9 Luglio 2019

Martedì XIV Settimana del T. O.

Gen 32,23-33; Sal 16 (17); Mt 9,32-38


Colletta: O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall’oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Siamo al termine del nono capitolo, e la guarigione del muto indemoniato avviene subito dopo la guarigione di due ciechi (Mt 9,27-31). E forse lo stupore delle folle, «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!», deve riferirsi anche a questo miracolo. Dare la vista ai ciechi era un dono particolarissimo che procedeva soltanto da Dio (cf. Gv 9,32), ma anche la cacciata dei demoni era un “prodigio” che meravigliava l’uomo comune. Ma ancora una volta in mezzo la folla c’è chi rema al contrario, i farisei, che per vizio o per hobby, senza mai stancarsi, tallonano Gesù da mane a sera. Credendo di poter mettere Gesù con le spalle al muro, alzano la voce e dall’alto della loro sapienza fanno sentire la loro versione: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni». Matteo tronca qui l’incidente, ma vedi la risposta di Gesù alla malevola provocazione dei farisei in Mt 12,22-24, e in Lc 11,14.15.
Il capitolo nono si chiude mettendo in evidenza la compassione di Gesù per le folle, “perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”, e da qui l’invito rivolto ai discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!». Come dire che tutto è dono, anche il sacerdozio: “Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio” (Eb 5,4).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 9,32-38: In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato. E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni». Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!».      

In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato - Rosalba Manes (I Vangeli - Ed. Ancora): [...] viene condotto a Gesù un uomo che presenta un gravissimo disagio: gli manca il dono della parola. Egli non può dialogare con Gesù, e nella sua vita sperimenta il continuo limite di non potersi relazionare. In passato si pensava che la malattia dipendesse dal potere demoniaco. Il testo non fornisce troppi particolari. Si concentra sulla potenza di liberazione di Gesù.
L’uomo viene liberato da Gesù e, nell’istante in cui ha luogo l’esorcismo, recupera l’uso della parola. Di fronte al prodigio della liberazione, la gente che assiste è presa dallo stupore e coglie l’unicità dell’evento: non si è mai vista una cosa simile!
È l’arrivo del nuovo, prefigurato nel detto del «vino nuovo». Molti riescono ad accogliere il vino nuovo in otri nuovi, altri invece, come i farisei, preferiscono custodire l’otre vecchie.
Essi infatti non vogliono cambiare le misure del loro giudizio, i criteri del loro discernimento e non vogliono accogliere la novità di Gesù. Si muovono con sospetto, non riconoscono l’eccezionalità della sua persona, e giudicano la sua attività terapeutica come un artificio diabolico.

Gesù, vincitore di Satana e dei demoni - Jean-Baptiste Brunon e Pierre Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): La vita e l’azione di Gesù si collocano nella prospettiva di questo duello tra due mondi, la cui posta è in definitiva la salvezza dell’uomo. Gesù affronta personalmente Satana e riporta su di lui la vittoria (Mt 4, 11 par.; Gv 12, 31). Affronta pure gli spiriti maligni che hanno potere sull’umanità peccatrice, e li vince nel loro dominio.
Tale è il senso di numerosi episodi in cui sono di scena degli indemoniati; quello della sinagoga di Cafarnao (Mc 1,23-27 par.) e quello di Gadara (Mc 5,1-20 par.), la figlia della sirofenicia (Mc 7, 25- 30 par.) ed il ragazzo epilettico (Mc 9, 14-29 par.), l’indemoniato muto (Mt 12,22 ss par.) e Maria di Magdala (Le 8,2). Per lo più, possessione diabolica e malattia sono mescolate (cfr. Mt 17, 15.18); quindi ora si dice che Gesù guarisce gli indemoniati (Lc 6,18; 7,21) ed ora che scaccia i demoni (Mc 1,34-39). Senza porre in dubbio i casi nettissimi di possessionc (Mc 1, 23 s: 5, 61. bisogna tener conto dell’opinione del tempo, che attribuiva direttamente al demonio fenomeni che oggi rientrano nella psichiatria (Mc 9,20 ss). Bisogna soprattutto ricordare che ogni malattia è un segno della potenza di Satana sugli uomini (cfr. Lc 13,11).
Affrontando la malattia, Gesù affronta Satana; dando la guarigione, trionfa di Satana. I demoni si credevano insediati quaggiù da padroni; Gesù è venuto a perderli (Mc 1,24). Dinanzi all’autorità che egli manifesta nei loro confronti, le folle sono stupefatte (Mt 12,23; Le 4,35 ss). I suoi nemici l’accusano: «Egli scaccia i demoni in virtù di Beelzebul, principe dei demoni» (Mc 3,22 par.); «non sarebbe per caso anch’egli posseduto dal demonio?» (Mc 3,30; Gv 7,20; 8,48 s. 52; 10,20 s). Ma Gesù dà la vera spiegazione: egli scaccia i demoni in virtù dello Spirito di Dio, e ciò prova che il regno di Dio è giunto fino agli uomini (Mt 12,25-28 par.). Satana si credeva forte, ma è scacciato da uno più forte (Mt 12,29 par.).
Ormai gli esorcismi si faranno quindi nel nome di Gesù (Mt 7,22; Mc 9,38 s). Mandando in missione i suoi discepoli, egli comunica loro il suo potere sui demoni (Mc 6,7.13 par.). Di fatto essi constatano che i demoni sono loro soggetti: prova evidente della caduta di Satana (Lc 10,17-20). Questo sarà, in tutti i secoli, uno dei segni che accompagneranno la predicazione del vangelo, unitamente ai miracoli (Mc 16, 17).

