5 SETTEMBRE 2020

SABATO XXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

1Cor 4,6b-15; Sal 144 (145); Lc 6,1-5

Colletta: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Lavoro e tempo libero - Gaudium et spes 67: Poiché l’attività economica è per lo più realizzata in gruppi produttivi in cui si uniscono molti uomini, è ingiusto ed inumano organizzarla con strutture ed ordinamenti che siano a danno di chi vi operi. Troppo spesso avviene invece, anche ai nostri giorni, che i lavoratori siano in un certo senso asserviti alle proprie opere. Ciò non trova assolutamente giustificazione nelle cosiddette leggi economiche. Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, particolarmente in relazione alle madri di famiglia, sempre tenendo conto del sesso e dell’età di ciascuno. Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro. Pur applicando a tale attività lavorativa, con doverosa responsabilità, tempo ed energie, tutti i lavoratori debbono però godere di sufficiente riposo e tempo libero, che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale e religiosa. Anzi, debbono avere la possibilità di dedicarsi ad attività libere che sviluppino quelle energie e capacità, che non hanno forse modo di coltivare nel loro lavoro professionale.

I farisei, scrupolosi osservanti della legge, non rimproverano ai discepoli di Gesù di cogliere le spighe passando nei campi altrui (Dt 23,26 lo permetteva), ma di farlo nel giorno di sabato. Un rimprovero motivato dal fatto che i farisei vi vedevano un lavoro proibito dalla legge (Es 34,21). Il sabato era giorno di riposo, giorno in cui si faceva memoria del riposo di Dio: “Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando” (Gen 2,2-3). Gesù, nella risposta, rimanda gli avversari alla stessa Scrittura a cui essi si appellano e ricorda loro che anche Davide mangiò, non alcuni chicchi di grano ma tutti i pani, il cui uso era proibito dalla legge. Per Gesù la verità della legislazione sul giorno di riposo non è una questione di osservanze rituali puramente esteriori, ma è quella di mettersi totalmente e pienamente al servizio del Signore e degli uomini, sopra tutto se bisognosi.

Dal Vangelo secondo Luca 6,1-5
: Un sabato Gesù passava fra campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe, sfregandole con le mani. Alcuni farisei dissero: «Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?». Gesù rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Come entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?». E diceva loro: «Il Figlio dell’uomo è signore del sabato».

www.ocarm.org/it/content/lectio/lectio-divina-luca-6,1-5: Il vangelo di oggi narra il conflitto relativo all’osservanza del sabato. L’osservanza del sabato era una legge centrale, uno dei Dieci Comandamenti. Legge molto antica che fu riconsiderata nell’epoca dell’esilio. Nell’esilio, la gente doveva lavorare sette giorni a settimana dalla mattina alla sera, sin condizioni per riunirsi e meditare la Parola di Dio, per pregare insieme e per condividere la fede, i loro problemi e le loro speranze. Ecco quindi il bisogno urgente di fermarsi almeno un giorno alla settimana per riunirsi ed incoraggiarsi a vicenda durante la situazione così dura dell’esilio. Altrimenti avrebbero perso la fede. Fu lì che la fede rinacque e si ristabilì con vigore l’osservanza del sabato.
Luca 6,1-2: La causa del conflitto. Il sabato, i discepoli attraversano le piantagioni e si aprono cammino strappando spighe. Matteo 12,1 dice che avevano fame (Mt 12,1). I farisei invocano la Bibbia per dire che cosa suppone trasgressione della legge del Sabato: “Perché fate ciò che non è permesso di fare il sabato?” (cf Es 20,8-11).
Luca 6,3-4: La risposta di Gesù. Immediatamente, Gesù risponde ricordando che Davide stesso faceva cose proibite, poiché prese i pani sacri del tempio e li dette da mangiare ai soldati che avevano fame (1 Sam 21,2-7). Gesù conosceva la Bibbia e la invocava per dimostrare che gli argomenti degli altri non avevano nessuna base. In Matteo, la risposta di Gesù è più completa. Lui non solo invoca la storia di Davide, ma cita anche la Legislazione che permette ai sacerdoti di lavorare il sabato e cita il profeta Osea: “Misericordia voglio e non sacrificio”. Cita un testo biblico e un testo storico, un testo legislativo ed un testo profetico (cf. Mt 12,1-18). In quel tempo, non c’erano Bibbie stampate come le abbiamo oggi. In ogni comunità c’era solo una Bibbia, scritta a mano, che rimaneva nella sinagoga. Se Gesù conosce così bene la Bibbia vuol dire che nei 30 anni della sua vita a Nazaret ha partecipato intensamente alla vita comunitaria, dove ogni sabato si leggevano le scritture. A noi manca molto per avere la stessa familiarità con la Bibbia e la stessa partecipazione alla comunità.
Luca 6,5: La conclusione per tutti noi. E Gesù termina con questa frase: Il Figlio dell’Uomo è signore del sabato! Gesù, Figlio dell’Uomo, che vive nell’intimità con Dio, scopre il senso della Bibbia non dal di fuori, ma dal di dentro, cioè scopre il senso partendo dalla radice, partendo dalla sua intimità con l’autore della Bibbia che è Dio stesso. Per questo, lui si dice signore del sabato. Nel vangelo di Marco, Gesù relativizza la legge del sabato dicendo: “Il sabato è stato istituito per l’uomo e non l’uomo per il sabato.

