegazione del senso da attribuire alla virtù della povertà.
versetto 20. «Un cristiano qualsiasi deve rendere cornpatibili, nella propria vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori. Povertà reale, anzitutto: una povertà che i noti. che si po sa toccare con mano perché fatta di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio, una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d’amor di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore. E, nello stesso tempo, essere uno dei tanti in mezzo agli uomini nostri fratelli, condividendone la vita, le gioie, le ansie, e collaborando nelle stesse attività; amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando tutte le cose create per risolvere i problemi della vita umana. e per costruire l’ambiente materiale e spirituale propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.
«[…] Il miglior modello di povertà sono sempre stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e povere. che non vivono che per i propri figli, e che con il loro sforzo e con la loro costanza - spesso senza voce per manifestare agli altri le loro ristrettezze - sanno mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia. in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare» (Colloqui, nn. 110-111).
versetti 24-26. Con queste quattro imprecazioni il Signore condanna l’avidità e l’attaccamento ai beni mondani; le preoccupazioni eccessive per il corpo, e cioè la gola; l’allegria fatua e la ricerca del proprio piacere in ogni attività: l’adulazione, il plauso degli altri e la brama di gloria umana. Quattro vizi assai comuni nel mondo, e di fronte ai quali il cristiano deve assumere un atteggiamento vigile per non lasciarsene travolgere.

Le Beatitudini - Anselm Urban: Le beatitudini sulle labbra di Gesù hanno un suono tutto particolare. Chiama beati gli occhi che sono testimoni della sua azione, e gli orecchi ai quali è dato di udire il suo messaggio (Mt 13,16s). È beato chi accetta con fede questa rivelazione decisiva (Mt 16,17; cf. Lc 1,45) e non si scandalizza (Mt 11,6). La beatitudine della fede continua a valere proprio quando l’ora particolare della salvezza è passata (Gv 20,29).
Le beatitudini sono collocate all’inizio del grande discorso della montagna (Mt 5,3-12) e del discorso della pianura (Lc 6,20-23); in Mt quindi sono poste all’inizio assoluto della predicazione di Gesù.
Nella forma breve di Luca, ai quattro “beati” corrispondono quattro “guai” (cf. le coppie di contrapposizioni in Is 65,13s), il che sottolinea maggiormente il paradosso di questa “beatitudine”: viene promessa ai poveri e agli oppressi che agli occhi degli uomini sono da compatire. Ma proprio a questi, secondo Lc 4,18s, Gesù porta il suo “lieto messaggio”.
L’evangelo della signoria di Dio che ora si è avvicinata (Mc 1,15) significa “sovvertimento di tutti i valori”.
Soltanto per amore di questo unico assoluto “valore” (cf. Mt 13,44-46) ciascuno può essere dichiarato, in verità, beato. Tutte le beatitudini promettono una futura salvezza, il regno di Dio compiuto, che tuttavia viene promesso già ora, per il quale si può essere “iscritti in cielo” (cf. Lc 10,30). La Scrittura non definisce beato lo stato di perfezione (per es. Lc 14,15; altrimenti via gioia), ma l’uomo che è in cammino verso di essa, tra chiamata (Ap 19,9) e superamento della prova (Gc 1,12).

Beati voi, poveri… - Giuliano Vigini (Dizionario del Nuovo Testamento): I poveri. La prima e più importante beatitudine riguarda i “poveri” (ptōchoi), ai quali è stato dato il lieto annuncio (Lc 4,18; 7,22) di essere i destinatari del regno di Dio. Per Lc i poveri sono coloro che vivono in una condizione di miseria materiale e sono costretti alla mendicità, ma sono anche tutti i deboli, gli indifesi, gli sfruttati ed emarginati della società. Il suo, tuttavia, non è soltanto un riferimento ai poveri in genere, ma anche un appello specifico ai cristiani, che devono sopportare la loro condizione di povertà come conseguenza delle prove e delle persecuzioni subite nel nome di Cristo. Per questa fedeltà, al termine dei loro giorni, essi prenderanno possesso di quel regno di Dio che già in vita hanno ricevuto in eredità. I poveri, infatti, non sono dichiarati “beati” in virtù della loro povertà, ma in virtù dell’intervento di Dio che - oltre a farsi carico di liberarli dalla miseria, di rendere loro giustizia e di restituirli alla dignità di uomini, spalancherà loro davanti un futuro di felicità. Tenendo però presente che la prospettiva e la meta della beatitudine non è il passaggio dalla povertà alla ricchezza, bensì dall’abbandono al soccorso, dallo sconforto alla consolazione, dalla disperazione alla speranza: per la presenza e il sostegno costante di Dio nell’accompagnare i poveri verso il suo Regno.
Per Mt, invece, i poveri sono “in spirito” (tō pneumati). L’accento, così, si sposta da una condizione materiale a un atteggiamento interiore: l’apertura e l’umiltà di cuore di chi - qualunque sia il suo stato sociale e la sua posizione economica - riconosce la sua completa dipendenza da Dio, si sottomette docilmente alla sua volontà e in lui ripone tutta la sua fiducia. Egli non si preoccupa quindi di quello che oggi ha o non ha, ma si sforza - nel suo costitutivo bisogno della ricchezza di Dio - di guadagnare i beni futuri che il Signore gli ha promesso e che non gli farà mancare.

