6 Gennaio 2020

EPIFANIA DEL SIGNORE - SOLENNITÀ

Is 60,1-6; Sal 71 (72); Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12

La Bibbia e i Padri della Chiesa [I Padri vivi]: Oggi, per mezzo della stella, Dio rivela il Figlio Unigenito quale Salvatore di tutti gli uomini. Nella persona dei magi venuti dallOriente, i popoli del mondo rispondono alla chiamata di Dio, individuano e riconoscono il Bambino di Betlemme come loro Salvatore. Si adempie la profezia di Isaia: il buio copre la terra, le tenebre avvolgono le nazioni, ma sopra Gerusalemme risplende la luce. Verso questa luce sono diretti i popoli della terra e in questa luce cammineranno dora in poi. Siamo di fronte ad un mistero, che non era conosciuto dalle generazioni precedenti e quale fu rivelato a san Paolo dallo Spirito Santo: i pagani sono già coeredi e membri dello stesso Corpo, e compartecipi della promessa in Cristo Gesù per mezzo del Vangelo. Gesù inizia lopera dellunificazione dei popoli e la fondazione della comunità della famiglia umana. La Chiesa, segno dellunità di tutto il genere umano, continua a svolgere questa missione oggi, finché non ritorni il Signore.
Abbiamo già conosciuto Cristo per mezzo della fede, abbiamo ottenuto il rinnovamento della nostra natura umana, apparteniamo alla Chiesa, popolo della Nuova Alleanza. Abbiamo bisogno, come una volta i magi, della luce di Dio per capire quanto grandi siano i misteri ai quali partecipiamo, per poter annunziare a tutti gli uomini le grandi opere di Dio.

Colletta: O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Epifania (Epiphaneia) significa venuta, manifestazione, apparizione: Oggi la Chiesa lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo, accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa (Ant. al Ben. Liturgia delle Ore). I Magi ed il re Erode sono i protagonisti del racconto evangelico. I Magi si mettono in cammino guidati da una stella per andare ad adorare un bambino: Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo. All’udire questo, il re Erode rimane paralizzato, inchiodato nei suoi sogni di grandezza: i primi hanno il cuore colmo di una gioia grandissima, il cuore di Erode invece è divorato dalla serpe della follia e concepisce progetti omicidi, e mentendo dice ai Magi: Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo. Ma in verità cerca il Bambino per ucciderlo. I Magi sono la primizia dei popoli che aderiranno con gioia grandissima alla Chiesa edificandola cattolica, universale, Erode è la profezia del tragico destino che attende il Messia: solo i lontani sanno che Israele ha già il Messia e lo cercano per adorarlo, benché ignorino chi è e dove trovarlo. Il doloroso destino di Cristo Gesù, di essere ignorato da compatrioti e cercato dagli estranei, incomincia a realizzarsi dall’inizio stesso della sua apparizione sulla terra. Manifestazione pubblica e pubblico rifiuto vanno uniti.

Dal Vangelo secondo Matteo 2,1-12: Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme - Claude Tassin (Vangelo di Matteo): I magi: a metà tra il sapiente e lo stregone, i «maghi» dell’antichità praticano la divinazione, la medicina, l’astrologia e interpretano i sogni. Mosè ebbe a che fare con essi al cospetto del faraone e anche gli apostoli incontreranno personaggi come questi (cfr. At 8,9; 13,8). La Bibbia mostra di non amarli: infatti si tratta di pagani, poiché la magia era bandita da Israele.
Questi magi di Mt 2 giungono dall’oriente: infatti i maghi orientali sono i più reputati, soprattutto i caldei di Babilonia; ma Matteo non precisa la loro terra d’origine: i doni che portano con sé fanno pensare all’Arabia; ma essi possono anche provenire dalla Persia. Secondo due autori latini, alcuni maghi persiani, obbedendo agli astri, vennero a Roma verso l’anno 66 per onorare l’imperatore Nerone; anch’essi ripartirono poi «per un’altra strada». Però non è verso Nerone ma verso Gesù che Matteo dirige i suoi magi, e non senza qualche ironia: il cammino che i responsabili giudei, benché illuminati dalla Bibbia, non hanno saputo fare, questi magi pagani l’hanno seguito basandosi sulla loro scienza piuttosto empirica e obbedendo alle Scritture: è la prima lezione missionaria dell’evangelista.
La Chiesa d’occidente conosce tre magi (uno per ogni regalo portato), dei quali ha fatto dei re. Questo cambia­mento riflette una certa familiarità con l’Antico Testamento: infatti, secondo il Salmo 72 (vv. 10-15), si tratta dei sovrani delle nazioni che vengono a offrire al messia i tesori delle loro terre. Ma Matteo non parla di re: si tratta di più normali pagani che si recano dal Cristo.
La stella: l’evangelista resterebbe certamente stupito delle ipotesi che, da secoli, cercano di individuare la nova o la cometa apparsa ai tempi di Gesù. La stella di Matteo non si trova nella volta celeste ma nella Bibbia ... Secondo Nm 24,17, un giorno si leverebbe «la stella di Giacobbe», una profezia che gli ebrei del I secolo riferivano al messia. Il simbolo si adatta bene alla storia dei magi: infatti l’annuncio di Nm 24 non era stato fatto a Israele da un profeta israelita ma da Balaam, un pagano che la tradizione considerava come un interprete di sogni, cioè un «mago».

Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli - Commento Sinottico): Non è facile determinare la natura della stella apparsa ai magi. Non sembra che si possa associare a un preciso fenomeno astronomico, come alla triplice apparizione della cometa di Halley nel 12 a.C, oppure alla congiunzione di Giove con Saturno nel 7 a.C. Inoltre risulta paradossale il movimento della stella da Gerusalemme verso Betlemme, cioè da nord verso sud, e non si comprende come una stella possa fermarsi sopra una casa. Essa ha evidentemente un significato simbolico. Nel racconto risulta come guida e perciò non può essere identificata con il Messia. Tuttavia, non è improbabile da parte di Matteo un’allusione alla «stella di Giacobbe» predetta da Balaam, un profeta pagano, che proveniva pure lui dall’Oriente (Nm 24,17). L’oracolo si riferiva al re David. Tuttavia, anche nel giudaismo, come è comprovato dai manoscritti di Qumràn, fu applicato al Messia.
I magi erano venuti per adorare il re dei giudei. Il verbo greco proskynéó, usato ben tredici volte in Matteo, significa «adorare», «rendere omaggio», «prostrarsi». Dato che i magi domandano del «re dei giudei», appare chiaro che volevano rendere omaggio alla sua regalità. Però in Matteo il verbo anche altrove in riferimento a Gesù assume il significato religioso di adorazione (cf. 14,33; 28,9.27). L’evangelista intende orientare il lettore al riconoscimento della divinità di Cristo da parte dei rappresentanti dei futuri seguaci, provenienti dal paganesimo. Sembra, comunque, inverosimile che il mistero della persona divina di Gesù sia stato manifestato ai magi prima che agli apostoli, i quali vennero preparati lentamente e pedagogicamente a questa sublime rivelazione. Però Matteo ha riletto cristologicamente l’episodio per farne un’autentica «epifania messianica». Secondo alcuni esegeti, l’evangelista si è ispirato per la sua suggestiva composizione al viaggio della regina di Saba da Salomone (1Re 10,1-13), o ancora ai viaggi sensazionali della regina di Adiabene a Gerusalemme nel 44 d.C. e del re di Armenia Tiridate a Roma nel 66 d.C. Quest’ultimo rese omaggio a Nerone come a un dio.