Vedendo le folle: Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): v. 36 L’esperienza fatta in Galilea da Gesù e dai suoi apostoli aveva loro rivelato la triste condizione spirituale delle popolazioni. Il maestro ne è profondamente commosso e rattristato; il popolo si trovava come un gregge stanco ed affamato senza le cure premurose di un pastore. Il versetto contiene un’amara allusione alle guide spirituali del tempo, le quali, chiuse in un orgoglio compiacente della propria religiosità, non curavano gli umili ed i semplici.
vv. 37-38 Si passa dall’immagine del gregge a quella della messe (Luca conserva il paragone della messe in un contesto più logico e cronologicamente più esatto; cf. Lc., 10,2). Nei due paragoni (gregge-messe) è soggiacente lo stesso pensiero. Sono egualmente necessari i pastori come pure i mietitori, altrimenti il gregge langue e la messe marcisce. Gesù invita tutti a pregare Dio, affinché si degni suscitare ed inviare degli operai nel campo della raccolta; il Signore provvede quando è pregato. Cristo, come uomo, è limitato; egli non può essere dovunque, né può far giungere a tutti la parola della salvezza, per questo fa chiedere al Padre dei collaboratori. Le parole del Maestro rivelano una sublime concezione dell’apostolato: l’apostolo è un inviato ed un collaboratore scelto da Dio.

Vedendo le folle, ne sentì compassione… La sua compassione è motivata dallo stato pietoso in cui versano le folle: «erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (Cf. Ez 34,2-6; Ger 23,4). Più che sfinitezza (uno stato di estrema stanchezza), il testo greco parla di vessazione (eskulmenoi, vessate; così anche la neovolgata latina: erant vexati): un popolo vessato perché obbligato dalle autorità politico-religose ad osservare leggi troppo fiscali e spesso inutili (Cf. Mt 23,4) e perché sottoposto a continui maltrattamenti dalla potenza militare che aveva invaso la Palestina; praticamente, un popolo tormentato in senso morale e materiale.
La mietitura, un’immagine molto amata dai Profeti e anche da Giovanni il Battista, sta ad indicare il giudizio finale (Cf. Ger 51,33; Mt 3,12; 13,30.39; Mc 4,29; Gv 4,35). Nel brano evangelico sta a designare il ministero apostolico dei Dodici che con quello di Gesù inaugura i tempi ultimi, i tempi della fine. E poiché «la messe è abbondante» e «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), è urgente pregare il «signore della messe perché mandi operai nella sua messe»: ora, «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4), «è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura» (Ap 14,15).
Anche se può sembrare ovvio, va messo in evidenza che Gesù non comanda ai discepoli di essere operai di Dio, ma di pregare. Un particolare che spesso è ignorato da tanti cristiani afflitti da un nervoso attivismo.
Gesù è molto sollecito nell’invitare i suoi discepoli alla preghiera, ma solo in quattro casi questo invito indica uno scopo preciso: 1, la preghiera per i nemici (Cf. Mt 5,44); 2, la preghiera per non entrare in tentazione (Cf. Mt 26,41); 3, la preghiera perché non venga meno la fede di Pietro (Cf. Lc 22,32); 4, la preghiera al padrone della messe perché mandi operai alla sua messe (Cf. anche Lc 10,2). Da qui si evince quanto sia importante la raccomandazione fatta da Gesù ai Dodici.
L’urgenza e la necessità di commuovere con la preghiera «il signore della messe» vuole sollecitare la realizzazione di un’antica profezia: dice il Signore vi «darò pastori secondo il mio cuore, i quali vi guideranno con scienza e intelligenza» (Ger 3,15).  