Javer Pikaza (Vangelo secondo Luca): Non interpreteremmo correttamente le beatitudini, se dimenticassimo la loro parte negativa, i «guai» pronunciati da Gesù. Il regno è offerto liberamente, e quindi, mette davanti agli uomini un circolo di possibile maledizione. Senza questo rischio dell’insuccesso, senza la possibilità di permettere che la ricchezza della vita ci distrugga internamente, le parole di Gesù non avrebbero rispettato la nostra libertà. Il regno di Gesù non uccide, non impoverisce, non distrugge, ma, nella sua luce, si è rivelata la terribile sorte di coloro che, cercando la sicurezza nel potere, nella ricchezza e nella gioia terrena, opprimono gli altri e distruggono la stessa realtà della loro esistenza. Chi riflette su queste parole di Gesù, scoprirà che, in un mondo nel quale i poveri soffrono la fame, ogni ricchezza della terra chiusa in se stessa si trasforma in maledizione per il suo padrone.

Veri e falsi profeti (vv. 23.26) - Rosanna Virgili (Vangelo second Luca): Ed ora il Maestro dà ai suoi discepoli una chiave per capire quanto egli afferma: la vera e la falsa profezia. Rileggete la Scrittura, dice Gesù, e considerate cosa fu fatto dai padri verso i veri profeti: essi odiarono e misero al bando i veri profeti (cf Geremia, Michea, il Servo del Signore), mentre apprezzarono e ossequiarono i falsi profeti (cf Ger 23,9ss), i quali condussero Israele verso la rovina e la fine. La lezione di Gesù non permette un ascolto passivo, ma pretende una vera interazione intellettuale tra maestro e discepolo: i discepoli sono chiamati a riflettere sulle parole bellissime ma strane di Gesù e a dare un giudizio servendosi della Scrittura e della storia dei loro padri ebrei.
La verità della parola di Gesù, quindi la sua credibilità, deve passare nella coscienza di quelli che lo seguono. Voi stessi date un giudizio, dice Gesù! Voi stessi giudicate la parola di Dio sulla storia del suo popolo. Voi stessi siete capaci di riconoscere - a posteriori! - i veri profeti da quelli falsi. In quelli falsi c’è solo apparenza ed egoismo e pensiero privato e partigiano: essi piegano la religione ai propri interessi individuali. Questa loro falsa profezia ha portato il disastro per il popolo di Israele. I veri profeti, invece, hanno vissuto la povertà, la fame, le lacrime, la persecuzione, ma hanno riscattato Israele dalla tomba.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti. (Vangelo)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi doni del tuo Figlio
aiutaci a progredire costantemente nella fede,
per divenire partecipi della sua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.





8 Settembre 2020

Natività Beata Vergine Maria - Festa

 Mi 5,1-4 oppure Rm 8,28-30; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23

La Bibbia e i Padri della Chiesa: La Chiesa celebra oggi la Natività di Maria, alla quale elargisce molti e grandi titoli. Lei è la Santa Madre di Dio, Madre della divina grazia, Madre ammirabile, Sede della Sapienza, Tempio dello Spirito Santo, Arca dell’alleanza e Porta del Cielo, Regina degli angeli e Regina di tutti i santi. Maria è Madre di Cristo e Madre della Chiesa. Ecco perché la Chiesa, che celebra la nascita dei santi al cielo, cioè il giorno della loro morte, per Maria fa eccezione. La sua venuta al mondo divenne la speranza e l’aurora della salvezza per tutto il genere umano. Da lei, il Figlio di Dio prenderà la natura umana; da lei sorgerà il Sole di Giustizia Cristo nostro Dio. La nascita di Maria ha avvicinato la salvezza del mondo. La vita della Chiesa è concentrata nel mistero di Cristo; Cristo per la Chiesa è tutto; ed è per questo che la Chiesa non si accontenta di celebrare la nascita del Sole; essa veglia già quando appare l’aurora.