Javer Pikaza: La disputa sulla pratica del sabato è posta su due piani diversi: appartiene da un lato alla storia di Gesù che in questo giorno ha guarito gl’infermi e ha aiutato i poveri e gli oppressi; e appartiene dall’altro all’esperienza della Chiesa primitiva che, seguendo l’esempio di Gesù, ha cessato di considerare la pratica del sabato come un’esigenza primitiva e assoluta.
Con questo non si nega semplicemente la validità e il senso d’un giorno consacrato alla lode e al riposo. Gesù non ha distrutto il sabato, ma a superato la sua unilateralità e ha rivelato la pienezza del suo senso. Vediamo.
Gesù ha superato il sabato partendo dai suoi miracoli. L’osservanza del sabato (inteso come riposo rigoroso e assoluto) era su un piano preparatorio; disponeva gli uomini all’ascolto della parola di Dio che viene. I miracoli, invece, riflettono la salvezza già compiuta; perciò in giorno di sabato si può guarire un uomo, offrirgli la speranza definitiva, metterlo in contatto con la realtà del dono di Dio che viene. Il sabato (e tutto il ritualismo giudaico) cessa di essere l’ultima parola, perché è giunto il regno e, nel regno, si trova il mistero di Dio per gli uomini. 
Nella parola e nel dono di Gesù si trova la pienezza del sabato. Di qui si comprende l’affermazione fondamentale con cui si conclude il primo testo: «Il Figlio dell’uomo è Signore del sabato» (6,5). Il Figlio dell’uomo ha cessato di essere la figura trascendente che secondo l’apocalittica giudaica, verrà alla fine del tempo, né può essere interpretato come il servo che cammina verso la morte. Il Figlio dell’uomo che concentra il senso di Gesù è, d’ora in poi, il Signore che ha potere sullo stesso ritualismo d’Israele. L’importante, quindi, non è la fedeltà al sabato, ma la sequela del Figlio dell’uomo che offre a tutti la via della salvezza definitiva.
Le osservazioni precedenti si possono attualizzare e concretare nel modo seguente: a) nel principio vi è un dato cristologico: la rivelazione definitiva di Dio non si identifica con nessuna legge cerimoniale o ritualista: Dio non si trova là dove l’uomo conserva fino alla fine un ordine sacro che si riflette in pratiche di tipo sociale o religioso. La rivelazione definitiva di Dio è la persona di Gesù e il regno che egli proclama nel mondo (cf 6,5).
b) Questo principio si traduce in una conseguenza d’ordine pratico: il compimento del bene (l’aiuto al bisognoso) è al di sopra di tutte le norme, comprese quelle che possono emanare dal cristianesimo (cf 6,9).
c) Di fronte al vecchio sabato d’Israele possono esistere nell’attualità determinate pratiche sociali che paiono intoccabili, anche se possono essere contrarie alle necessità e agli interessi veri degli uomini (e specialmente dei bisognosi). Sarà compito della Chiesa scoprire la debolezza di queste pratiche disattendendo la loro obbligatorietà a la loro esigenza, se così facendo si aiuta l’uomo. In questo modo tornerà a essere attuale la vecchia disputa di Gesù circa il sabato.

Il sabato - C. Spicq e P. Grelot: VT 1. L’istituzione del sabato. - Il termine sabato designa un riposo effettuato con intenzione religiosa. La sua pratica appare già negli strati più antichi della legge (Es 20,8; 23,12; 34,21). Ha probabilmente un’origine premosaica, che rimane oscura. Nella Bibbia è legato al ritmo sacro della settimana, che chiude con un giorno di riposo, di gioia e di riunione cultuale (Os 2,13; 2Re 4,23; Is 1,13).
2. I motivi del sabato. - Il codice dell’alleanza sottolineava il lato umanitario di questo riposo, che permetteva agli schiavi di riprendere fiato (Es 23,12). Tale è ancora il punto di vista del Deuteronomio (5,12 ...). Ma la legislazione sacerdotale gli conferisce un altro senso. Con il suo lavoro l’uomo imita l’attività del Dio creatore. Con il riposo del settimo giorno, imita il riposo sacro di Dio (Es 31,13 ...; Gen 2,2s). Dio ha dato così il sabato ad Israele come un segno, affinché sappia che Dio lo santifica (Ez 20,12).
3. La pratica del sabato. - Il riposo del sabato era concepito dalla legge in modo molto stretto: divieto di accendere il fuoco (Es 35,3), di raccogliere legna (Num 15,32 ...), di preparare il cibo (Es 16,23 ...). Su testimonianza dei profeti, la sua osservanza condizionava la realizzazione delle promesse escatologiche (Ger 17,19-27; Is 58,13s). Si vede quindi Neemia tener duro nella sua pratica integrale (Neem 13,15-22). Per «santificare» questo giorno (Deut 5,12), c’è una «convocazione santa» (Lev 23,3), offerta di sacrifici (Num 28,9s), rinnovamento dei pani della proposizione (Lev 24,8; 1Cron 9,32). Fuori di Gerusalemme, questi riti sono sostituiti da un’adunanza singolare, consacrata alla preghiera comune ed alla lettura commentata della Sacra Scrittura. All’epoca dei Maccabei, la fedeltà al riposo del sabato è tale che gli Asidei si lasciano massacrare piuttosto che violarlo prendendo le armi (1Mac 2,32-38). Verso l’epoca del NT si sa che gli Esseni lo osservano in tutto il suo rigore, mentre i dottori farisei elaborano in proposito una casistica minuziosa.
Nuovo Testamento - Gesù non abroga esplicitamente la legge del sabato: in questo giorno egli frequenta la sinagoga e ne approfitta per annunciare il vangelo (Lc 4,16...). Ma trova a ridire al rigorismo formalistico dei dottori farisei: «Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), ed il dovere della carità prevale sull’osservanza materiale del riposo (Mt 12,5; Lc 13,10-16; 14,1-5). Inoltre Gesù si attribuisce un potere sul sabato: il figlio dell’uomo ne è padrone (Mc 2, 28). È questo uno degli appunti che i dottori gli muovono (cfr. Gv 5,9...). Ma, facendo del bene nel giorno di sabato, non imita egli il Padre suo che, entrato nel suo riposo al termine della creazione, continua a governare il mondo ed a vivificare gli uomini (Gv 5,17)?
2. I discepoli di Gesù in un primo tempo hanno continuato ad osservare il sabato (Mt 28,1; Mc 15,42; 16,l; Gv 19,42). Anche dopo l’ascensione le riunioni sabbatiche servono ad annunziare il vangelo in ambiente ebraico (Atti 13,14; 16,13; 17,2; 18,4). Ma ben presto il primo giorno della settimana, giorno della risurrezione di Gesù, diventa il giorno di culto della Chiesa, in quanto giorno del Signore (Atti 20,7; Apoc 1,10). Vi si trasferiscono le pratiche che gli Ebrei collegavano volentieri al sabato, come l’elemosina (1Cor 16,2) e la lode divina. In questa nuova prospettiva l’antico sabato giudaico acquista un significato figurativo, come molte altre istituzioni del VT. Con il loro riposo, gli uomini commemoravano in esso il riposo di Dio nel settimo giorno. Ora Gesù è entrato in questo riposo divino con la sua risurrezione, e noi abbiamo ricevuto la promessa di entrarvi dietro di lui (Ebr 4,1-11). Sarà questo il vero sabato, in cui gli uomini si riposeranno dalle loro fatiche, ad immagine di Dio Che si riposa dalle sue opere (Ebr 4,10; Apoc 14,13).