Ortensio Da Spinetoli (Matteo): Gesù trova i suoi connazionali in una situazione spirituale commiserevole. Israele, fin dalla liberazione egiziana e peregrinazione sinaitica, è il gregge di Jahve. Egli è il pastore per antonomasia del suo popolo, ma si serve anche di inviati, fiduciari, pastori subalterni. Questi hanno trascurato il loro compito, facendo spesso sbandare il gregge (cfr. Ez. 34,1-31; Zac. 10,2). Nell’imminenza dell’era messianica Gesù vede ripetersi il medesimo smarrimento lamentato da Dio nel passato e al posto dei profeti invia i suoi apostoli. Essi non richiamano i pastori al loro dovere ma assumono la loro funzione di guide della nazione. Nel discorso precedente (9, 35-36) Gesù ha parlato di pecore stanche e abbattute, prostrate; ora afferma che sono «perdute». Si tratta evidentemente di un giudizio globale che riguarda non i singoli ma la nazione giudaica, la quale al momento in cui l’evangelista scrive ha già rigettato la salvezza. «Perdute» non ha il senso di «dannate» ma disperse, uscite fuori dall’ovile, quindi in pericolo di smarrirsi, addirittura di finire in qualche precipizio. Il cap. XXIII illustra a quale grado di smarrimento era giunto il popolo israelitico guidato dai suoi falsi pastori. Parallelamente a 9,33-36 il testo ritrae lo stato d’animo, l’ansia di Gesù per i suoi connazionali. L’abbandono spirituale in cui essi si trovano tocca fin nelle profondità il suo animo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!».       
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Dio onnipotente ed eterno,
che ci hai nutriti con i doni della tua carità senza limiti,
fa’ che godiamo i benefici della salvezza
e viviamo sempre in rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.



8 Luglio 2019

Lunedì XIV Settimana del T. O.

Gen 28,10-22a; Sal 90 (91); Mt 9,18-26

Colletta: O Dio, che nell’umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l’umanità dalla sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall’oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

C’è sempre gente che è pronta a fare teatro, a drammatizzare ogni evento della vita. Così, mentre il padre crede e spera, i flautisti, parenti, amici e affini sono pronti per la sceneggiata, e chissà come ci saranno rimasti male nel vedere che la bambina in verità “non era morta ma dormiva”. Nella nostra povera vita ci sono eventi incalzanti che non lasciano spazio a soluzioni, se avessimo la fede di quel papà o di quella donna che “aveva perdite da dodici anni”, i lamenti si tramuterebbero in canti di lode, colmi non di strazianti lacrime, ma di gioia. Il Vangelo di Luca della donna che da dodici soffriva di perdite di sangue ci rivela un particolare che è omesso da Matteo: “Mentre Gesù vi si recava, le folle gli si accalcavano attorno. E una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, la quale, pur avendo speso tutti i suoi beni per i medici, non aveva potuto essere guarita da nessuno” (Lc 8,40-43); pur avendo speso tutti i suoi beni per i medici..., eh sì, quando si spengono tutte le speranze umane non resta che toccare il mantello di Gesù: “gli si avvicinò da dietro, gli toccò il lembo del mantello e immediatamente l’emorragia si arrestò” (Lc 8,44). Un piccolo gesto, ma che molte volte abbiamo paura di compiere perché ostinatamente attaccati alle “soluzioni umane”, che spesso, non solo non guariscono, ma aggrovigliano in modo irreversibile le nostre difficoltà.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 9,18-26: In quel tempo, [mentre Gesù parlava,] giunse uno dei capi, gli si prostrò dinanzi e disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano su di lei ed ella vivrà». Gesù si alzò e lo seguì con i suoi discepoli. Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu salvata. Arrivato poi nella casa del capo e veduti i flautisti e la folla in agitazione, Gesù disse: «Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. E questa notizia si diffuse in tutta quella regione.