Colletta: Donaci, Signore, i tesori della tua misericordia e poiché la maternità della Vergine ha segnato l’inizio della nostra salvezza, la festa della sua Natività ci faccia crescere nell’unità e nella pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Benedetto XVI (Omelia 7 Settembre 2008): Il Vangelo, una pagina dell’apostolo Matteo, ci ha proposto proprio il racconto della nascita di Gesù. L’Evangelista, però, lo fa precedere dal resoconto della genealogia, che egli colloca all’inizio del suo Vangelo come un prologo. Pure qui il ruolo di Maria nella storia della salvezza risalta in tutta la sua evidenza: l’essere di Maria è totalmente relativo a Cristo, in particolare alla sua incarnazione. “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo” (Mt 1,16). Salta all’occhio la discontinuità che vi è nello schema della genealogia: non si legge “generò”, ma “Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”. Proprio in questo si coglie la bellezza del disegno di Dio, che rispettando l’umano lo feconda dall’interno, facendo sbocciare dall’umile Vergine di Nazaret il frutto più bello della sua opera creatrice e redentrice. L’Evangelista pone poi sulla scena la figura di Giuseppe, il suo dramma interiore, la sua fede robusta e la sua esemplare rettitudine. Dietro i suoi pensieri e le sue deliberazioni c’è l’amore per Dio e la ferma volontà di obbedirgli. Ma come non sentire che il turbamento e quindi la preghiera e la decisione di Giuseppe sono mossi, al tempo stesso, dalla stima e dall’amore per la sua promessa sposa? La bellezza di Dio e quella di Maria sono, nel cuore di Giuseppe, inseparabili; egli sa che tra di esse non può esservi contraddizione; cerca in Dio la risposta e la trova nella luce della Parola e dello Spirito Santo: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23; cfr Is 7,14). 
Possiamo così, ancora una volta, contemplare il posto che Maria occupa nel disegno salvifico di Dio, quel “disegno” che ritroviamo nella seconda lettura, tratta dalla Lettera ai Romani. Qui l’apostolo Paolo esprime in due versetti di singolare densità la sintesi di ciò che è l’esistenza umana da un punto di vista meta-storico: una parabola di salvezza che parte da Dio e a Lui nuovamente giunge; una parabola interamente mossa e governata dal suo amore. Si tratta di un disegno salvifico tutto permeato dalla libertà divina, che attende tuttavia dalla libertà umana un contributo fondamentale: la corrispondenza della creatura all’amore del Creatore. Ed è qui, in questo spazio dell’umana libertà, che percepiamo la presenza della Vergine Maria, senza che venga mai esplicitamente nominata: Ella infatti è, in Cristo, primizia e modello di “coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Nella predestinazione di Gesù è inscritta la predestinazione di Maria, come pure quella di ogni persona umana. Nell’“eccomi” del Figlio trova eco fedele l’“eccomi” della Madre (cfr Eb 10,6), come anche l’“eccomi” di tutti i figli adottivi nel Figlio, di tutti noi appunto.  

Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo: queste parole dell’Angelo, già scritte nei cuori degli umili, erano la letizia e la gioia dei semplici, e allo stesso tempo attesa dolce struggente. Tutta la storia d’Israele era permeata da questa lieta attesa: il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Is 7,14). Ora i tempi si sono compiuti: quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio (Gal 4,4-7). Credere nell’Incarnazione è riconoscere la necessità della collaborazione dell’uomo all’attuazione della salvezza del mondo: Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Mt 28,19-20).

Forma breve: Dal Vangelo secondo Matteo 1,18-23: Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa Dio con noi.

Come è nato GesùNel vergare la genealogia di Gesù l’evangelista Matteo ha l’intento di fa capire ai suoi lettori chi è Gesù.
È un uomo. È il Figlio di Maria (Mt 1,16: Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo. Cfr. Mc 6,3), è veramente uomo (Gv 1,4) e le sue radici affondano nel popolo eletto. È il Messia. Come Giuseppe, suo padre secondo la legge, discende da Davide, così Gesù discende da Davide, e di conseguenza è l’erede delle promesse fatte ad Abramo.
L’evangelista Matteo, inoltre, nella genealogia cita uomini e donne che appartengono a diverse classi sociali: ci sono patriarchi, re, schiavi. C’è un pastore, una contadina, un carpentiere. Le donne ricordate, senza contare Maria, la Madre, sono tutte straniere, e una è una prostituta, Racab la meretrice di Gerico. Per la Bibbia di Gerusalemme, le “quattro donne straniere inserite nella genealogia di Gesù – Tamar, Racab, Rut, la moglie di Uria [cioè Betsabea] – sottolineano l’universalità della salvezza [vedi Mt 8,11; 28,19]”.
Possiamo pensare che “questo sia un modo sottile per dirci che la salvezza è un puro dono di Dio, una grazia e non qualcosa di dovuto in virtù dei nostri meriti. E che questo dono è offerto a tutti i popoli e non solo a quello giudaico” (Bibbia per le formazione cristiana).

La seconda parte del primo capitolo presenta la nascita di Cristo come un fatto assolutamente miracoloso. Maria concepì Gesù senza concorso d’uomo, per opera dello Spirito Santa. Menzionando lo Spirito Santo o Spirito di Dio, Matteo - come qualsiasi altro scrittore giudaico - pensa al potere creatore di Dio.
Affermato il fatto - concepimento miracoloso di Gesù - Matteo si sofferma alquanto nell’esporre le conseguenze. La prima è il naturale sconcerto di Giuseppe. Maria e Giuseppe erano fidanzati: secondo la legge giudaica, questo voleva dire che il contratto di matrimonio era stato stipulato seriamente e definitivamente. Mancava solo la cerimonia dello sposalizio, che culminava nel momento in cui la sposa era condotta a vivere nella casa dello sposo. La legge giudaica non considerava come peccato serio la relazione sessuale avvenuta fra i fidanzati nel tempo che intercorreva fra il fidanzamento e lo sposalizio; anzi, nel caso che, in questo tempo, fosse nato un figlio, la legge lo considerava come figlio legittimo.
Tenendo presenti la legge e le usanze giudaiche, lo stato di Maria creava un problema unicamente a Giuseppe. Perché? Crediamo che egli fosse al corrente di quello che era avvenuto; non vediamo ragioni per cui Maria, sua fidanzata, non dovesse informarlo di tutto.
E allora, perché il dubbio? Il dubbio di Giuseppe non si riferiva alla colpevolezza o all’innocenza di Maria, bensì al ruolo che egli personalmente doveva avere nell’avvenimento. Un intervento soprannaturale - compare il motivo dell’angelo - glielo rivela: egli dovrà imporre il nome al bambino, cioè, dovrà essere il suo padre legale (il nome era imposto dal padre).
E così, conosciuto il ruolo che gli era assegnato in quel matrimonio, egli si sentì libero dal turbamento, dallo sconcerto e dal dubbio. L’annunzio dell’angelo a Giuseppe è un riassunto completo del Nuovo Testamento: Gesù salverà il popolo dai suoi peccati.
Tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’espressione «perdono dei peccati» non significa il perdono d’una mancanza completa, ma il riassunto di tutta l’azione salvifica di Dio. Questo vuol dire che, con la comparsa di Gesù, è stata superata la separazione tra Dio e l’uomo. Infatti, egli è il «Dio-con-noi» per la nostra salvezza. Dire Gesù e dire salvatore è la stessa cosa. La nascita di Gesù, la sua vita e la sua attività furono e sono Dio con noi, come aveva annunziato il profeta Isaia.