Manifestazione (Epifania) - Ansel Urban: Significa, a differenza della visione apocalittica (sguardo nel mondo aldilà) la comparsa in questo mondo e nella storia di una realtà dell’aldilà, sia in forma personale, sia attraverso segni prodigiosi. Nella Bibbia “si manifestano” (il più delle volte è detto: “fu visto”) Dio, angeli, morti (Mt 27,53), santi del passato (Mc 9,4), il Cristo risorto, Satana (2Ts 2,8).
Nei racconti dei patriarchi, le manifestazioni di JHWH sono collegate a determinate tradizioni locali; più tardi è l’arca dell’alleanza nella tenda, o nel tempio, il luogo nel quale Dio si manifesta nella sua  “gloria”. Talvolta Dio appare in sogno (Gen 28,12ss; fluido passaggio alla visione), talvolta sotto sembianze di uno straniero (Gen 18); nell’“angelo di JHWH” si manifesta, secondo i testi più antichi (jahwista, elohista), Dio stesso [...]. Nella nuova alleanza Dio si manifesta nel suo Figlio Gesù Cristo. Secondo i sinottici, però, egli rimane fondamentalmente, nonostante tutti i segni di potenza, sotto una legge di nascondimento (Mc 3,11s), e soltanto eccezionalmente traspare qualcosa della gloria divina nella sua figura terrena: in occasione della trasfigurazione o del cammino sulle acque (con la tipica espressione epifanica: “Sono io!” Mc 6,50). Giovanni invece sottolinea continuamente il carattere epifanico della persona e dell’azione di Gesù: i suoi miracoli sono “segni” e rivelano la sua gloria (2,11), oppure quella del Padre, poiché Gesù fa soltanto ciò che egli vede e ode fare dal Padre (5,19.30). Perciò chi vede lui, vede il Padre (14,9). Nella parola incarnata che ha “eretto la sua tenda in mezzo a noi” si rese visibile la gloria di Dio (1,14; chiara allusione alla manifestazione di JHWH nell’Antico Testamento). Con il suo ritorno al Padre, il tempo di questa “epifania” (cf. 2Tm 1,10) è passato (Gv 14,22). Ma determinante per la nostra salvezza non è il vedere, ma la fede (20,29), la quale nasce dall’udire il messaggio, permane e viene a sua volta annunciata (20,31, 1Gv 1,3). Per Giovanni, Cristo nella sua missione storica è più la parola che non l’immagine del Padre. La vera e propria epifania di Dio avviene, anche secondo il Nuovo Testamento, solo alla fine dei giorni: alla venuta del Figlio dell’uomo con grande potenza e gloria (Mc 13,26). “Parusia” ed “epifania” sono qui appaiate con lo stesso significato (2Ts 2,8).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima” (Vangelo).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La tua luce, o Dio, ci accompagni sempre e in ogni luogo,
perché contempliamo con purezza di fede e gustiamo
con fervente amore il mistero di cui ci hai fatto partecipi.
Per Cristo nostro Signore.







5 Gennaio 2020

II DOMENICA DOPO NATALE

Sir 24,1-4.12-16; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18

Colletta: Dio onnipotente, il Salvatore che tu hai mandato, luce nuova all’orizzonte del mondo, sorga ancora
e risplenda su tutta la nostra vita. Egli è Dio, e vive e regna con te... 

I Lettura: A differenza dell’Antico Testamento che non assimila mai la Sapienza al Dio unico, il Nuovo Testamento individua nella Sapienza una prefigurazione del Verbo di Dio attraverso il quale il Signore Dio ha creato tutte le cose (Cf. Gv 1,3; Col 1,16-17; Eb 1,2). La Sapienza, nel Nuovo Testamento, si contrappone alla sapienza umana: la prima è feconda di salvezza, la seconda è invece sterile. Gesù sarà ripieno di Sapienza: una pienezza che susciterà l’ammirazione dei dottori della Legge e lo stupore dei suoi uditori (Cf. Lc 2,41ss). Gesù è «più di Salomone» (Mt 7,12; Lc 11,31) e in lui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3). Così, il mistero della croce è «stoltezza e scandalo» (1Cor 1,18.23) agli occhi del mondo perché esso non ha riconosciuto Dio con gli strumenti della propria sapienza (Cf. 1Cor 1,21; Ef 4,17-18), invece per coloro che sono «chiamati» (1Cor 1,24) la croce è sapienza e «potenza di Dio» (1Cor 1,18). Cristo Gesù, infine, è diventato per noi, suoi discepoli, «sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1,30).

Salmo Responsoriale: «Lo Spirito Santo genera in noi l’amore di questa città. Amiamola: amarla è già un camminare verso di lei. Coloro che ancora sono in esilio, vedono l’immensa folla di tutti i cittadini raccolti da ogni dove e già entrati in quella città; vedono la gioia di questa messe stritolata, vagliata, ormai introdotta nel granaio, che non ha più nulla da temere. Coloro che vivono ancora sotto il peso della tribolazione, ne anticipano il gaudio nella speranza e anelano verso di lei congiungendo il loro cuore con gli angeli di Dio e con tutto il popolo col quale saranno eternamente beati: Loda, Gerusalemme, il Signore! Che altro devi fare, Gerusalemme? Arare, seminare, compiere opere di misericordia? Considera la moltitudine che ti compone! C’è forse qualcuno che abbia fame o sete? C’è qualche malato che tu debba visitare o qualche morto da seppellire? [Cf. Mt 25,35s]. Che farai allora? Lauda, Ierusalem, Dominum! Questo è ciò che devi fare» (Sant’Agostino).

II Lettura: Soltanto Dio, che è il solo sapiente, può donare quella sapienza che rende l’uomo capace di conoscere e di accogliere la sua volontà divina. Coloro che accoglieranno la volontà di Dio e la metteranno in pratica saranno «santi e immacolati», partecipi della «eredità fra i santi».

Vangelo: Gesù Cristo «è per essenza la Verità increata, quindi è la Verità eterna, non creata ma generata dal Padre. Per mezzo di lui però sono venute tutte le verità create, che sono partecipazioni e riflessi della prima Verità, e che risplendono nelle anime sante» (San Tommaso d’Aquino).

Dal libro della Sapienza 24,1-4.12-16 (I Lettura): La sapienza fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria. Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca, dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria, in mezzo al suo popolo viene esaltata, nella santa assemblea viene ammirata, nella moltitudine degli eletti trova la sua lode e tra i benedetti è benedetta, mentre dice: «Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele, affonda le tue radici tra i miei eletti”. Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno. Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere. Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore è la mia eredità, nell’assemblea dei santi ho preso dimora».