Il caso si presentava ormai era senza soluzioni: la fanciulla è morta. La casa del capo della sinagoga, che in Marco e Luca è chiamato Giairo, è sprofondata nel dolore: gli strepiti, i pianti dei parenti e delle prèfiche, accrescono la confusione e il chiasso.
Forse per riportare un po’ di calma, Gesù entrando dice ai piagnoni: «Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme». Le parole di Gesù non devono far credere che si tratta di morte apparente, la fanciulla è veramente morta. Gesù non è ancora entrato nella camera dove era stato composto il cadavere della fanciulla, ma per il fatto che aveva già deciso di restituire alla vita la figlia di Giairo, il presente stato della fanciulla è soltanto temporaneo e paragonabile ad un sonno.
Riecheggiano le parole che Gesù dirà quando gli portano la notizia della morte di Lazzaro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). Questo linguaggio eufemistico è stato adottato dalla Chiesa che lo ha esteso a tutti coloro che «si addormentano nel Signore» (At 7,60; 13,36; 1Cor 7,39; 11,30), in attesa della risurrezione finale (1Ts 4,13-16; 1Cor 15,20-21.51-52).
Per i brontoloni le parole di Gesù sembrano essere fuori posto: come se Egli avesse voluto irridere il dolore dei genitori, dei parenti e degli amici convenuti in quel luogo di dolore.
La reazione però segnala anche un’ottusa ostilità nei confronti di Gesù e sopra tutto mette in evidenza la mancanza di fede nella sua potenza. È la sorte di tutti i profeti (Lc 4,24). Tanta cecità non lo ferma, per cui dopo aver messo alla porta gli increduli piagnoni, entra dove era la bambina, la prende per mano, il gesto abituale delle guarigioni (Mc 1,13.41; 9,27), e la riporta in vita.
La risurrezione della fanciulla è collocata all’apice di una sequenza di miracoli dall’impatto dirompente: la tempesta sedata (Mt 8,23-27), la liberazione dell’indemoniato geraseno (Mt 8,28-34). La vittoria di Gesù sugli elementi della natura impazziti (Sal 88,10), poi sul potere del maligno, e qui infine sulla morte stessa, mettono in luce la potenza del Figlio di Dio.
Oggi, Gesù, pur sedendo alla destra del Padre (Rom 8,34; Ef 1,20), continua ad essere presente nella sua Chiesa: per questa Presenza, i credenti fruiscono della potenza salvifica del Cristo celata misteriosamente nei sacramenti fino a che arrivino «all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

Ed ecco, una donna - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Mentre Gesù si recava alla casa di Jairo una donna gli si avvicinò per toccare il lembo della sua veste. L’infelice soffriva da lungo tempo (dodici anni) di disfunzioni femminili, essendo ella affetta da una emorragia cronica. L’espediente al quale ricorre l’ammalata è suggerito in parte dalla timidità naturale ad ogni donna, l’inferma infatti si sentiva imbarazzata a manifestare il suo male in pubblico, ed in parte dalla condizione di impurità legale in cui si trovava (cf. Levitico, 15, 25-27); una donna quando aveva i suoi fatti periodici o quando soffriva di emorragia era considerata impura dalla legge e, conseguentemente, non poteva essere toccata.
Gli toccò il lembo della vesteκράσπεδον (ebraico: şişith) era una piccola frangia che i pii Ebrei portavano ai quattro angoli del mantello (cf. Numeri, 15,37-41). La donna, nella sua illimitata fiducia, pensa che anche il semplice tocco della piccola frangia all’estremità del mantello è sufficiente a guarirla. La tua fede ti ha sanata; Gesù illumina l’anima della donna; ella non deve credere che la guarigione sia dovuta al tocco materiale della veste, ma alla fiducia avuta da lei nella potenza di Cristo. Ti ha sanata; il greco ha: essere salvato, espressione popolare che equivale a: essere guarito.

Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): In mezzo alla ressa una donna infelice riesce a toccare alle spalle il mantello di Gesù. La sua fede è grande, anche se si manifesta con un gesto che sa di magia. Ma questa fede, questa fiducia semplice e senza parole che si esprime con un toccare appena, viene accolta da Gesù. A differenza di Marco, Matteo fa notare che è la parola di Gesù che opera la guarigione, è la sua volontà e il suo comando e non un effluvio magico che passa nel corpo della donna malata. La sua interpretazione è più spirituale del testo popolare e ingenuo di Marco. Egli vuol prevenire il malinteso che Gesù possa esser visto soltanto come un guaritore, un operatore di meraviglie, dotato di misteriose energie. E importante constatare che nei Vangeli c’è una forza equilibratrice tra i singoli evangelisti, e solo nella visione d’insieme di tutti i racconti si manifesta la verità piena. Gesù sottolinea che è stata la fede a guarire la donna; la fede resta il presupposto e il fondamento dell’opera salvifica di Dio nei confronti dell’uomo. Certo, può essere una fede non ancora adulta, terra terra o più spirituale, ma è fede, in cammino, continuamente in via di sviluppo, «di fede in fede» (cf. Rm 1,17); da una fede sempre più profonda e radicalmente vissuta.

La relazione tra morte e peccato - Giorgio Gozzelino: Il Nuovo Testamento sottolinea vigorosamente che la morte di Gesù porta i segni inconfondibili del peccato sia rispetto alle cause (fu prodotta dalla malvagità umana), sia rispetto agli effetti (ha prodotto la possibilità della liberazione dal male). Partendo da questo fondamento la fede cristiana sostiene la verità di una reale dipendenza della morte umana dal male morale. E ne mostra un riscontro esperienziale, in negativo, nella spaventosa moltiplicazione delle cause di morte prodotta dalle scelte direttamente o indirettamente omicide degli uomini, o nel modo carico di risentimento e ribellione nel quale la morte viene spesso subita; e in positivo, nella straordinaria forza di ispirazione e stimolazione sprigionata dalla morte dei testimoni (o martiri) di una giusta causa.

Il Libro della Sapienza ci suggerisce che la morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e «ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (2,24). L’invidia del diavolo nasce dalla sua eterna dannazione. Nasce dalla sua intima perversione che lo spinge a gioire quando l’uomo pecca. Gioisce perché sa che l’uomo indurendosi nel peccato perde il dono della salvezza, dono che Dio nella sua infinita liberalità e misericordia ha offerto a tutti gli uomini. Salvezza che a lui, principe tenebroso, è per sempre sbarrata.
Come ci ricorda Origene, il diavolo «è sempre con noi: questa è la nostra infelicità e la nostra miseria! Ogni volta che pecchiamo, il nostro avversario esulta di gioia, sapendo che può andar superbo al cospetto del principe di questo mondo che lo ha messo al nostro fianco: egli infatti, avversario di questo o di quell’uomo, è riuscito ad esempio a rendere quest’uomo schiavo del principe di questo mondo per mezzo di questi o di tali altri peccati e delitti».
Al di là di tanta infelicità e miseria, possiamo affermare che la sacra Scrittura, a questo riguardo, rivela tre verità. Innanzi tutto, la morte era contraria ai disegni di Dio: la morte «è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo. Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1008).
Poi, attraversato il tunnel doloroso della morte l’uomo entra in Cielo, realizzazione perfetta di tutte le sue aspirazioni: «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come egli è” [1Gv 3,2], “a faccia a faccia” [1Cor 3,12] [...]. Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata “il cielo”. Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva. Vivere in cielo è “essere con Cristo”» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1023-1025).
Ma per entrare in Cielo bisogna vivere e comportarsi «da cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27).
Infine, la vera felicità dell’uomo non è in questo mondo, ma nell’altro mondo, in cielo quando possederà Dio e da lui sarà posseduto.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
***  La vera felicità dell’uomo non è in questo mondo, ma nell’altro mondo, in cielo quando possederà Dio e da lui sarà posseduto.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Dio onnipotente ed eterno,
che ci hai nutriti con i doni della tua carità senza limiti,
fa’ che godiamo i benefici della salvezza
e viviamo sempre in rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.



7 Luglio 2019 -  XIV Domenica T. O.

Is 66,10-14c; Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20

Colletta: O Dio, che nella vocazione battesimale ci chiami ad essere pienamente disponibili all’annunzio del tuo regno, donaci il coraggio apostolico e la libertà evangelica, perché rendiamo presente in ogni ambiente di vita la tua parola di amore e di pace. Per il nostro Signore Gesù Cristo...