Il riposo di Dio: Dies Domini 11: Il «riposo» di Dio non può essere banalmente interpretato come una sorta di «inattività» di Dio. L’atto creatore che è a fondamento del mondo è infatti di sua natura permanente e Dio non cessa mai di operare, come Gesù stesso si preoccupa di ricordare proprio in riferimento al precetto del sabato: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5, 17). Il riposo divino del settimo giorno non allude a un Dio inoperoso, ma sottolinea la pienezza della realizzazione compiuta e quasi esprime la sosta di Dio di fronte all’opera «molto buona» (Gn 1,31) uscita dalle sue mani, per volgere ad essa uno sguardo colmo di gioioso compiacimento: uno sguardo «contemplativo», che non mira più a nuove realizzazioni, ma piuttosto a godere la bellezza di quanto è stato compiuto; uno sguardo portato su tutte le cose, ma in modo particolare sull’uomo, vertice della creazione. È uno sguardo in cui si può in qualche modo già intuire la dinamica «sponsale» del rapporto che Dio vuole stabilire con la creatura fatta a sua immagine, chiamandola ad impegnarsi in un patto di amore. È ciò che egli realizzerà progressivamente, nella prospettiva della salvezza offerta all’intera umanità, mediante l’alleanza salvifica stabilita con Israele e culminata poi in Cristo: sarà proprio il Verbo incarnato, attraverso il dono escatologico dello Spirito Santo e la costituzione della Chiesa come suo corpo e sua sposa, ad estendere l’offerta di misericordia e la proposta dell’amore del Padre all’intera umanità.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.


  


 4 Settembre 2020

Venerdì XXII Settimana T. O.

 1Cor 4,1-5; Sal 36 (37); Lc 5,33-39

Colletta: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza - Nota Pastorale dell’Episcopato Italiano: Il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù. È vero che il Maestro non impone in modo esplicito ai discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e di astinenza. Ma ricorda la necessità del digiuno per lottare contro il maligno e durante tutta la sua vita, in alcuni momenti particolarmente significativi, ne mette in luce l’importanza e ne indica lo spirito e lo stile secondo cui viverlo. Quaranta giorni di digiuno precedono il combattimento spirituale delle “tentazioni”, che Gesù affronta nel deserto e che supera con la ferma adesione alla parola di Dio: “Ma egli rispose: Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4).
Con il suo digiuno Gesù si prepara a compiere la sua missione di salvezza in filiale obbedienza al Padre e in servizio d’amore agli uomini. Riprendendo la pratica e il valore del digiuno in uso presso il popolo di Israele, Gesù ne afferma con forza il significato essenzialmente interiore e religioso, e rifiuta pertanto gli atteggiamenti puramente esteriori e “ipocriti” (cf. Mt 6,1-6.16-18): digiuno, preghiera ed elemosina sono un atto di offerta e di amore al Padre “che è nel segreto” e “che vede nel segreto” (Mt 6,18). Sono un aspetto essenziale della sequela di Cristo da parte dei discepoli. Quando gli viene domandato per quale motivo i suoi discepoli non praticano le forme di digiuno che sono in uso presso taluni ambienti del giudaismo del tempo, Gesù risponde: “Finché [gli invitati alle nozze] hanno lo sposo con loro, non possono digiunare” (Mc 2,19). La pratica penitenziale del digiuno non è adatta a manifestare la gioia della comunione sponsale dei discepoli con Gesù. Ma egli subito aggiunge: “Verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno” (Mc 2,20). In queste parole la Chiesa trova il fondamento dell’invito al digiuno come segno di partecipazione dei discepoli all’evento doloroso della passione e della morte del Signore, e come forma di culto spirituale e di vigilante attesa, che si fa particolarmente intensa nella celebrazione del Triduo della Santa Pasqua. Il riferimento a Cristo e alla sua morte e risurrezione è essenziale e decisivo per definire il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, come di ogni altra forma di mortificazione: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). È infatti nella sequela di Cristo e nella conformità con la sua croce gloriosa che il cristiano trova la propria identità e la forza per accogliere e vivere con frutto la penitenza. 

Lo sposo è Gesù, i cui discepoli, cioè «i paggi d’onore», non possono digiunare perché con lui sono già incominciati i tempi messianici. Il vestito vecchio, i vecchi otri sono il giudaismo in ciò che esso ha di caduco nell’economia della salvezza; il panno non sgualcito e il vino nuovo sono lo spirito nuovo del regno di Dio. La pietà esagerata dei discepoli di Giovanni e dei farisei, con la pretesa di ringiovanire l’antico sistema, non fa che comprometterlo di più. Rifiutando sovraccarichi e rattoppi Gesù vuol fare qualcosa di completamente nuovo, sublimando lo spirito stesso della legge (cfr. Mt 5,17s). Il vino nuovo che Gesù offre non è gradito da quelli che hanno bevuto il vino vecchio della legge. Quest’ultima affermazione, forse, riflette l’esperienza di Luca che ben ha conosciuto le difficoltà della missione presso i giudei (cfr. At 13,5).