Vari aspetti della sapienza - Roberto Tufariello: Secondo la bibbia, la vera sapienza viene da Dio: egli dà all’uomo un cuore capace di «comprendere la differenza fra il bene e il male» (1Re 3,9). Ma gli uomini, come il loro padre Adamo, sono tentati di acquisire da sé la conoscenza del bene e del male (Gen. 3,5-6); a tale sapienza fallace, fondata sulle forze umane, li attira l’antico avversario. A questa tentazione cedono gli scribi, che giudicano ogni cosa con criteri umani e non in base alla legge di Dio (Cf. Ger. 8,8), e i consiglieri del re, che invece di ispirarsi a una retta sapienza fanno una politica del tutto umana (Cf. Is. 29,15ss.; 30,1ss.).
Contro questi sapienti menzogneri e ingannatori insorgono i profeti risolutamente (Is. 5,21); affermano che Dio farà perire la loro sapienza (Is. 29,14), perché non è fondata sulla parola divina (Ger. 8,9); tale parola, infatti, è la sola sorgente di autentica sapienza: gli insensati se ne accorgeranno a proprie spese, ma troppo tardi (Is. 29,24).
Il sapiente della bibbia cerca di condurre la propria vita in modo da ottenere la felicità. Egli conosce il mondo circostante e i suoi limiti (Cf. Prov. 13,7; Eccli. 13,21 ss.); conosce il cuore umano e ciò che gli pro­cura gioia o dolore (Cf. Prov. 13,12; 14,13; Eccle. 1,2-6). Egli traccia regole di condotta per i suoi discepoli: prudenza, moderazione nei desideri, lavoro, umiltà, ponderazione, modestia, lealtà... Tutta la morale del decalogo passa nei suoi consigli pratici: insegna l’elemosina (Eccli. 7,32 ss.), il rispetto della giustizia (Prov. 11,1; 17,15), l’amore dei poveri (Prov. 14,31; 17,5; Eccli. 4,1-10). Coloro che accolgono il consiglio del saggio acquistano la sapienza (Prov. 8,33; 19,20; 28,26). Questa è come un tesoro nascosto (Giob. 28,18; Prov. 3,15), che si deve acquistare vendendo tutto il resto (Prov. 4,7; 16,16). Tale sapienza però è frutto non solo dello sforzo e dell’esperienza, ma viene dall’alto.
Il saggio si è formato una sua concezione della vita. Senza cessare di essere attento alle sorti del popolo di Dio (Eccli. 44-50; 36,1-17; Sap. 10-12; 15-19), egli si interessa soprattutto della vita degli individui. Esalta la grandezza dell’uomo (Eccli. 16,24-17,14), ma è cosciente anche della sua miseria (40,1-11), della sua angoscia di fronte al dolore e alla morte (Giob. 7, 6; Eccle. 3; Eccli. 41,1-4), della sua inquietudine di fronte ai problemi che pone l’esistenza (Giob. 14, 1-12; 17; Eccle. 1,4-8; Eccli. 18,8-14) o che suscita la realtà stessa di Dio (Giob. 10; 23; 30,20-23).
Anche il problema della retribuzione viene affrontato dai saggi d’Israele. Consapevoli che le soluzioni tradizionali apparivano in parte ingiuste (Giob. 9,22-24; 21,7-26; Eccle. 7,15; 8,14; 9,2-3), essi hanno cercato una più valida risposta: l’hanno formulata gli ultimi autori sapienziali, invitando alla fede nella vita eterna (Sap. 5,15) e nella risurrezione dei corpi (Dan. 12,2-3).
  
Aspetti della sapienza cristiana - A. Barucq e P. Grelot: 1. Sapienza e rivelazione. - La sapienza cristiana, qual è stata descritta, presenta nette affinità con le apocalissi giudaiche: non è in primo luogo regola di vita, ma rivelazione del mistero di Dio (1Cor 2,6ss), vertice della conoscenza religiosa che Paolo chiede a Dio per i fedeli (Col 1,9) e di cui questi possono istruirsi reciprocamente (3,16), «con un linguaggio insegnato dallo Spirito» (1Cor 2,13).
2- Sapienza e vita morale. - Tuttavia l’aspetto morale della sapienza non e eliminato. Alla luce della rivelazione di Cristo, sapienza di Dio, tutte le regole di Condotta, che il VT collegava alla sapienza secondo Dio, acquistano al contrario la pienezza del loro significato. Non soltanto ciò che deriva dalle funzioni apostoliche (1Cor 3,10; 2Piet 3,15); ma anche ciò che concerne la vita cristiana di ogni giorno (Ef 5,15; Col 4 5), in cui bisogna imitare la condotta delle vergini prudenti, non quella delle vergini stolte (Mt 5,1-12). I consigli di morale pratica, enunziati da S. Paolo nelle finali delle sue lettere, sostituiscono qui l’insegnamento dei sapienti antichi. Il fatto è ancora più evidente per la lettera di Giacomo, che, su questo preciso punto, oppone la falsa sapienza alla «sapienza dall’alto» (Giac 3,13-17). Quest’ultima implica una perfetta rettitudine morale. Bisogna sforzarsi di conformarvi i propri atti, pur domandandola a Dio come un dono (Giac 1,5). Questa è la sola prospettiva in cui le conquiste dell’umanesimo possono inserirsi nella vita e nel pensiero Cristiani. L’uomo peccatore deve lasciarsi crocifiggere Con la sua sapienza orgogliosa, se vuol rinascere in Cristo. Se lo fa, tutto il suo sforzo umano assumerà un senso nuovo, perché si effettuerà sotto la guida dello spirito.