I Lettura - La salvezza che Dio dona al suo popolo è descritta con varie immagini, tutte rigurgitanti gioia e pienezza: succhiare a sazietà dal petto materno; essere inondati da un torrente di prosperità; essere portati in braccio e accarezzati, come fa una mamma coi suoi bimbi; rifiorire come erba fresca. Sono immagini che parlano al cuore del popolo volendo ricordare l’amore e la tenerezza che Dio nutre verso i suoi figli. Il versetto 13 - Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati - mette bene in evidenza la tenerezza materna di Dio che per il suo popolo è «papà» ma spesso «più ancora è madre» (Giovanni Paolo I - Cf. Is 49,15).

Salmo Responsoriale - Gianfranco Ravasi: In cinque strofe (vv. 1-4; 5-7; 8-12; 13-15; 16-20) la comunità e un solista intrecciano le loro voci per evocare paure passate e gioie presenti durante una celebrazione sacrificale di ringraziamento (vv. 13-15). Da tutta la terra sale una sinfonia di lode verso Dio che agisce nel cosmo e nella storia, in particolare attraverso quel grande evento emblematico che è stato l’esodo dalla schiavitù egiziana, il «crogiolo», la «rete» e il «peso» da cui Dio ci ha liberato. La voce corale che ringrazia per il dono della libertà evoca ancora una volta la prova amara passata con una collezione di immagini seriali (vv. 8-12) in cui però brilla quella pittoresca della «cavalcata sul capo» (v. 12), segno di estrema umiliazione e di catastrofica sconfitta. Eppure Dio ci ha sottratto agli zoccoli della cavalleria faraonica, ai piedi degli imperatori, al fuoco e all’acqua del mare. È a questo punto che dal coro si stacca un solista che, come portavoce della comunità, intona un ringraziamento: egli è, forse, il re o il responsabile della comunità che nel suo «io» racchiude il grazie collettivo per lo stupendo dono della libertà.

Seconda Lettura: La consolazione promessa dal Signore al suo popolo ora, «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4), si fa carne nel mistero del Cristo. Gesù è la pace offerta dal Padre a tutti gli uomini, poiché nessuno è escluso dal suo amore. La Croce che ha portato la carne immacolata del Figlio di Dio diventa gioia e vanto di tutti i discepoli del Cristo. Il cristiano, sull’esempio dell’apostolo Paolo e di tutti i testimoni di Gesù crocifisso, deve convincersi che, al fuori di ogni retorica e di ogni trionfalismo, la Croce di Cristo è davvero il suo più grande e unico vanto. Al di fuori della Croce non c’è pace, non c’è salvezza.

Vangelo: Gesù è venuto a portare la pace destinandola a tutti gli uomini. Lo fa intendere anche col numero dei missionari inviati ad annunciare la Parola: secondo i Giudei, i popoli della terra erano settantadue e presumibilmente l’evangelista Luca vuol prefigurare la missione universale alla quale sarà inviata la Chiesa. La missione ha le note della massima sollecitudine svolgendosi «sotto il segno di un’urgenza escatologica: si deve annunziare che il Regno è vicino; non è consentito attardarsi per via negli interminabili saluti caratteristici degli Orientali. È scoccata ormai l’ora della mietitura: tradizionale immagine del “Giorno di Jahvé”, l’intervento definitivo Dio, salvifico e giudiziale al tempo stesso» (Vittorio Fusco).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Luca 10,1-12.17-20: In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi - Dopo la missione dei Dodici (Cf. Lc 9,3-5), Gesù manda settantadue discepoli ad annunziare il regno di Dio che è già vicino. Il numero dei discepoli forse è intenzionale.
Gen 10, nella versione dei Settanta, elenca settantadue nazioni, se Luca si attiene a questo dato il numero dei discepoli inviati vuole indicare l’universalità della missione: la salvezza supera gli angusti confini d’Israele per raggiungere tutti gli uomini. Sono mandati a due a due perché, per la legge mosaica, sono necessari due testimoni per attestare la veridicità di un avvenimento (Cf. Dt 19,15).
I settantadue discepoli sono mandati davanti a Gesù (Lc 9,52), quindi come precursori, e il Regno di Dio che essi annunziano è in relazione con la persona di Gesù.
La missione già si presenta ardua in quanto le forze sono impari: «vi mando come agnelli in mezzo a lupi». I discepoli si trovano come pecore tra i denti affilati dei lupi. E i lupi quando azzannano scarnificano la preda. Una missione tutta in salita. La persecuzione sarà sempre in agguato (Cf. Lc 6,22-23).
Gli inviati avranno in eredità il destino di Colui che li manda nel mondo: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). Non è una probabilità, è pura certezza: «Vi scacceranno dalle sinagoghe, anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). Gli inviati dalla loro parte avranno soltanto lo Spirito Santo: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire: perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12)».
Il loro sangue non sarà sparso invano, testimonierà contro i carnefici, cosicché ricadrà su di essi «tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare» (Mt 23,35).
Gesù esige, data l’urgenza della missione, la massima povertà e anche essenzialità nelle relazioni: non bisogna perdersi in chiacchiere inutili.