Dal Vangelo secondo Luca 5,33-39: In quel tempo, i farisei e i loro scribi dissero a Gesù: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!». Gesù rispose loro: «Potete forse far digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno». Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”».

I discepoli di Giovanni digiunano spesso... Il digiuno è una pratica penitenziale onnipresente in tutte le religioni. Un rito celebrato sopra tutto per attenuare l’arroganza e l’orgoglio, ma che si imponeva in alcune circostanze particolari: per esempio, per scongiurare un castigo divino o per sfuggire a eventi nefandi. Per molti Farisei era una delle tante pratiche escogitate dalla loro affettata religiosità per accampare diritti dinanzi al Signore e carpirne in questo modo la benevolenza (Lc 18,9-14).
Gesù condanna l’esibizionismo, l’ostentazione farisaica (Mt 6,16-18) non il digiuno che, come tutte le altre pratiche penitenziali, deve essere celato da un atteggiamento gaio, sereno, spontaneo: «Tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto» (Mt 6,17). No, quindi, a facce lugubri, tristi.
No, sopra tutto, a comportamenti ostentati unicamente per accaparrarsi le lodi e gli applausi degli uomini (Mt 6,1; 23,5). La religiosità cristiana è fatta di una spiritualità lieta, festante, briosa: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5) . Il Vangelo è la buona notizia che va annunciata con una faccia ilare, sorridente.
Il peccato delle guide spirituali del popolo d’Israele è quello di non essere state capaci di cogliere in Gesù lo sposo dell’umanità. Con Gesù «l’attesa di Dio è colmata: “sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa è pronta!” [Ap 19,7]. Gesù è lo sposo che porta a compimento l’alleanza tra Dio e il suo popolo annunciata dal profeta Osea. I tempi sono dunque compiuti. Non è più il tempo per il legalismo, non è più il tempo per leggere il presente con gli occhi del passato, ma con quelli del futuro inaugurato da Gesù. Non è più il momento di digiunare, come all’epoca in cui si preparava ancora l’incontro con Dio, ma è il momento della festa. Egli è ormai qui!» (Anselmo Morandi).
Presente lo Sposo gli invitati non possono digiunare, solo nei giorni successivi alla sua morte potranno farlo: «Il primo periodo è un continuato convito, non ci può essere posto per le astensioni e le privazioni; il secondo è un tempo di lutto, quindi anche di macerazioni. Il digiuno appare quindi un rito di condoglianze che la comunità cristiana celebra per sentirsi vicina al Cristo morto e sepolto» (Ortensio Da Spinetoli).

Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: Le parole di Gesù contengono una profezia: nella espressione verranno giorni in cui sarà tolto lo sposo, il verbo togliere o strappare (apairomai), nel Nuovo Testamento, usato solo al passivo, preannuncia la fine violenta di Gesù. Solo allora in quei giorni, il tempo della Chiesa, ci sarà posto anche per il digiuno.

Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio: Gesù, con la «parabola del vestito e dell’otre», rintuzza il cieco attaccamento dei Farisei alle loro tradizioni: ancora una volta non hanno capito la novità della Buona Novella che dichiara apertamente tramontate le vecchie pratiche religiose ormai incapaci di contenere il nuovo spirito che deve animare il discepolo. È l’immagine del vino nuovo, più di quella del panno non follato, a rendere più evidente il contrasto tra il vecchio e il nuovo.
Con l’immagine del vestito vecchio e del vino nuovo, Gesù dichiara sorpassate e inutili tutte le numerosissime, ossessionanti e minute prescrizioni giudaiche: erano diventate ormai vecchi e logori contenitori incapaci di contenere le nuove forze fermentatrici, proprie della predicazione cristiana.
Non vi può essere accordo o compromesso tra le leggi e le leggine mosaiche e il Vangelo, rivelazione ultima e definitiva dell’amore liberante di Dio: il vecchio è vecchio e va messo da parte; il vestito vecchio è frusto, liso ed è quindi inservibile. Gesù è venuto a tagliare i rami secchi non ad abolire la Legge in se stessa (Mt 5,17-19). Sono gli orpelli a dare fastidio, ad appesantire i cuori, ad intralciare il cammino; sono le tradizioni umane che deturpano il messaggio evangelico spogliandolo della sua bellezza e della sua novità.
Fuori immagine, non basta più essere buoni giudei, occorre diventare cristiani: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20)

Vecchio e Nuovo - Dopo la partenza dello Sposo, la pratica del digiuno deve essere rinnovata.
Sia l’immagine del panno grezzo, dove grezzo sta per nuovo, che quella del vino vogliono mettere in evidenza quanto sia inutile tentare di conciliare il vecchio  con il nuovo. L’insegnamento di Gesù non è un rattoppo del giudaismo, né il Vangelo si può adattare alla legge mosaica. Nel nuovo ordine della grazia instaurato da Cristo, tre sono le caratteristiche principali del digiuno cristiano.
Primo, il digiuno deve essere praticato con grande libertà spirituale. Gesù non ha «istituito un digiuno determinato, ha mangiato e bevuto liberamente. Anche san Paolo ha voluto inculcare un forte senso di libertà, mettendo in guardia però dal fare di questa un pretesto per vivere secondo la carne [Gal 5,13]. Personalmente egli ha digiunato, pur in mezzo alle numerose prove della sua vita; più volte egli ricorda ai cristiani quei suoi volontari digiuni [2Cor 6,4-5], spiega loro la funzione delle privazioni volontarie [1Cor 9,25-27], e propone il proprio esempio affinché essi, forti in Cristo, sappiano adattarsi ad ogni situazione, di abbondanza e di privazione [Fil 4,11-13]. L’essenziale è “discernere quello che Dio vuole” [Rom 12,2]. Nella diversità delle condizioni e delle vocazioni, si può servire Dio sia digiunando che mangiando; l’importante è farlo “per il Signore”, rendendogli grazie [Rom 14,3-6]» (R. Tufariello). Secondo, il digiuno non può essere ispirato al disprezzo del corpo perché è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,15). Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono, e «nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4,3-5). Terzo, il digiuno è prezioso agli occhi di Dio quando è informato dalla carità e apre il cuore all’amore.