Bruno Maggioni: “Il Verbo si è fatto carne”, si legge nel prologo al Vangelo (1,14), “e abitò fra noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria”. Per capire questa fondamentale affermazione può essere utile ricostruire l’ambiente che essa suppone e nei confronti del quale è fortemente polemica. Il mondo greco parlava di una radicale separazione fra l’umano e il divino, lo spirito e la materia. Per il greco l’assunzione della natura umana da parte di Dio era un’assurdità. L’uomo stesso era invitato a liberare il proprio spirito considerato una scintilla divina  imprigionata nella materia e a disagio in un’esistenza che non le è conforme. Non dunque un movimento di immersione nella storia, che è appunto, il cammino del Verbo che si fa carne, ma al contrario un movimento di ascesa verso l’alto. A questo modo di ragionare Giovanni oppone la sua lapidaria affermazione “Il Verbo si è fatto carne”. Nel linguaggio biblico la parola carne non indica il corpo dell’uomo contrapposto all’anima, ma l’uomo intero colto nei suoi risvolti di caducità, debolezza, divenire, sofferenza e morte. Per Giovanni, la serietà dell’incarnazione e un dato centrale per comprendere l’identità di Cristo: vero Dio e vero uomo, si direbbe oggi in altri termini. Nella sua Prima lettera (4,1-6) Giovanni polemizza anche contro alcune tendenze interne alla stessa comunità cristiana, tendenze che probabilmente venivano sollecitate dal desiderio di aggiornare il dato tradizionale della fede per poter più facilmente dialogare con la cultura dell’epoca. Certuni sostenevano che il Cristo non avesse veramente assunto la natura umana, ma se ne fosse semplicemente rivestito per rendersi visibile e mostrarsi all’uomo. A queste tendenze teologiche Giovanni oppone il dato della tradizione: “Ogni spirito che riconosce che Gesù è venuto nella carne è da Dio”.
La piena solidarietà del divino e dell’umano, non è, però, ancora sufficiente a definire l’identità della persona di Gesù. C’è un altro aspetto essenziale da prendere in considerazione: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (1,1). Affermazione che si può parafrasare in questo modo: il Verbo esiste da sempre (di quel tipo di esistenza - “era” - che è proprio di Dio e si distingue dall’esistenza della creatura, che è espressa col verbo essere fatto, divenire) ed esiste vicino e rivolto al Padre. “Rivolto al Padre”, e non soltanto vicino, è una sfumatura che è presente nel testo greco, e che purtroppo le traduzioni italiane generalmente trascurano. L’evangelista vuol dirci che nella sua essenza più intima il Figlio è relazione, ascolto, slancio, obbedienza, perennemente rivolti al Padre. Questo è talmente importante che l’evangelista lungo il Vangelo approfitta di ogni occasione per metterlo in luce. Il Gesù di Giovanni non è solo il Figlio incarnato, inviato al mondo e che ha assunto pienamente la condizione di uomo, è il Figlio obbediente che - divenuto uomo - continua a vivere nella sua esistenza umana la sua più intima vocazione, che è l’obbedienza e l’ascolto del Padre. L’obbedienza dell’uomo Gesù è la trascrizione storica della sua condizione di Figlio, la riproduzione fra noi di quell’atteggiamento di “rivolto al Padre” che egli vive da sempre in seno alla Trinità. Per questo Gesù è la “trasparenza” del Padre. E per questo è portatore di una rivelazione decisiva, nell’ascolto o nel rifiuto della quale l’uomo gioca il proprio destino.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Secondo la bibbia, la vera sapienza viene da Dio: egli dà all’uomo un cuore capace di «comprendere la differenza fra il bene e il male»” (Roberto Tufariello).  
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Questo sacramento agisca in noi, Signore Dio nostro,
ci purifichi dal male e compia le nostre aspirazioni
di giustizia e di pace.
Per Cristo nostro Signore.




4 Gennaio 2020

FERIA PROPRIA

1Gv 3,7-10; Sal 97 (98); Gv 1,35-42

Colletta: Dio onnipotente, il Salvatore che tu hai mandato, luce nuova all’orizzonte del mondo, sorga ancora
e risplenda su tutta la nostra vita. Egli è Dio, e vive e regna con te... 

Nel brano evangelico possiamo trovarvi una traccia per un cammino vocazionale: cercare Gesù è andare da lui, vedere dove abita, stare con lui e ascoltare la sua Parola. Ma non può essere un possesso egoistico, perché l’incontro con il Verbo deve essere testimoniato; deve far nascere nel cuore dei discepoli il desiderio e lo zelo di condurre a Dio gli uomini. I credenti che hanno incontrato il Cristo sono i testimoni dell’Amore: tutti i battezzati, come Giovanni Battista, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2), devono indicare al mondo l’Agnello di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,35-42: In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì  che, tradotto, significa maestro, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia», che si traduce Cristo,  e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa», che significa Pietro.

Il brano del Vangelo può essere diviso in due parti. Nella prima, Giovanni rende testimonianza a Gesù suscitando la vocazione di Andrea e di un secondo discepolo che non viene nominato nel Vangelo; nella seconda parte, fragrante di genuino sapore missionario, Andrea, affascinato da Gesù, lo annuncia al fratello Simone che viene a sua volta conquistato al Cristo.
«Giovanni stava con due dei suoi discepoli e,  fissando lo sguardo su Gesù»: il verbo emblépein indica l’atto di guardare con attenzione, cercando di andare in profondità, scrutando l’anima e il cuore.
Il quarto vangelo poi lo dirà di Gesù, il quale poserà il suo sguardo su Simone (Cf. Gv 1,42; Lc 22,61). I vangeli ricorderanno anche lo sguardo di Gesù che si poserà sul giovane ricco. Marco addirittura annoterà: «Gesù, fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10,21).
Giovanni guarda con attenzione Gesù che passava: che venga detto che Gesù camminasse è un particolare sul quale l’evangelista Giovanni insiste molto in quanto con esso vuole sottolineare l’umanità di Gesù: «questi è un vero uomo, che cammina con i piedi, come farà il paralitico guarito alla piscina di Betzatà [...]. Si osservi inoltre il contrasto tra l’atteggiamento statico del Battista, ritto in piedi [Gv 1,35] e quello dinamico di Gesù. Questi è in cammino per illuminare gli uomini e invitarli a credere nella luce [Cf. Gv 12,35s]. Gesù è in cammino verso la croce e invita i discepoli a seguirlo sul Golgota [Cf. Gv 12,24ss]. Gesù è in cammino e sta per chiamare i primi discepoli ad incamminarsi con lui [Gv 1,39] e a seguirlo [Gv 1,43]» (SALVATORE ALBERTO PANIMOLLE).
L’espressione Ecco l’agnello di Dio è gravida di un duplice simbolismo, che ha profonde radici nella teologia dell’Antico Testamento: il primo rimanda all’agnello pasquale che viene immolato nel tempio alla vigilia di Pasqua e al quale non doveva venir spezzato alcun osso (Giovanni collocherà la morte di Gesù in questo contesto sacrificale); l’altro riconduce al servo sofferente che porta su di sé il peccato del mondo e che era stato preannunciato da Isaia: «... era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca... egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (Is 53,1ss).
Una interpretazione dettata dal fatto che la parola agnello, talià, significa tanto servo quanto agnello: Gesù è l’agnello di Dio, il Servo sofferente, colui che toglie il peccato del mondo (Cf. Gv 1,29).
«Venite e vedrete»: il verbo vedere ricorre molte volte nel Vangelo e nelle lettere di Giovanni come passaggio al credere e alla testimonianza. Si possono ricordare, tra i tanti, almeno tre passi. Il primo è Gv 1,34: «Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio». Il secondo brano è Gv 19,35: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate». Il terzo è l’ampia professione di fede dell’apostolo Giovanni: «... quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza... -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1ss).
Questo vedere suscita o rafforza la fede, ma «non porta mai alla visione diretta e definitiva di Dio. “Dio nessuno l’ha visto”, insiste il IV Vangelo [cf 1,18; 5,37; 6,46]; i discepoli possono “vedere” Gesù, e solo attraverso lui riconoscere il Padre [cf 14,7.9]. Questo riconoscimento è reale solo se messo in pratica dall’ascolto della parola di Dio: “io, dice Gesù, parlo di quello che ho visto presso il Padre, voi dunque fate quello che avete udito dal Padre vostro” (8,38). È proprio l’ascolto della Parola la condizione normale per venire alla fede: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” [Gv 20,29]» (Clara Achille Cesarini).
Andrea e il discepolo innominato si fermano, ascoltano... la Parola prima che alle loro menti si rivela ai loro cuori... essi comprendono che Gesù è il Messia e ne diventano gli annunciatori, oltre che i discepoli. I frutti sono immediatamente abbondanti. Andrea conduce il fratello Simone a Gesù e a lui tocca fare un’esperienza ancora più esaltante: scrutato, amato da Gesù fin dal primo momento, viene trasformato nel cuore, nella mente e nell’anima, al punto che riceve un nome nuovo: Cefa, che significa Pietro. Simone è la roccia sulla quale Cristo edificherà la sua Chiesa «e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16,13-19).