Il culto della beata Vergine nella Chiesa - Natura e fondamento del culto - Lumen gentium 66: Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente onorata con culto speciale. E di fatto, già fino dai tempi più antichi, la beata Vergine è venerata col titolo di « madre di Dio » e i fedeli si rifugiano sotto la sua protezione, implorandola in tutti i loro pericoli e le loro necessità [192]. Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in preghiera e imitazione, secondo le sue stesse parole profetiche: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatto l'Onnipotente» (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i limiti di una dottrina sana e ortodossa e rispettando le circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel quale «piacque all'eterno Padre di far risiedere tutta la pienezza» (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato, glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tu sei giusto, Signore, e sono retti i tuoi giudizi: agisci con il tuo servo secondo il tuo amore. (Sal 118,137.124)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Esulti la tua Chiesa, Signore,
rinnovata da questi santi misteri,
nel ricordo della Natività di Maria Vergine,
speranza e aurora di salvezza al mondo intero.
Per Cristo nostro Signore.



7 Settembre 2020

Lunedì XXIII Settimana T. O.

1Cor 5,1-8; Sal 5; Lc 6,6-11

Colletta: O Padre, che ascolti quanti si accordano nel chiederti qualunque cosa nel nome del tuo Figlio, donaci un cuore e uno spirito nuovo, perché ci rendiamo sensibili alla sorte di ogni fratello secondo il comandamento dell’amore, compendio di tutta la legge. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Salvifici doloris 16: Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell’umana sofferenza. «Passò facendo del bene», e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell’anima. E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale. Essi sono «i poveri in spirito» e «gli afflitti», e «quelli che hanno fame e sete della giustizia» e «i perseguitati per causa della giustizia», quando li insultano, li perseguitano e mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo... Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro «che ora hanno fame».
Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell’umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di sé. Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l’incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà». Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì «che l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna». Proprio per mezzo della sua Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell’uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l’opera della salvezza. Quest’opera, nel disegno dell’eterno Amore, ha un carattere redentivo.

Al centro della ennesima polemica è la violazione del riposo sabbatico. Nel rispondere ai suoi avversari, Gesù sembra riferirsi ad una regola della legge rabbinica secondo cui un grave pericolo di vita permetteva di trasgredire la prescrizione del riposo sabbatico, ma a ferire il suo cuore è l’indifferenza degli astanti, incapaci di avere pietà di un uomo che soffre, altamente invalido. Alla misericordia e alla pietà di Gesù i farisei rispondono con sentimenti d’ira verso la sua persona: Ma essi, fuori di sé dalla collera..., possiamo dire che questa è la vera immagine dei farisei. Pur essendo uomini dotti e profondi esegeti della Legge sono caduti, nonostante ogni loro merito, in un difetto: nello studio cercano se stessi, non Dio e la sua volontà, e nemmeno la verità. Ecco perché quando si incontrano con la Verità la loro prima reazione è la polemica, poi il rigetto, infine l’odio impastato di insani progetti: discutevano fra di loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù. Il sesto capitolo del Vangelo di Luca si apre con l’odio e si chiude con l’amore verso i nemici: questa è la nuova Legge, quella dell’amore, che mette il discepolo in ascolto di Dio e dell’uomo.

Dal Vangelo secondo Luca 6,6-11: Un sabato Gesù entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo. Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita. Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.