Il bon ton del missionario - Innanzitutto egli è un uomo di pace: è colui che porta la pace che per un israelita è la pienezza dei doni divini. Non bisogna vagabondare di casa in casa e di buon grado mangiare quello che sarà messo dinanzi. Una regola d’oro con la quale viene abrogata la distinzione mosaica tra cibi puri e impuri (Cf. Mc 7,19). Ridonare la salute agli infermi entra nell’opera missionaria: con essa si attesta il potere affidato agli inviati.
Gesù è sempre presente e continua a insegnare e a guarire (Cf. Mc 16,20). Se il missionario non viene accolto deve ritirarsi senza recriminare o polemizzare, anche se il ritiro deve essere accompagnato da un gesto molto forte ed eloquente.
Quando i pellegrini giungevano in Terra santa scrupolosamente pulivano i loro piedi per non portare alcuna impurità sul suolo di Dio. Gesù suggerisce di fare il gesto inverso: ai piedi dei missionari non deve restare attaccato alcunché di impuro. Un gesto che diventerà usuale della prima comunità cristiana (Cf. At 13,51).

I settantadue tornarono pieni di gioia: gli inviati tornano pieni di gioia per avere esperimentato la potenza del Nome di Gesù. Ma il Maestro smorza un po’ la loro contentezza. Possono soltanto rallegrarsi per il fatto che i loro nomi «sono scritti nei cieli». Come ricorda san Paolo, la croce, e soltanto la croce, è la ricompensa e la forza del discepolo (Cf. seconda lettura). Invece di aggrapparsi alla gratificazione del loro lavoro apostolico, i cristiani, «abbandonandosi al Padre come il Cristo nel momento supremo della croce [Cf. Lc 23,46; Atti 7,59], restano saldi nella edificazione della Chiesa che il Cristo opera proprio attraverso la loro stessa tribolazione» (Maria Ignazia Danieli). E se questo è l’unico metodo che Cristo usa per edificare la sua Chiesa allora si può comprendere perché scarseggiano gli operai per il suo regno.

Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore; altri traducono: «...cadere come la folgore (cade) dal cielo». Con l’espulsione dei demoni dagli ossessi viene smantellata la potenza nefasta del maligno, Satana è detronizzato e spogliato con autorità del suo potere sul mondo. L’espressione del Maestro indica con una immagine impressionante la sconfitta di Satana, ottenuta dalla affermazione del regno di Dio negli spiriti (cf. Lc., 11,20); l’immagine tuttavia non va eccessivamente forzata, perché ha presente una circostanza ben precisa, cioè: l’opera evangelizzatrice dei discepoli; l’azione missionaria degli inviati ha debellato la forza dominatrice che Satana esplicava in forma incontrastata nel mondo. Come la folgore; con tale immagine non si vuole designare la natura spirituale e celeste di Satana, spirito decaduto dal suo primitivo stato di elevatezza e perfezione, ma la rapidità della sua rovina causata dall’intervento della potenza di Gesù; davanti a lui Satana è fuggito precipitosamente come il rapido saettare di una folgore che si abbatte sulla terra.