Ecco l’agnello di Dio - Giuseppe Barbaglio: Come altri animali, nei riti sacrificali dell’Antico Testamento l’agnello era la vittima offerta in olocausto espiatorio a Dio (cf. per es. Lv 9,3). Aveva invece un ruolo del tutto singolare nel rito della cena pasquale (Es 12,1-16).
La sera del 14 del mese di Nisan gli israeliti uccidevano l’agnello, o il capretto, scelto quattro giorni prima con oculatezza, dovendo essere senza alcun difetto, maschio, di un anno. Lo si arrostiva per bene e di notte lo si mangiava con pani azzimi ed erbe amare. La celebrazione aveva il preciso significato di commemorazione dello scampato pericolo in terra egiziana, quando Jahvé colpì i primogeniti d’Egitto, risparmiando le case degli ebrei con gli stipiti e l’architrave tinti del sangue dell’agnello.
Ed è risaputo che Israele attribuiva ai suoi riti di «memoria» storica una pregnanza tutta particolare: i partecipanti attualizzavano infatti la portata salvifica degli eventi commemorati, nel nostro caso del riscatto dalla schiavitù egiziana. La tradizione giudaica poi è giunta ad attribuire esplicitamente al sangue dell’agnello pa­squale valore salvifico. «In virtù del sangue dell’alleanza della circoncisione e in virtù del sangue della pasqua, io vi ho liberati dall’Egitto» (Pirqè R. Eliezer 29).
Ora, nel Nuovo Testamento, tutto intento ad approfondire ed esprimere il mistero della persona di Gesù Cristo, si identifica senz’altro l’agnello pasquale con Cristo, o meglio si afferma che questi è per i credenti l’agnello pasquale. Ne fa fede anzitutto Paolo: «E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (1Cor 5,7). Ma l’apostolo si mostra qui debitore alla tradizione cristiana primitiva. Dunque è alla chiesa degli anni quaranta che dobbiamo questa interpretazione tipologica dell’agnello pasquale. Sotto forma di paragone poi la prima lettera di Pietro proclama che i credenti sono stati redenti «con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1,18-19). In questo passo però, oltre la sottolineatura del valore espiatorio della morte di Cristo, si accentua l’innocenza della vittima.
Comunque sono gli scritti giovannei che più hanno sviluppato tale tipologia cristologica. Il quarto vangelo attribuisce grande importanza ad un particolare apparentemente insignificante della passione di Cristo: al crocifisso non furono spezzate le gambe (19,33). In realtà, l’evangelista vi scorge il compimento profetico del testo della prescrizione del libro dell’Esodo secondo cui non dovevano essere spezzate le ossa dell’agnello pasquale (Es 12,46), testo inteso quale preannuncio del futuro: «Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso» (19,36). A questo scopo Giovanni sottolinea che Gesù morì in croce la vigilia della pasqua ebraica (18,28; 19,14.31), esattamente quando si uccidevano gli agnelli della celebrazione pasquale. In breve, è il crocifisso il vero agnello pasquale per i credenti che per grazia hanno realizzato il nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà e nell’eucaristia, nuova pasqua, celebrano l’evento liberatore. Ma già all’inizio del suo vangelo Giovanni aveva presentato in questi termini il contenuto della testimonianza del Battista a favore di Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (1,29; cf. 1,36). Con probabilità vi si allude all’agnello pasquale, che però non aveva valore di sacrificio espiatorio. In realtà, vuol dire Giovanni, Cristo supera di molto la portata dei riti dell’Antico Testamento; egli libera il mondo dalla potenza del peccato e la sua morte costituisce il vero e definitivo sacramento di salvezza.
L’umanità peccatrice, impossibilitata da se stessa, cioè con i suoi sacrifici, a liberarsi, riceve in dono da Dio stesso Gesù come vittima sacrificale capace di ottenere il perdono dei peccati. Si spiega così la singolarità della formula giovannea: «agnello di Dio». Diventa allora possibile che l’evangelista si riferisca non solo all’agnello pasquale, ma anche al servo sofferente di Dio, paragonato a un agnello condotto al macello (Is 53,7) e portatore del peccato della moltitudine umana (Is 53,12).

E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù - Pastores dabo vobis 38: Certamente la vocazione è un mistero imperscrutabile, che coinvolge il rapporto che Dio instaura con l’uomo nella sua unicità e irripetibilità, un mistero che viene percepito e sentito come un appello che attende una risposta nel profondo della coscienza, in quel «sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria». Ma ciò non elimina la dimensione comunitaria, ed ecclesiale in specie, della vocazione: anche la Chiesa è realmente presente e operante nella vocazione di ogni sacerdote.
Nel servizio alla vocazione sacerdotale e al suo itinerario, ossia alla nascita, al discernimento e all’accompagnamento della vocazione, la Chiesa può trovare un modello in Andrea, uno dei primi due discepoli che si pongono al seguito di Gesù. È lui stesso a raccontare al fratello ciò che gli era accaduto: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)». E il racconto di questa « scoperta » apre la strada all’incontro: «E lo condusse da Gesù». Nessun dubbio sull’iniziativa assolutamente libera e sulla decisione sovrana di Gesù. È Lui che chiama Simone e gli dà un nuovo nome: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”». Ma pure Andrea ha avuto la sua iniziativa: ha sollecitato l’incontro del fratello con Gesù.
«E lo condusse da Gesù». Sta qui, in un certo senso, il cuore di tutta la pastorale vocazionale della Chiesa, con la quale essa si prende cura della nascita e della crescita delle vocazioni, servendosi dei doni e delle responsabilità, dei carismi e del ministero ricevuti da Cristo e dal suo Spirito. La Chiesa, come popolo sacerdotale, profetico e regale, è impegnata a promuovere e a servire il sorgere e il maturare delle vocazioni sacerdotali con la preghiera e con la vita sacramentale, con l’annuncio della Parola e con l’educazione alla fede, con la guida e la testimonianza della carità.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La Chiesa, come popolo sacerdotale, profetico e regale, è impegnata a promuovere e a servire il sorgere e il maturare delle vocazioni sacerdotali con la preghiera e con la vita sacramentale, con l’annuncio della Parola e con l’educazione alla fede, con la guida e la testimonianza della carità” (Pastores dabo vobis).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, che ci hai accolti al tuo sacro convito,
donaci un’esperienza sempre più viva del tuo amore,
perché rimaniamo in perenne rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.