Con la guarigione dell’uomo dalla mano paralizzata e l’esplosione della collera degli scribi e dei farisei si conclude la serie dei cinque scontri con i farisei e Gesù. Il brano di Luca mette in evidenza il livore degli scribi e dei farisei nei confronti di Gesù: non vi è ragione che tenga, per loro è un nemico da abbattere prima che “corrompa” la Legge. Bene i tratti psicologici degli scribi e farisei, osservano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo, la loro azione è premeditata, e quindi costituisce un’aggravante delle loro intenzioni omicide. Alla guarigione esplode la loro collera: non ragionano più, sono fuori di sé, e adesso fremono, è intollerabile lasciare libero Gesù di fare quello che vuole: si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù. Per il momento Luca non parla ancora di una congiura per uccidere Gesù, ma tutto fa intendere che si va verso questo finale.
Il brano evangelico è anche in Mc 3,1-6, ma Luca ha le sue peculiarità. Innanzitutto l’onniscienza di Gesù, conosceva i pensieri degli scribi e dei farisei, e poi Gesù è presentato come maestro, si mise a insegnare. La domanda che Gesù pone ai suoi detrattori rivela il progetto del Padre, un progetto di perdono e di misericordia e non come giudizio, un progetto di salvezza che supera tutte le ambiguità farisaiche degli oppositori del Regno di Dio.

Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Concertarono tra loro quello che dovevano fare a Gesù; in Marco questo vers. conclusivo trova una formulazione più dura ed aggressiva; i Farisei infatti entrano in contatto con gli Erodiani per concertare il modo di «far morire» Gesù (cf. Mc., 3,6). Luca, da parte sua, attenua le tinte rilevando unicamente che gli avversari furono ripieni di sdegno e si misero a parlare su quanto bisognava fare nei confronti del Salvatore. La mitezza dello scrittore rifugge da posizioni e parole troppo violente ed estremiste. Allo storico inoltre appare intempestivo che fin da questo momento s’incominciasse a parlare di uccidere il Maestro; soltanto più avanti e cioè in Lc., 13,31 si accenna per la prima volta che Erode voleva far morire Gesù. Con l’episodio della guarigione della mano atrofizzata termina la sezione (cf. Lc., 5,17-6, 11) nella quale l’evangelista ha narrato le cinque polemiche che Gesù sostenne con gli Scribi e Farisei, suoi accesi oppositori. Queste polemiche, che come si è visto restano legate ad alcuni episodi della vita del Maestro, sono le seguenti: 1) La guarigione del paralitico ed il potere di rimettere i peccati (Lc., 5,17-26); 2) la chiamata di Levi e la condiscendenza di Gesù nell’avvicinare i pubblicani ed i peccatori (Lc., 5,27-32); 3) la polemica sul digiuno (Lc., 5,33-39); 4) le spighe raccolte in giorno di sabato e il riposo sabatico (Lc., 6,1-5); 5) la guarigione della mano atrofizzata compiuta in giorno di sabato (Lc., 6,6-11). Altre due polemiche sul riposo sabatico saranno ricordate più avanti e precisamente nella grande sezione che narra il viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme (cf. Lc., 13,10-17 e 14,1-16, dove rispettivamente si parla della donna ricurva e dell’idropico guariti in giorno di sabato).

Ma essi, fuori di sé dalla collera... - Giuseppe Barbaglio: L’AT conosce due tipi di collera dell’uomo contrapposti dal punto di vista morale: esiste l’ira giusta e persino sacrosanta e c’è l’ira che colpisce ingiustamente il prossimo.
Nella prima categoria rientra, per es., il caso di Davide che si adira contro il ricco della parabola di Natan, reo di aver strappato di mano al povero l’unica agnella che questi possedeva (2Sam 12,5). Anche Neemia giustamente si accende di collera contro i misfatti perpetrati dai prepotenti ai danni del popolino indifeso (Ne 5,6). Parimenti i figli di Giacobbe reagiscono con legittima ira a difesa della sorella Dina, violentata da Sichem (Gn 34,7). Anche Davide ha fatto bene a irritarsi contro il figlio Amon violentatore di Tamar (2Sam 13,21). In 1Sam 11,6 si dice addirittura che lo spirito di Dio accese Saul di grande collera contro i crudeli ammoniti.
Quando poi è in gioco la causa di Dio, l’ira degli uomini che vi si ergono a difesa diventa meritoria e santa. Mosè appare qui un modello: si irrita contro quegli israeliti che hanno fatto incetta di manna invece di raccoglierne solo la quantità sufficiente per il bisogno quotidiano (Es 16,20); è preso da collera alla vista del vitello d’oro adorato dalla comunità israelitica ai piedi del Sinai (Es 32,19); si adira contro i capi militari che avevano risparmiato le madianite, invece di votarle all’ anatema (Nm 31,14). Da parte sua Geremia confessa di essere pieno dell’ira di Dio perché i connazionali non volevano dare ascolto alla parola divina (6,11; cf. 15,17).
Invece negativamente viene valutata l’ira di Caino verso Abele, le cui offerte erano gradite a Dio (Gn 4,5), di Esaù nei confronti di Giacobbe che gli aveva sottratto il diritto di primogenitura ( n 2ì ,44-45), di Potifar verso l’innocente Giuseppe (Gn 40,1-2), di Saul verso Gionata per la sua amicizia con Davide (1Sam 20,30), delle tribù d’Israele invidiose di Giuda che aveva dato i natali al re Davide (2Sam 19,43).
Comunque è la letteratura sapienziale, particolarmente il libro dei Proverbi, che ha riflettuto sull’ira umana dal punto di vista morale. La collera è causa di rovina (Pro 5,18; 27,4). La persona collerica deve essere rigorosamente evitata (Pro 22,24). I sapienti sanno controllarsi e non trascendono (Pro 29,8). In realtà, l’essere «lento all’ira» caratterizza il saggio (Pro 14,29; 15,18; 16,32; cf. Sir 7,8). Al contrario, l’uomo irascibile è stolto (Pro 14,17.29).
Nel NT l’ira è considerata, di regola, un vizio e come tale deve essere bandita dalla vita dei credenti. Già Gesù nel suo radicalismo aveva in qualche modo equiparato l’assassinio allo scatenamento della collera contro il fratello (Mt 5,21-22). In realtà, ne va della fraternità dei rapporti interpersonali; e ristabilire e ricucire un rapporto frantumato o incrinato è condizione sine qua non per entrare in comunione con Dio nella preghiera (Mt 5,23-24). Analoga ci sembra l’esortazione di 1Tm 2,8: «Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese». In altri termini, chi prega Dio non può avere il cuore pieno di collera contro il prossimo. È impossibile dissociare l’atteggiamento verticale dell’uomo da un coerente atteggiamento orizzontale; è illusorio costruire legami con Dio quando si spezzano i vincoli con gli altri. Certo, la collera è una forza istintiva che nasce in noi senza di noi, ma è nostro compito controllarla e non lasciarsene padroneggiare. Comprendiamo così la sollecitazione di Gc 1,19-29: «Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio». Parimenti in questa linea si deve interpretare Ef 4,26: «Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira».