La vera penitenza è anche ascesi fisica - Costituzione Apostolica Paenitemini, II: La vera penitenza però non può prescindere, in nessun tempo, da una ascesi anche fisica: tutto il nostro essere, infatti, anima e corpo, anzi tutta la natura, anche gli animali senza ragione, come ricorda spesso la Sacra Scrittura (46), deve partecipare attivamente a questo atto religioso con cui la creatura riconosce la santità e maestà divina.
La necessità poi della mortificazione del corpo appare chiaramente se si considera la fragilità della nostra natura, nella quale, dopo il peccato di Adamo, la carne e lo spirito hanno desideri contrari tra loro. Tale esercizio di mortificazione del corpo, ben lontano da ogni forma di stoicismo, non implica una condanna della carne, che il Figlio di Dio si è degnato di assumere; anzi, la mortificazione mira alla «liberazione» dell’uomo, che spesso si trova, a motivo della concupiscenza, quasi incatenato dalla parte sensitiva del proprio essere; attraverso il «digiuno corporale» l’uomo riacquista vigore e «la ferita inferta alla dignità della nostra natura dall’intemperanza, viene curata dalla medicina di una salutare astinenza».
Nel Nuovo Testamento e nella storia della Chiesa, nonostante il dovere di far penitenza sia motivato soprattutto dalla partecipazione alle sofferenze di Cristo, tuttavia la necessità dell’ascesi che castiga il corpo e lo riduce in schiavitù, è affermata con particolare insistenza dall’esempio di Cristo medesimo.
Contro il reale e sempre ricorrente pericolo di formalismo e di fariseismo, nella Nuova Alleanza, come ha fatto il divin Maestro, così gli Apostoli, i Padri, i Sommi Pontefici hanno apertamente condannato ogni forma di penitenza che sia puramente esteriore. L’intimo rapporto che, nella penitenza, intercorre tra atto esterno e conversione interiore, preghiera e opere di carità, è affermato e sviluppato largamente nei testi liturgici e negli autori di ogni tempo 

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Quando lo sposo sarà loro tolto, allora in quei giorni digiuneranno. (Vangelo)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Signore, che ci hai nutriti alla tua mensa,
fa’ che questo sacramento ci rafforzi nel tuo amore
e ci spinga a servirti nei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore.



3 Settembre 2020

San Gregorio Magno, Papa – Memoria

1Cor 3,18-23; Sal 23 (24); Lc 5,1-11

Dal Martirologio: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.

Colletta: O Dio, che guidi il tuo popolo con la soavità e la forza del tuo amore, per intercessione del papa san Gregorio Magno dona il tuo Spirito di sapienza a coloro che hai posto maestri e guide nella Chiesa, perché il progresso dei fedeli sia gioia eterna dei pastori. Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Concilio Vaticano I Capitolo I - Istituzione del Primato Apostolico nel Beato Pietro: Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto. Solamente a Simone, infatti, al quale già si era rivolto: “Tu sarai chiamato Cefa” (Gv 1,42), dopo che ebbe pronunciata quella sua confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo”, il Signore indirizzò queste solenni parole: “Beato sei tu, Simone Bariona; perché non la carne e il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli: e io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli” (Mt 16,16-19). E al solo Simon Pietro, dopo la sua risurrezione, Gesù conferì la giurisdizione di sommo pastore e di guida su tutto il suo ovile con le parole: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv 21,15-17). A questa chiara dottrina delle sacre Scritture, come è sempre stata interpretata dalla Chiesa cattolica, si oppongono senza mezzi termini le malvagie opinioni di coloro che, stravolgendo la forma di governo decisa da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che Cristo abbia investito il solo Pietro del vero e proprio primato di giurisdizione che lo antepone agli altri Apostoli, sia presi individualmente, sia nel loro insieme, o di coloro che sostengono un primato non affidato in modo diretto e immediato al beato Pietro, ma alla Chiesa e, tramite questa, all’Apostolo come ministro della stessa Chiesa.
Se qualcuno dunque affermerà che il beato Pietro Apostolo non è stato costituito da Cristo Signore Principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, o che non abbia ricevuto dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo un vero e proprio primato di giurisdizione, ma soltanto di onore: sia anatema.

Luca ha riunito in questo racconto la storia di una pesca miracolosa e la chiamata di Simone. La reazione di Pietro dinanzi al miracolo della pesca prodigiosa mette in evidenza una peculiarità del suo carattere: l’umiltà che spesso si associa al suo carattere irruento e a volte irriflessivo. Da evidenziare anche come Luca sottolinei la prontezza nel seguire Gesù: «Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono». Il termine tutto è proprio di Luca essendo assente negli altri sinottici. Tale «“totalità” nella sequela del Cristo costituisce un elemento caratterizzante di Luca, che accentua molto il radicalismo evangelico [...]. Infatti, secondo l’insegnamento di Luca, per essere autentici discepoli del Cristo, bisogna rinunciare a tutti i propri beni [Lc 14,33]» (Salvatore Panimolle). Una sequela senza sconti: bisogna rinunciare a tutto, anche alla vita.