3 Gennaio 2020

FERIA PROPRIA

1Gv 2,29-3,6; Sal 97 (98); Gv 1,29-34

Colletta: O Dio, tu hai voluto che l’umanità del Salvatore, nella sua mirabile nascita dalla Vergine Maria, non fosse sottoposta alla comune eredità dei nostri padri; fa’ che liberati dal contagio dell’antico male possiamo anche noi far parte della nuova creazione, iniziata da Cristo tuo Figlio. Egli è Dio, e vive e regna con te...

Il Battista è immagine del discepolo che progredisce nella fede e nella conoscenza del Cristo. Il Precursore non lo conosceva, poi vede in Gesù il Messia sofferente, colui che battezza in Spirito Santo e infine il Figlio di Dio: è il cammino di fede che tutti i credenti devono percorrere. Il titolo di “agnello di Dio” è «la prima confessione cristologica del vangelo e rimanda al Servo di JHWH di Isaia 53,6-7, figura del popolo d’Israele le cui sofferenze sono salvezza per “molti”. In questo modo l’evangelista lascia intravedere fin dall’inizio il destino di morte di Gesù» (LA BIBBIA, Via Verità e Vita).

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,29-34: In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Ecco l’agnello di Dio - M.-É. Boismard: Allorché Dio ebbe deciso di liberare il suo popolo schiavo degli Egiziani, ordinò agli Ebrei di immolate per ogni famiglia un agnello «senza difetti, maschio, di un anno» (Es 12,5), di mangiarlo alla sera e segnare col suo sangue gli stipiti della porta. Grazie a questo «segno» essi sarebbero stati risparmiati dall’angelo sterminatore che veniva a colpire tutti i primogeniti degli Egiziani. Arricchendo il tema primitivo, in seguito la tradizione giudaica diede un valore redentore al sangue dell’agnello: «In virtù del sangue dell’alleanza della circoncisione e in virtù del sangue della Pasqua, io vi ho liberati dall’Egitto» (Pirge R. Eliezer, 29; cfr. Mekhilta su Es 12). Grazie al sangue dell’agnello pasquale gli Ebrei sono stati riscattati dalla schiavitù d’Egitto e quindi hanno potuto diventare «nazione consacrata», «regno di sacerdoti» (Es 19,6), legati a Dio da un’alleanza e governati dalla legge di Mosè.
 La tradizione cristiana ha visto in Cristo «il vero agnello» pasquale (prefazio della Messa di Pasqua), e la sua missione redentrice è ampiamente descritta nella catechesi battesimale soggiacente alla prima lettera di Pietro, ed alla quale fanno eco gli scritti giovannei e la lettera agli Ebrei. Gesù è l’agnello (1Piet 1,19; Gv 1,29; Apoc 5,6) senza difetto (Es 12,5), cioè senza peccato (1Piet 1,19; Gv 8,46; 1Gv 3,5; Ebr 9,14), che riscatta gli uomini a prezzo del suo sangue (1Piet 1,18s; Apoc 5,9s; Ebr 9,12-15). In tal modo egli li ha liberati dalla «terra» (Apoc 14,3), dal mondo malvagio dedito alla perversione che deriva dal culto degli idoli (1Piet 1,14.18; 4,2s), cosicché ormai essi possono evitare il peccato (1Piet 1,15s; Gv 1,29; 1Gv 3,5-9) e formare il nuovo «regno di sacerdoti», la vera «nazione consacrata» (1Piet 2,9; Apoc 5,9s; cfr. Es 19,6), offrendo a Dio il culto spirituale di una vita irreprensibile (1Piet 2,5; Ebr 9,14). Essi hanno lasciato le tenebre del paganesimo per la luce del regno di Dio (1Piet 2,9): questo è il loro esodo spirituale. Avendo, grazie al sangue dell’agnello (Apoc 12,11), vinto Satana, di cui il faraone era il tipo, essi possono intonare «il cantico di Mosè e dell’agnello» (Apoc 15,3; 7,9s.14-17; cfr. Es 15) che esalta la loro liberazione.
Questa tradizione, che vede in Cristo il vero agnello pasquale, risale alle origini stesse del cristianesimo. Paolo esorta i fedeli di Corinto a vivere come azzimi, «nella purezza e nella verità», poiché «la nostra pasqua, Cristo, è stato immolato» (1Cor 5,7). Qui egli non propone un insegnamento nuovo su Cristo-agnello, ma si riferisce alle tradizioni liturgiche della Pasqua cristiana, ben anteriori quindi al 55-57, data in cui l’apostolo scriveva la lettera. Stando alla cronologia giovannea, l’evento stesso della morte di Cristo avrebbe fornito il fondamento di questa tradizione. Gesù fu messo a morte la vigilia della festa degli azzimi (Gv 18,28; 19,14.31), quindi il giorno della Pasqua, nel pomeriggio (19,14), nell’ora stessa in cui, secondo le prescrizioni della legge, si immolavano nel tempio gli agnelli. Dopo la morte non gli furono spezzate le gambe come agli altri condannanti (19,33), ed in questo fatto l’evangelista vede la realizzazione di una prescrizione rituale concernente l’agnello pasquale (19,36; cfr. Es 12, 46).

Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni - I Volume): Giovanni è stato spettatore della teofania promessa da Dio, ossia ha visto lo Spirito santo scendere e rimanere su Gesù; quindi può attestare che Gesù è il Messia: E io vedo e rendo testimonianza che questi è l’eletto di Dio (v. 34). In realtà, come abbiamo già accennato, gli oracoli di Isaia presentano il rampollo di Jesse, l’eletto di Dio, ripieno dello Spirito del Signore. Anzi il targum d’Isaia parla esplicitamente del Messia, sul quale riposerà lo Spirito di Dio (T Is 11,1; 42,1). La letteratura giudaica apocrifa contiene la tematica che alla fine dei tempi il Messia possiederà in pienezza lo Spirito di Dio. Il primo libro di Enoc presenta il Messia come l’eletto di Dio, sul quale dimorerà lo spirito di sapienza e lo spirito che dona intelligenza (1Enoc 49,2s). Anzi in qualche testo si dichiara che il Signore concederà il suo Spirito per mezzo del Messia: «(Il Messia) aprirà le porte del paradiso ... e concederà ai santi di mangiare dall’albero della vita e lo spirito di santità sarà in essi» (Test. di Levitico 18,10s). Il Battista, avendo visto con i suoi occhi lo Spirito scendere e rimanere sopra Gesù, può rendere testimonianza che questi è l’eletto di Dio ossia il Cristo (Gv 1,34). L’eletto di Dio è uno dei titoli del Messia. Il Deutero-Isaia ha suggerito questa idea, e la letteratura giudaica ha esplicitato questa identificazione tra il Cristo e l’eletto di Dio. Il primo libro di Enoc parla continuamente del figlio dell’uomo come dell’eletto.
Siccome l’Antico Testamento e più ancora il giudaismo avevano descritto spesso il Messia come l’eletto di Dio, nel quale avrebbe dimorato lo Spirito santo, per il Battista dovette riuscire abbastanza semplice professare la sua fede nella messianicità di Gesù, avendo visto lo Spirito scendere e rimanere su di lui.