Don Dolindo Ruotolo (I Quattro Vangeli): Non è senza una profonda ragione che il Sacro Testo dice ripieni di rabbia quelli che complottavano contro Gesù. È questa infatti una caratteristica dei persecutori, una nota inequivocabile che li distingue: sono presi da vera pazzia, non ragionano, sono violenti, sono crudeli, e con le loro stesse mani si rovinano e rovinano i loro popoli. La pazzia non di rado, e diremmo quasi sempre, è un frutto diabolico, o per lo meno è sfruttata da satana per i suoi loschi fini. I pazzi portano spiccati i segni particolari di satana: l’orgoglio, la malignità, l’ira, l’irruenza e l’impurità.
Ora i persecutori della Chiesa sono orgogliosi perché pretendono d’imporre le loro stoltissime idee; maligni perché ricorrono a tutti i mezzi della seduzione; iracondi, perché irrompono internamente con l’odio implacabile contro ciò che è bene, ed irruenti perché si servono della forza barbaramente.
La loro vita, poi, è tutta un cumulo di impurità, e proprio per questo avversano la Chiesa, fiera condannatrice d’ogni degradazione. Come satana, essi avversano il bene e promuovono il male, odiano la virtù e sublimano il vizio, amano il sangue e sono omicidi scellerati sotto l’ orpello delle leggi da essi stessi formate per dare un’ apparenza giuridica alle loro malvagità.
Dio però li confonde, e si serve spesso delle più umili forze per gettarli giù da un piedistallo che sembrava loro tetragono ad ogni potenza.
Uno sguardo solo della sua giustizia basta a sgominarli ed essi presto o tardi pagano il filo dei loro delitti e finiscono nell’obbrobrio.
Oggi che i persecutori della Chiesa dolorosamente sono molti, e spesso più violenti e sanguinosi degli antichi, non dobbiamo scoraggiarci ma pregare, perché la preghiera o li converte o li elimina. Dio mostra fino all’evidenza proprio nelle persecuzioni che Egli è padrone dei tempi e degli uomini, ed al momento opportuno si leva, compie i suoi disegni, e come vasi di creta riduce in frantumi i disegni dei perfidi.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Tu sei giusto, Signore, e sono retti i tuoi giudizi: agisci con il tuo servo secondo il tuo amore. (Sal 118,137.124)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi doni del tuo Figlio aiutaci a progredire
costantemente nella fede, per divenire
partecipi della sua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.



6 Settembre 2020

XXIII Domenica T. O.

Ez 33,1.7-9; Sal 95 (95); Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

Colletta: O Padre, che ascolti quanti si accordano nel chiederti qualunque cosa nel nome del tuo Figlio, donaci un cuore e uno spirito nuovo, perché ci rendiamo sensibili alla sorte di ogni fratello secondo il comandamento dell’amore, compendio di tutta la legge. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Amoris laetitia 296: Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o di imperfezione. Al riguardo, desidero qui ricordare ciò che ho voluto prospettare con chiarezza a tutta la Chiesa perché non ci capiti di sbagliare strada: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero […]. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!». Pertanto, «sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».
297 Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua personale iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire. Riguardo al modo di trattare le diverse situazioni dette “irregolari”, i Padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo: «In ordine ad un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro», sempre possibile con la forza dello Spirito Santo.

I lettura: Il profeta Ezechiele, come una sentinella, deve vegliare sulla condotta morale e religiosa del suo popolo e deve essere pronto a denunciare ogni trasgressione. E non può disinteressarsi della condotta dei giusti e degli empi poiché la loro sorte, vita o morte, è legata al suo annuncio. Da questa diligenza dipende anche il destino del profeta. Ezechiele non ha il compito di fare il giudice o il censore, ma ha quello di destare l’attenzione, di responsabilizzare tutti e ciascuno di fronte ai segni dei tempi che manifestano la volontà di Dio.