Dal Vangelo secondo Luca 5,1-11: In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Gesù quando ebbe finito di parlare, disse a Simone - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Disse a Simone; il personaggio principale di tutta la scena è Simone-Pietro; a lui Gesù ordina di portarsi al largo. Avanza verso il profondo (del lago) e calate le vostre reti; «verso il profondo», cioè dove l’acqua è profonda. Si noti il passaggio dal singolare (avanza) al plurale (calate le reti). L’ordine è rivolto a Pietro ma questi non era solo, come risulta dall’uso plurale del verbo («calate...») e dal seguito del racconto. L’autore non accenna alla presenza di Andrea, fratello di Pietro, ricordata invece da Matteo e da Marco.
Maestro, ci siamo affaticati tutta la notte senza prender nulla; Simone ricorda con un accento molto confidenziale l’insuccesso della notte precedente che egli aveva passata sul lago senza riuscire a pescare nulla. Questa osservazione è riferita dallo storico allo scopo di mettere in evidenza la grandezza del miracolo che serve da inquadratura alla vocazione del capo degli apostoli. Indubbiamente quel comando di Gesù a dei pescatori di mestiere com’erano Pietro ed i suoi compagni non poteva apparire ad essi molto opportuno; il giorno infatti non si presta per una pesca abbondante. Ma sulla tua parola calerò le reti; «sulla tua parola» esprime più la fiducia che l’obbedienza di Simone; questi, rivolgendo a Gesù l’appellativo di «Maestro» (ἐπιστάτα), rivela la sua piena fiducia per chi si era già dimostrato un grande maestro e taumaturgo.
Simon Pietro... cadde ai piedi di Gesù, dicendo; Allontanati da me; «Simon Pietro»: il futuro apostolo è chiamato con un doppio nome, quantunque Luca dirà soltanto più avanti (cf. Lc., 6, 14) che Gesù stesso ha imposto a Simone il nome di Pietro; inoltre soltanto nel presente vers. Luca abbina i due nomi, in seguito l’evangelista designerà il capo degli apostoli soltanto con il nome di Pietro, fatta eccezione per i passi seguenti: Lc., 22, 31; 24, 34. Il motivo dell’uso abbinato dei nomi è dovuto con molta probabilità al fatto che la presente scena racchiude un importante simbolismo: la barca di Simone simboleggia la Chiesa e Simone, divenuto Pietro, continuerà, quale capo di essa, a seguire questo misterioso comando di Cristo. «Cadde ai piedi di Gesù»; particolare descrittivo molto vivo; Pietro avvertì con luminosa chiarezza la misteriosa potenza della persona che gli aveva dato l’ordine di gettare le reti in pieno giorno. Al suo spirito quel fatto miracoloso rivelò qualcosa di nuovo mostrandogli in pari tempo la sua condizione di piccolo e misero uomo e la grandezza invece di chi gli aveva parlato; da qui la spontanea confessione che rivela l’intimo turbamento e la profonda commozione dell’apostolo. L’evangelista segue lo sviluppo psicologico più che quello storico dei fatti; in verità non possiamo immaginarci come Pietro, che si trovava in lago aperto e sulla stessa barca di Gesù, gli potesse dire di «allontanarsi» da lui. Tutte le parole di Pietro rivelano l’intensa e profonda commozione della sua anima sorpresa e quasi sgomenta per quel fatto impensabile; esse quindi non vanno prese alla lettera. O Signore; Gesù, poco prima era stato chiamato «Maestro» (vers. 5), ora invece è chiamato «Signore» (κύριος), perché aveva mostrato il suo potere soprannaturale. Non è il caso di chiedersi se Pietro, in quella circostanza, avesse chiaramente riconosciuto in Gesù il vero Figlio di Dio, perché Luca ha qui una presentazione ideale e sintetica dei fatti. Gli apostoli furono preparati gradualmente a questa rivelazione della natura divina del Maestro; si veda la reazione che ebbe Pietro al primo annunzio della passione, narrato da Marco (cf. Mc., 8, 31-33) ed omesso da Luca. Io sono un peccatore; frase iperbolica con la quale Simone dichiara la propria indegnità che egli avverte in modo schiacciante dopo che il Salvatore, con quella pesca miracolosa, si è rivelato così grande e potente.

Non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti: La risposta che Simone dà a Gesù marca il carattere di quest’uomo abituato alla fatica: forse rude nei tratti, a volte impulsivo, ma sostanzialmente buono e umile per cui si fida di Gesù e della sua parola. Infatti, da buon pescatore, Simone sa che è assurdo l’invito di Gesù, ma accetta ben volentieri e la sua fede verrà premiata da una pesca abbondante: tanto enorme era la quantità di pesci che «le reti quasi si rompevano» (Questo ultimo particolare avvicina il racconto lucano a quello giovanneo di 21,1ss). Pietro, denominato con questo soprannome per la prima volta in Luca, percepisce la santità di Gesù e il gettarsi alle sue ginocchia è la conseguenza logica di questa sua comprensione: è la reazione dell’uomo affascinato e terrorizzato all’irrompere del soprannaturale nella sua vita. L’uomo davanti al divino, percepisce la sua miseria, il suo peccato. Simone capisce che tra lui e Gesù c’è una distanza infinita: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Pietro, con il suo stupore e con la sua umile confessione, «si colloca nella schiera dei profeti come Isaia che hanno reagito alla vista della gloria del Signore in maniera analoga [cfr. LXX Is 6,5] e rappresenta inoltre i “peccatori” che nel racconto di Luca rispondono positivamente a Gesù [5,30.32; 7,34.39; 15,1-2.7.10; 18,13; 19,7]» (L. T. Johnson). A un uomo di tale tempra e di tanta umiltà, Gesù può affidare una meravigliosa impresa, quella di essere pescatore di uomini. Il mare per gli antichi era la sede dei demoni, l’immagine è quindi molto forte: a Simon Pietro toccherà in sorte il nobile impegno di strappare gli uomini dal dominio di satana e liberarli dal giogo del peccato e della morte. In questo senso va il termine greco - zogron - usato per pescatore a cui appunto talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte (il testo greco letteralmente ha: da ora [gli] uomini sarai prendente vivi). Un mandato che Pietro vivrà con intensità fino al dono totale della sua vita. Un mandato che è stato dato a ciascuno, e attende di essere vissuto senza sconti.