Giovanni testimoniò… I testimoni di Gesù - M. Prat e P. Grelot: 1. La testimonianza apostolica. - Per giungere agli uomini la testimonianza assume una forma concreta: la predicazione del vangelo (Mt 24,14). Per portarla a tutto il mondo gli apostoli sono costituiti testimoni di Gesù (Atti 1,8): dovranno attestare solennemente dinanzi agli uomini tutti i fatti avvenuti dal battesimo di Giovanni fino alla ascensione di Gesù, e specialmente la risurrezione che ha consacrato la sua sovranità (1,22; 2,32; ecc.). La missione di Paolo viene definita negli stessi termini: sulla via di Damasco egli è stato costituito testimone di Cristo dinanzi a tutti gli uomini (22,15; 26,16); in terra pagana egli attesta dovunque la risurrezione di Gesù ( Cor 15,15), e la fede nasce nelle comunità con l’accettazione di questa testimonianza (2Tess 1,10; 1Cor 1,6). Stessa identificazione del vangelo e della testimonianza negli scritti giovannei. Il racconto evangelico è un’attestazione data da un testimone oculare (Gv 19,35; 21,24); ma la testimonianza, ispirata dallo Spirito (Gv 16,13), verte pure sul mistero che i fatti nascondono: il mistero del Verbo di vita venuto nella carne (l Gv 1,2; 4,14). I credenti che hanno accettato questa testimonianza apostolica hanno ormai in sé la testimonianza stessa di Gesù, che è la profezia dei tempi nuovi (Apoc 12,17; 19,21). Perciò i testimoni incaricati di trasmetterla riprendono i tratti dei profeti antichi (11,3-7).
2. Dalla testimonianza al martirio. - La funzione dei testimoni di Gesù è messa ancor più in evidenza quando devono rendere testimonianza dinanzi alle autorità ed ai tribunali, secondo la prospettiva che Gesù apriva già ai Dodici (Mc 13,9; Mt 10,18; Lc 21,13s). Allora l’attestazione assume un carattere solenne, ma prelude sovente alla sofferenza. Di fatto, se i credenti sono perseguitati, si è «a motivo della testimonianza di Gesù» (Apoc 1,9). Stefano per primo ha suggellato la sua testimonianza con il suo sangue versato (Atti 22,20). La stessa sorte attende quaggiù i testimoni del vangelo (Apoc 11,7): quanti saranno sgozzati «per la testimonianza di Gesù e la parola di Dio» (6,9; 17,6)! Babilonia, la potenza nemica che si accanisce contro la Città celeste, si inebrierà del sangue di questi testimoni, di questi martiri (17,6). Ma riporterà soltanto una vittoria apparente. In realtà saranno essi ad aver vinto, con Cristo, il diavolo, «mediante il sangue dell’agnello e la parola della loro testimonianza» (12, 11). Il martirio è la testimonianza della fede consacrata dalla testimonianza del sangue.   

Testimonianza cristiana - Testimonianza di vita e dialogo - Ad gentes 10-11: La Chiesa, che da Cristo è stata inviata a rivelare ed a comunicare la carità di Dio a tutti gli uomini ed a tutti i popoli, comprende che le resta ancora da svolgere un’opera missionaria ingente. Ben due miliardi di uomini infatti - ed il loro numero cresce di giorno in giorno - uniti in grandi raggruppamenti e determinati da vincoli culturali stabili, da tradizioni religiose antiche o da salde relazioni sociali, o non hanno ancora o hanno appena ascoltato il messaggio evangelico [...].
È necessario che la Chiesa sia presente in questi raggruppamenti umani attraverso i suoi figli, che vivono in mezzo ad essi o ad essi sono inviati. Tutti i cristiani infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; sicché gli altri, vedendone le buone opere, glorifichino Dio Padre e comprendano più pienamente il significato genuino della vita umana e l’universale legame di solidarietà degli uomini tra loro.
Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come membra di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale. Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio. Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio salvatore.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Vangelo)
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Dio, nostro Padre, che in questo sacro convito
ci hai nutriti del corpo e sangue del tuo Figlio,
fa’ che contempliamo nella luce della tua gloria
il mistero che ora celebriamo nella fede.
Per Cristo nostro Signore.



 2 Gennaio 2020


SANTI BASILIO E GREGORIO NAZIANZENO - MEMORIA 

1Gv 2,22-28; Sal 97 (98); Gv 1,19-28
  
Dal Martirologio: Memoria dei santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, vescovi e dottori della Chiesa.
Basilio, vescovo di Cesarea in Cappadocia, detto Magno per dottrina e sapienza, insegnò ai suoi monaci la meditazione delle Scritture e il lavoro nell’obbedienza e nella carità fraterna e ne disciplinò la vita con regole da lui stesso composte; istruì i fedeli con insigni scritti e rifulse per la cura pastorale dei poveri e dei malati; morì il primo di gennaio.
Gregorio, suo amico, vescovo di Sásima, quindi di Costantinopoli e infine di Nazianzo, difese con grande ardore la divinità del
Verbo e per questo motivo fu chiamato anche il Teologo.
Si rallegra la Chiesa nella comune memoria di così grandi dottori.

Colletta: O Dio, che hai illuminato la tua Chiesa con l’insegnamento e l’esempio dei santi Basilio e Gregorio Nazianzeno, donaci uno spirito umile e ardente, per conoscere la tua verità e attuarla con un coraggioso programma di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

Questa è la testimonianza di Giovanni: l’occasione per rendere testimonianza alla luce (Gv 1,7), da parte del Battista, è data dalle domande dei Giudei, i quali vogliono conoscere la verità sulla persona del battezzatore. Gli inviati dei Giudei, i sacerdoti e i levìti, praticamente, a motivo della crescente notorietà del Battista, della sua predicazione e del suo apostolato, vogliono avere degli elementi probanti per discernere se si tratti di un mestatore o di un messaggero di Dio. Forse perché tra i seguaci, ma anche fuori da questa cerchia, serpeggiava la segreta speranza che Giovanni fosse il Messia. Lo rivela la risposta che Giovanni dà alla prima domanda dei suoi interlocutori: «Tu, chi sei?», «Io non sono il Cristo». È il primo tentativo di allontanare dalla sua persona le speranze messianiche tanto attese dal popolo. Segue una seconda domanda: «Sei tu Elia?», a cui il Battista risponde: «Non lo sono». A un secco no di Giovanni segue la terza domanda: «Sei tu il profeta?». Anche a questa domanda Giovanni risponde con un no deciso. Dopo tre risposte negative, all’incalzare degli inviati, arriva finalmente la risposta positiva: «Io sono voce di uno che grida nel deserto». L’attenzione quindi viene spostata perentoriamente sul vero Messia che è già in mezzo al popolo, ma non ancora manifestato: «In mezzo a voi sta uno che non conoscete». Bisogna, dunque, disporsi ad accoglierlo, con la conversione e la penitenza cui allude il battesimo di Giovanni.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,19-28: Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elìa?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elìa, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Questa è la testimonianza - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni - I Volume): Con la sua testimonianza, il Battista ha preparato la via del Signore, ossia ha indicato con il dito chi è il Cristo. il rivelatore; quindi ha predisposto il cuore del popolo di Dio a credere nel Verbo-luce (Gv 1,7). Il precursore infatti è venuto a battezzare con acqua, affinché il Messia fosse rivelato a Israele (Gv 1,31).
L’opera preparatoria di Giovanni consiste quindi nel presentare il rivelatore escatologico, l’eletto di Dio, l’agnello Dio che distrugge il peccato, affinché tutti possano accogliere la sua persona e la sua parola. Perciò a livello redazionale il “Kyrios” di questo passo indica Gesù, ossia è riferito al Messia esaltato alla destra del Padre.
Come disse il profeta Isaia (v. 23). La missione del Battista rappresenta un adempimento dell’oracolo veterotestamentario. Il compimento della profezia isaiana da parte di Giovanni è ricordata esplicitamente nell’epilogo del ministero pubblico di Gesù, dove si mette in risalto l’incredulità dei giudei, non ostante gli straordinari segni operati da Gesù (Gv 12,38ss). L’adempimento degli oracoli di Isaia sembra quindi formare una seconda inclusione della rivelazione pubblica di Gesù (Gv 1,19ss; 12,37ss), come il prologo (Gv 1,1-18) costituisce una prima inclusione con l’ultimo brano della prima parte del vangelo giovanneo (Gv 12,44-50).