Salmo Responsoriale: «Il salmista c’insegna la forma della confessione: adoriamo, prostriamoci a lui e piangiamo. È lui che ci ha fatti: questo ci autorizza a sperare, non gli siamo estranei, siamo sua opera, suo popolo, sue pecore (vv. 6-7). Non ripete quanto è accaduto una volta: voi avete indurito i vostri cuori davanti a Mosè, non induriteli davanti al Verbo incarnato (Cf. Eb 3,15). Viene a proclamare la nuova alleanza (vv. 8-9). Non vogliate privarvi di questo sabato: il riposo che donerà il Verbo stesso quando avrà preso possesso del suo regno e si riposerà e accoglierà in questo stesso riposo tutti quelli che avranno accolto lui. Qual è questo riposo se non l’abitare presso di lui al termine di questa vita, riposarci nel suo regno, sollevati da ogni fatica e preoccupazione, dediti unicamente alla contemplazione del divino?» (Eusebio).

II lettura: L’amore è l’unica cosa di cui praticamente si deve occupare il cristiano nel suo comportamento verso il prossimo, ciò perché la carità porta a compimento e allo stesso tempo sintetizza tutta la Legge, sia quella Antico Testamento che quella del Nuovo Testamento.

Vangelo: Il Vangelo vuol suggerire una prassi per riconciliare la comunità con il fratello che ha peccato contro di essa. Con il potere di legare e di sciogliere, viene stabilito il principio dell’autorità della Chiesa locale. Tale potestà si esplica, in primo luogo, nel campo legislativo, al quale va congiunto quello giudiziario: quello, cioè, di costatare e valutare i delitti e applicare le pene.

Dal Vangelo secondo Matteo 18,15-20: In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».   

Va’ e ammoniscilo - Il diciottesimo capitolo viene denominato «discorso ecclesiastico», perché raccoglie le direttive date da Gesù ai suoi discepoli atte a regolare la vita della comunità. Questa domenica si proclamano i versetti riguardanti la correzione fraterna e la preghiera in comune che assicura in mezzo ai credenti la presenza del Risorto. Comunione e Presenza che rendono infallibile la preghiera dei cristiani.
Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo... Il brano evangelico mette in evidenza la prassi da seguire nel delicato ma vitale problema della correzione fraterna; essa dovrà rispettare un iter ben preciso: inizialmente, la correzione sarà privata, tra fratello e fratello; se lo scopo non è raggiunto segue quella semipubblica, davanti a una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni; ad un ulteriore fallimento, segue quella pubblica, davanti alla comunità; se anche questo terzo tentativo fallisce, allora, il fratello dovrà essere considerato come il pagano e il pubblicano. In quest’ultima soluzione non vanno colti sentimenti di vendetta o di acrimonia o di disprezzo, ma solo la condanna del peccato e il tentativo di guadagnare il fratello.
Questa prassi si consolidò nella Chiesa. Fu seguita anche dall’Apostolo Paolo quando dovette affrontare il caso dell’incestuoso della comunità di Corinto (Cf. 1Cor 5,5; Cf. Gal 6,1; 2Ts 3,15; 2Tm 2,25).
Il rimprovero o la pena sono finalizzati sempre, anche nei casi estremi come la scomunica, a muovere il colpevole al pentimento e alla salvezza finale (Cf. 2Ts 3,15). Però, vada bene inteso che il potere e l’autorità di correggere vengono sempre e soltanto da Dio, il quale promette di ratificare in Cielo quanto è stato deciso in terra dalla Chiesa.
Quindi non è un potere selvaggio perché vale per tutti, membri e capi, il detto di Gesù: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: “Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Lc 6,41-42).
La potestà di sciogliere e di legare, che era stata già conferita a Pietro (Cf. Mt 16,19), è estesa a tutta la comunità locale. Il campo di «questo potere è illimitato e riguarda l’interpretazione autorevole dell’insegnamento di Gesù e la disciplina della Chiesa, con il diritto di escludere uno dalla comunità qualora si renda indegno. Non si tratta quindi di un’autorità puramente dottrinale, ma anche disciplinare. Tale potere risiede interamente nel Cristo, che l’ha ricevuto dal Padre. Ma egli ora trasmette tale potestà ai discepoli. Le loro decisioni sono convalidate in cielo» (Angelico Poppi).
La pericope che chiude il Vangelo ha come tema la «preghiera in comune».
... se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa...: il verbo symphoneo usato qui indica lo spirito di pace e di concordia che si stabilisce tra i fratelli quando si mettono d’accordo per chiedere qualunque cosa al Padre celeste. Tale sinfonia di pace e di concordia dovrà essere l’elemento fondante della preghiera comunitaria, senza tale sinfonia si scivola in una preghiera formale e ipocrita.
L’efficacia della preghiera è garantita dalla presenza di Gesù: la preghiera cristiana è rivolta al Padre che è nei cieli, «ma passa attraverso la mediazione del Cristo, da cui attinge la sua efficacia. La presenza mistica del Cristo in mezzo ai suoi rievoca la dottrina veterotestamentaria della sekinah, “dimora” di Dio in mezzo al suo popolo. Simile a questo detto evangelico è una sentenza rabbinica del sec. II d.C. che dice: “Se due siedono avendo fra loro le parole della Legge, fra essi v’è la sekinah”» (Angelo Lancellotti). Questo ultimo detto riafferma così un principio cardine sul quale poggia l’intera comunità cristiana: solo la comunione fraterna e la preghiera sinfonica fatta nel nome di Gesù assicurano la Presenza del Risorto in mezzo ai suoi discepoli.