Benedetto XVI (Omelia 4 Giugno 2008): Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, [Gregorio Magno] ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario - il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere - egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda.
L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.
Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella  profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla  a noi.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il buon pastore dona la vita per il suo gregge. (Cfr. Gv 10,11)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che ci hai nutriti di Cristo, pane vivo,
formaci alla sua scuola,
perché sull’esempio del papa san Gregorio Magno
conosciamo la tua verità
e la testimoniamo nella carità fraterna.
Per Cristo nostro Signore.



2 Settembre 2020

Mercoledì della XXII settimana del Tempo ordinario

1Cor 3,1-9; Sal 32 (33); Lc 4,38-44

Colletta: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Messaggio del Santo Padre Paolo VI ai Poveri, ai malati e a tutti coloro che soffrono (8 Dicembre 1965): 1. Per voi tutti, fratelli provati, visitati dalla sofferenza dai mille volti, il Concilio ha un messaggio tutto speciale. Sente fissi su di sé i vostri occhi imploranti, luccicanti di febbre o accasciati dalla stanchezza, sguardi imploranti, che cercano invano il perché della sofferenza umana e che domandano ansiosamente quando e da dove verrà il conforto.
2. Fratelli carissimi, noi sentiamo profondamente risuonare nei nostri cuori di padri e di pastori i vostri gemiti e i vostri lamenti. E la nostra pena si accresce al pensiero che non è in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici, che medici, infermieri e tutti quelli che si consacrano ai malati si sforzano di alleviare come meglio possono.
3. Abbiamo però qualche cosa di più profondo e di più prezioso da darvi: la sola verità capace di rispondere al mistero della sofferenza e di arrecarvi un sollievo senza illusioni: la fede e l’unione all’Uomo dei dolori, al Cristo, Figlio di Dio, messo in croce per i nostri peccati e per la nostra salvezza.
4. Il Cristo non ha soppresso la sofferenza; non ha neppure voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore.
5. O voi tutti che sentite più gravemente il peso della croce, voi che siete poveri e abbandonati, voi che piangete, voi che siete perseguitati per la giustizia, voi di cui si tace, voi sconosciuti del dolore, riprendete coraggio: voi siete i preferiti del regno di Dio, il regno della speranza, della felicità e della vita; siete i fratelli del Cristo sofferente; e con lui, se lo volete, voi salvate il mondo!
6. Ecco la scienza cristiana della sofferenza, la sola che doni la pace. Sappiate che non siete soli, né separati, né abbandonati, né inutili: siete i chiamati da Cristo, la sua immagine vivente e trasparente. Nel suo nome, il Concilio vi saluta con amore, vi ringrazia, vi assicura l’amicizia e l’assistenza della Chiesa e vi benedice.

La vita di Gesù è una vita girovaga senza riposo e senza un tetto sotto il quale ripararsi (Cf. Mt 8,20), uno stile di vita che i discepoli devono saper imitare. Sul suo esempio, Egli vuole che i suoi discepoli siano decisi ad abbracciare questo stile di vita intessuto di povertà e di precarietà, pronti nell’abbandonare affetti, case e parentele varie per mettersi al suo seguito (Cf. Mt 8,21-22). Un distacco totale che contrassegna la sequela cristiana.
Ritirandosi in un luogo deserto per pregare, Gesù indica ai suoi discepoli la fonte dove trovare la forza per attuare un simile programma di vita.
I Vangeli amano parlare della preghiera di Gesù. In modo particolare l’evangelista Luca.
Sopra tutto la ricordano in occasione dei momenti più importanti del ministero pubblico del Signore: il battesimo (Cf. Lc 3,21), la chiamata degli Apostoli (Cf. Lc 6,12), la prima moltiplicazione dei pani (Cf. Mc 6,46), la Trasfigurazione (Cf. Lc 9,29), nel Getsemani (Cf. Mt 26,39), sulla croce quando prega per i suoi carnefici (Cf. Lc 23,34).
Altresì, possiamo ricordare quante volte la preghiera ottenne il dono della guarigione da Gesù: il cieco nato (Cf. Mc 10,46-56), la guarigione del lebbroso (Cf. Mt 8,23), la Cananea (Cf. Mt 15,21-28). Il discepolo apprende in questo modo il segreto della preghiera come unico fondamento su cui poggiare la sua fede, la sua speranza. Senza la preghiera il cristiano non può essere fedele alla sua vocazione e alla sua elezione (2Pt 2,10).

Dal Vangelo secondo Luca 4,38-44: In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva. Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo. Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.

I miracoli di Gesú e il vangelo del regno - Javer Pikaza: Tutto ci permette di supporre che i diversi elementi che raccoglie il nostro testo siano fondati su un ricordo storico: la guarigione della suocera di Simone (Pietro) (4,38-39), le numerose guarigioni (4,40-41) e l’esigenza di estendere il messaggio del regno fuori della città di Cafarnao (4,42-44).
Tuttavia, l’elaborazione di questi particolari e l’unità dell’insieme sembrano opera d’un redattore, probabilmente Marco (1,29-39) che Luca ha seguito. Tenendo conto di questo, vediamo il senso degli elementi del testo.
Non sorprende il fatto che Gesù ridoni la salute a tutti i presenti: la suocera di Pietro, gli infermi e gli indemoniati. Nel suo gesto di aiuto fu espressa la verità della presenza dello Spirito che viene a trasformare il mondo (cf 4,18-21). Il suo potere non è distruzione, ma inizio d’una vita vera; il suo giudizio non è castigo, ma offerta di perdono, indirizzata a tutti quelli che sono oppressi dalle forze del maligno. La presenza escatologica di Dio ha cominciato a realizzarsi in un modo decisivo sul mondo.
In questo contesto si deve prendere nota della relazione di Gesù con i poteri malvagi. Il fatto che i demoni lo conoscano significa che la sua attività si mantiene su un piano di lotta contro tutti quelli che significano oppressione e distruzione per gli uomini. Conoscendolo (sapere il nome significa aver potere su qualcuno), i demoni mirano a rendere inutile la sua opera; ma Gesù non li lascia parlare e li scaccia (4,41). In questo particolare, comune negli antichi esorcismi, si scopre che è necessario lottare contro il maligno senza fermarsi a discutere le sue pretese. Tutti sappiamo che il male si può rivestire d’un’apparenza di bene, ingannando quelli che si fermano ad ascoltare le sue proposte. Gesù non li ascoltò: sapeva che tutto quello che distrugge l’uomo è perverso, e cercò di vincerlo.
L’opera di Gesù suscita una reazione egoista nella gente che vorrebbe approfittare di lui e monopolizzare l’aspetto più vasto della sua attività, utilizzandolo come un semplice guaritore. Per questo vengono a cercarlo (4,42). La nostra relazione con Gesù e il cristianesimo si può muovere su questo piano: li accettiamo semplicemente nella misura in cui ci aiutano a risolvere i nostri problemi (ci offrono tranquillità psicologica, garantiscono un ordine nella famiglia e nello stato, sanzionano norme di condotta che stimiamo utili). Questo modo di utilizzare il vangelo è vecchio: forse si possono applicare a esso le parole di condanna che Gesù pronunzia contro Cafarnao (Lc 10,15), la città che mirava a monopolizzare le sue opere miracolose.
La risposta di Gesù è chiara: deve annunziare il regno in altre città (4,43), La sua esigenza si traduce in un dono che trova aperti tutti quelli che sperano. Certamente il vangelo è un dono che non si può chiudere, un regalo che ci apre costantemente verso gli altri.

Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone: Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Non è a caso che Gesù opera il suo primo miracolo di guarigione proprio nella casa e nella famiglia di Pietro. Pietro deve essere consolidato in maniera particolare nella fede, perché egli ha un compito e una missione tutta particolare. Gesù guarisce la suocera di Pietro, affetta da una forte febbre. Risalta qui la potenza del taumaturgo. Il Vangelo usa la rara espressione che Gesù « comandò » alla febbre di andar via. Egli l’ha trattata come una potenza nemica, ribelle, che però riconosce in Lui il più forte e retrocede dinanzi alla sua intimazione. Gesù è il Redentore degli infermi.
L’uomo nello stato in cui era uscito dalla mano di Dio non conosceva la malattia. Con il peccato questa si è introdotta per la prima volta nel mondo. Gesù ora incomincia a ristabilire lo stato originale: al momento è soltanto un inizio, ma troverà il suo compimento con la creazione del nuovo cielo e della nuova terra (alla fine del mondo); Egli vede perciò la malattia come un nemico, la combatte come potenza avversa e più tardi darà anche ai suoi il potere di guarire gli infermi. Tutto l’uomo è opera di Dio, nel corpo e nell’anima; perciò anche tutto l’uomo, in corpo ed anima, deve essere guarito da Cristo e partecipare poi con Cristo, in corpo ed anima, nello splendore e nella gloria, ad una vita esente da dolori.

Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto: Giuseppe Pollano (Alla mensa della Parola): Questo Vangelo aggiunge ancora un’altra realtà preziosa: in una frase brevissima ci propone l’insegnamento più grande di Gesù: «Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava». Non sono forse questi momenti segreti e misteriosi del Figlio quelli che ci colpiscono e ci attirano di più, ma allora ci sbagliamo.
Il dono più grande non è né la guarigione né la rivelazione della verità stessa, perché questi sono soltanto la via che conduce al Padre e al porsi volontariamente davanti a Lui: ed è il momento dell’orazione profonda. Quelle notti misteriose di Gesù, nella solitudine e nel raccoglimento, avvolte dal silenzio, quando il Figlio - vivente in mezzo a noi, uomo come noi - sente il bisogno di trovare la propria verità continuando questo «faccia a faccia» col Padre: la profonda reciprocità che lo fa Figlio del Padre.
Lì è la Vita.
«Il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre»: così chiama Gesù l’apostolo Giovanni, lo stesso che gli aveva domandato al principio, insieme ad Andrea: «Rabbì, dove abiti?». L’ Apostolo ha capito dove Gesù abita: nel cuore del Padre. Questo è il dono più profondo: «Guariscimi, Signore, illuminami, ma soprattutto portami sempre di più nel mistero dove Tu, amando, tacendo, stavi col Padre; insegnami a dire Padre».

Beati i perseguitati . . . Beati gli afflitti, perché saranno consolati - Giovanni Paolo II (Omelia 21 Maggio 1985): In se stessa, la sofferenza è un male. E Gesù, nel corso della sua vita terrena “si è avvicinato incessantemente al mondo dell’umana sofferenza . . . Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche ... Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell’anima” (Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 16). Rivelava così che Dio sostiene la nostra lotta contro la malattia.
Ma, allo stesso tempo, con le sue beatitudini, e soprattutto con la sua stessa passione, rivelava che il male della sofferenza nasconde un bene: il bene della redenzione che riscatta dal male più profondo, cioè dal peccato, dalla lontananza da Dio; il bene della salvezza, della vita stessa di Dio. E così, nell’afflizione e nella debolezza sono celate la consolazione e la benedizione. Questo linguaggio è senza dubbio difficile, forse anche sorprendente, per coloro che non accolgono nella fede il messaggio e la testimonianza della vita di Gesù. Ma Gesù Cristo parla proprio di “beatitudine” nella sofferenza.
Inoltre, egli ha il potere di condurre a questa beatitudine tutti coloro che si lasciano guidare dal suo Spirito. Tutti coloro che cooperano alla grazia della redenzione attraverso la sofferenza. Tutti costoro possono allora - unendosi alla Madre di Cristo ai piedi della croce (Ivi, 25) - ripetere le parole del salmo proclamate in questa liturgia: “Ecco, Dio è la mia salvezza; / io confiderò, non avrò mai timore, / perché la mia forza e il mio canto è il Signore; / egli è stato la mia salvezza ... / Lodate il Signore, invocate il suo nome” (Is 12,2.4).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione. (Cfr. Lc 4,18)
Nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per il nostro Signore Gesù Cristo…