La testimonianza di Giovanni - Henri van den Bussche (Giovanni): Tra le diverse testimonianze del Battista, Giovanni sceglie, per metterla in rilievo, la testimonianza pubblica pronunciata di fronte agli inviati ufficiali del giudaismo. Incontro certamente drammatico: l’inviato ufficiale di Dio messo a confronto coi mandatari del Popolo di Dio! L’esito sarà deludente e Giovanni non omette di segnalare questo insuccesso nel quale vede il presagio del rifiuto definitivo. Il carattere ufficiale di questi approcci è chiaramente sottolineato. Invece di limitarsi a indicare i messaggeri col termine generico di «Giudei», egli ci tiene a precisare che si tratta di sacerdoti e di leviti, in breve, l’elite di Israele. Mentre parla spesso dei Giudei e anche dei farisei e delle autorità, cita eccezionalmente i sacerdoti. Questa volta essi rappresentano le autorità religiose che risiedono a Gerusalemme e sono incaricati di una missione ufficiale: fare un’inchiesta sull’ortodossia del movimento suscitato dal Battista, stendere un verbale (1,19.22). La risposta del Battista è riferita come una dichiarazione ufficiale (homologein). Colui che risponde loro non tiene conto della sua opinione personale, ma consapevole di rivolgersi à mandatari ufficiali, parla come inviato ufficiale di Dio, venuto precisamente per manifestare il Messia a Israele (v. 31), per mostrarglielo presente. Compito senza uguali nella storia della salvezza. Poco importa per l’evangelista il momento preciso in cui è stata formulata questa testimonianza; essa si situa chiaramente dopo il battesimo di Gesù. Ciò che merita più attenzione è il posto che egli occupa nello sviluppo della storia della salvezza. Ben più di un semplice profeta tra gli altri, di un semplice testimone che si rivolge all’uomo qualunque, la testimonianza del Battista si situa nel momento preciso in cui la storia di Israele passa dall’attesa al compimento. Testimone ufficiale del Messia per Israele, egli riprenderà la parola, ma come teste a carico questa volta, nel momento in cui Israele respingerà il suo Messia (3,22-36). Il carattere ufficiale della testimonianza richiede che si precisi il luogo dell’incontro: Betania o Betaraba (1,28). Questo racconto ha l’aspetto di un documento giuridico. In seguito, si farà riferimento a questa disposizione ufficiale, che sarà conservata come una deposizione a carico negli archivi d’Israele.

I testimoni di Gesù - M. Prat e P. Grelot: 1. La testimonianza apostolica. - Per giungere agli uomini la testimonianza assume una forma concreta: la predicazione del vangelo (Mt 24,14). Per portarla a tutto il mondo gli apostoli sono costituiti testimoni di Gesù (Atti 1,8): dovranno attestare solennemente dinanzi agli uomini tutti i fatti avvenuti dal battesimo di Giovanni fino alla ascensione di Gesù, e specialmente la risurrezione che ha consacrato la sua sovranità (1,22; 2,32; ecc.). La missione di Paolo viene definita negli stessi termini: sulla via di Damasco egli è stato costituito testimone di Cristo dinanzi a tutti gli uomini (22,15; 26,16); in terra pagana egli attesta dovunque la risurrezione di Gesù (1Cor 15,15), e la fede nasce nelle comunità con l’accettazione di questa testimonianza (2Tess 1,10; 1Cor 1,6). Stessa identificazione del vangelo e della testimonianza negli scritti giovannei. Il racconto evangelico è un’attestazione data da un testimone oculare (Gv 19,35; 21,24); ma la testimonianza, ispirata dallo Spirito (Gv 16,13), verte pure sul mistero che i fatti nascondono: il mistero del Verbo di vita venuto nella carne (1Gv 1,2; 4,14). I credenti che hanno accettato questa testimonianza apostolica hanno ormai in sé la testimonianza stessa di Gesù, che è la profezia dei tempi nuovi (Apoc 12,17; 19,21). Perciò i testimoni incaricati di trasmetterla riprendono i tratti dei profeti antichi (11,3-7).
2. Dalla testimonianza al martirio. - La funzione dei testimoni di Gesù è messa ancor più in evidenza quando devono rendere testimonianza dinanzi alle autorità ed ai tribunali, secondo la prospettiva che Gesù apriva già ai Dodici (Mc 13,9; Mt 10,18; Lc 21,13s). Allora l’attestazione assume un carattere solenne, ma prelude sovente alla sofferenza. Di fatto, se i credenti sono perseguitati, si è «a motivo della testimonianza di Gesù» (Apoc 1,9). Stefano per primo ha suggellato la sua testimonianza con il suo sangue versato (Atti 22,20). La stessa sorte attende quaggiù i testimoni del vangelo (Apoc 11,7): quanti saranno sgozzati «per la testimonianza di Gesù e la parola di Dio» (6,9; 17,6). Babilonia, la potenza nemica che si accanisce contro la città celeste, si inebrierà del sangue di questi testimoni, di questi martiri (17,6). Ma riporterà soltanto una vittoria apparente. In realtà saranno essi ad aver vinto, con Cristo, il diavolo, «mediante il sangue dell’agnello e la parola della loro testimonianza» (12,11). Il martirio è la testimonianza della fede consacrata dalla testimonianza del sangue.

La testimonianza dei discepoli di Cristo - Lumen gentium 10: Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo «un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo» (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cfr. 1 Pt 3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’Eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Dio di nessuna cosa tanto si rallegra, come della conversione e della salvezza dell’uomo” (Sam Gregorio Nazianzeno).
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che ci hai nutrito di Cristo, pane vivo,
formaci alla scuola del suo Vangelo, perché
sull’esempio dei Santi Basilio e Gregorio Nazianzeno
conosciamo la sua verità e la testimoniamo nella carità fraterna.
Per Cristo nostro Signore.