In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa - Wolfgang Trilling: Qui l’accento non è posto sulla «preghiera nel nome di Gesù», ma sulla comunione. I fratelli devono intendersi a vicenda e giungere a un accordo su ciò che vogliono chiedere; bastano due fratelli soltanto, un numero minimo della comunità, per render sicura la promessa. Tra cielo e terra sussiste una relazione reciproca immediata. Una richiesta, decisa insieme e insieme presentata a Dio, verrà sicuramente esaudita. Con ciò non si vuol dire che la preghiera privata del singolo non abbia tale sicurezza, ma solo che la preghiera comune ha garanzia assoluta di trovare ascolto presso «il Padre mio che è nei cieli». hi prega così, si riconosce e si comporta come «un bambino»; nella scelta del che cosa chiedere e nella forza della preghiera comune non si fida di se stesso, ma dell’intelligenza dei fratelli e con loro confida nella potenza di Dio.
L’ oggetto della preghiera non è specificato; «qualunque cosa» è un’espressione generica. Si può pensare a domande, formulate in spirito di fede e di comunione con Dio e Gesù, che vengono riconosciute importanti e degne di essere esaudite. L’accordo fra due o più persone sul che cosa chiedere è una garanzia. Si deve però rispettare il legame tra la disciplina della comunità e la sua preghiera. L’attenzione fraterna per il peccatore e la preghiera sono collegate fra loro e ordinate l’una all’altra. Tra le intenzioni di preghiera della Chiesa c’è l’intercessione per i fratelli che hanno commesso «una colpa». I gesti del correggere e dell’ammonire fraterno, del produrre testimoni, del pronunciare la sentenza, dell’escludere e dell’accogliere di nuovo, sono accompagnati e sostenuti dalla preghiera comune.

Papa Francesco (Angelus 7 Settembre 2014): Il Vangelo di questa domenica, tratto dal capitolo 18° di Matteo, presenta il tema della correzione fraterna nella comunità dei credenti: cioè come io devo correggere un altro cristiano quando fa una cosa non buona. Gesù ci insegna che se il mio fratello cristiano commette una colpa contro di me, mi offende, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, spiegandogli che ciò che ha detto o ha fatto non è buono. E se il fratello non mi ascolta? Gesù suggerisce un progressivo intervento: prima, ritorna a parlargli con altre due o tre persone, perché sia più consapevole dello sbaglio che ha fatto; se, nonostante questo, non accoglie l’esortazione, bisogna dirlo alla comunità; e se non ascolta neppure la comunità, occorre fargli percepire la frattura e il distacco che lui stesso ha provocato, facendo venir meno la comunione con i fratelli nella fede.
Le tappe di questo itinerario indicano lo sforzo che il Signore chiede alla sua comunità per accompagnare chi sbaglia, affinché non si perda. Occorre anzitutto evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità - questa è la prima cosa, evitare questo -. «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» (v. 15). L’atteggiamento è di delicatezza, prudenza, umiltà, attenzione nei confronti di chi ha commesso una colpa, evitando che le parole possano ferire e uccidere il fratello. Perché, voi sapete, anche le parole uccidono! Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io “spello” un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro! Anche le parole uccidono. Facciamo attenzione a questo. Nello stesso tempo questa discrezione di parlargli da solo ha lo scopo di non mortificare inutilmente il peccatore. Si parla fra i due, nessuno se ne accorge e tutto è finito. È alla luce di questa esigenza che si comprende anche la serie successiva di interventi, che prevede il coinvolgimento di alcuni testimoni e poi addirittura della comunità. Lo scopo è quello di aiutare la persona a rendersi conto di ciò che ha fatto, e che con la sua colpa ha offeso non solo uno, ma tutti. Ma anche di aiutare noi a liberarci dall’ira o dal risentimento, che fanno solo male: quell’amarezza del cuore che porta l’ira e il risentimento e che ci portano ad insultare e ad aggredire. È molto brutto vedere uscire dalla bocca di un cristiano un insulto o una aggressione. È brutto. Capito? Niente insulto! Insultare non è cristiano. Capito? Insultare non è cristiano.
In realtà, davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono. Tutti. Gesù infatti ci ha detto di non giudicare. La correzione fraterna è un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri. Correggere il fratello è un servizio, ed è possibile ed efficace solo se ciascuno si riconosce peccatore e bisognoso del perdono del Signore. La stessa coscienza che mi fa riconoscere lo sbaglio dell’altro, prima ancora mi ricorda che io stesso ho sbagliato e sbaglio tante volte.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Se tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta avrai guadagnato tuo fratello. (Mt 18,15)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi doni del tuo Figlio aiutaci a progredire
costantemente nella fede, per divenire
partecipi della sua vita immortale.
Per Cristo nostro Signore.