Rinaldo Fabris (Il Vangelo di Luca): Ai discepoli, impressionati dall’efficacia dei loro poteri carismatici. Gesù rivela la dimensione profonda del progetto nel quale essi sono inseriti. Si tratta della fine del regno di satana, che retrocede là dove si rivela la potenza vittoriosa di Dio (cfr. 11,20). Per esprimere la vittoria o sdemonizzazione della storia umana, Gesù ricorre all’immagine con la quale il profeta Isaia descrive la caduta dell’imperialismo babilonese, rappresentato dal suo re: «Come sei caduto dal cielo, lucifero, figlio dell’aurora...» (Is 14,12). I discepoli partecipano al potere di Gesù, a quel potere che è dato al messia per schiacciare dare l’antico avversario, che tiene schiavo l’uomo con ogni forma di prepotenza (cfr. Sal 91,13: riletto in chiave messianica). Allora i poteri carismatici dati ai discepoli non possono diventare un privilegio, un titolo di prestigio personale, ma un’occasione di riconoscenza e latitudine per la liberalità divina, che li associa alla sua pienezza di vita e di libertà. Essi godono per puro dono di Dio della cittadinanza della nuova patria. Con linguaggio biblico si dice: «I vostri nomi sono scritti nei cieli» (cfr. Es 32,32; Sal 69,29).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Dio onnipotente ed eterno,
che ci hai nutriti con i doni della tua carità senza limiti,
fa’ che godiamo i benefici della salvezza
e viviamo sempre in rendimento di grazie.
Per Cristo nostro Signore.




6 Luglio 2019

Sabato della XIII Settimana T. O.

Gen 27,1-5.15-29; Sal 134 (135); Mt 9,14-17

Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Il digiuno è una pratica penitenziale che si perde nella notte dei tempi, e così la troviamo anche nella vita religiosa di Israele. Ma altro è digiunare per “compiacere Dio”, in questo caso il digiuno è sinonimo di conversione, di rinuncia al peccato; e altro è digiunare “dinanzi a Dio” ma per essere lodati dagli uomini (Mt 6,2), e in questo caso è sinonimo di millanteria, vanità, fame di applausi, segno limpido di una religiosità falsa e vuota. Gesù rispondendo ai soliti criticoni fa intendere che la sua “discesa nel mondo e nel tempo” è invito alla gioia, alla lode, lo Sposo dell’umanità è finalmente arrivato: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,16-17).
Quando lo Sposo sarà ucciso, quando sarà tolto, allora sarà il tempo del lutto e del digiuno, ma non in chiave masochista, ma per ravvivare il desiderio della conversione, per aprirsi con maggiore liberalità alle opere di misericordia, per essere attenti ai bisogni e alle necessità del prossimo. Questi sono i frutti del digiuno da rendere ben visibili perché gli uomini, vedendo le opere buone, rendano gloria al Padre che è nei cieli (Mt 5,16), e poi quando si deve digiunare vale una sola regola: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,16-18).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 9,14-17: In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e
il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».

Possono forse gli invitati a nozze … - Angelo Lancellotti (Matteo): Gli invitati a nozze: il greco ha l’originale espressione semitica: «i figli dello sposalizio»; essi costituiscono il gruppo speciale di invitati che stavano più vicino allo sposo e svolgevano una parte importante nella cerimonia nuziale. Nel banchetto delle nozze messianiche i discepoli occupano questo posto privilegiato e, finché lo sposo è con loro, nessuno deve scandalizzarsi del loro atteggiamento di festa. L’immagine di Jahvé, legato alla nazione eletta con un patto nuziale, è ricorrente nell’Antico Testamento (cf Os 2,18-22; Is 50,1; 54,4-8; 61,10; Gr 2,2; 3,1-13; Ez 16; 23; SI 45; e tutto il libro del Cantico dei Cantici). La stessa immagine è ripresa nel Nuovo Testamento e applicata al Cristo, sposo della Chiesa (cf 2Cor 11,2; Ap 21). - Verranno però giorni...: è una formula caratteristica del linguaggio profetico con cui viene introdotto un annuncio funesto (cf Is 39,6; Gr 23,7; 30,49); qui si tratta del primo annuncio, anche se velato, della morte violenta (cf Is 5 3,8: « fu tolto dalla terra dei vivi », riferito al Servo di Jahvé) del Salvatore.

... essere in lutto finché lo sposo è con loro? - Marc-François Lacan (Dizionario di teologia Biblica): l. L’agnello, sposo della nuova alleanza. - La sapienza,che è nata da Dio e si compiace di abitare tra gli uomini (Prov 8,22 ss. 31), non è soltanto un dono spirituale; appare nella carne: è Cristo, sapienza di Dio (1Cor 1,24); e nel mistero della croce, follia di Dio, egli porta a termine la rivelazione dell’amore di Dio per la sua sposa infedele, salva e santifica la sposa di cui è il capo (Ef 5,23-27).
Si svela così il mistero dell’unione simboleggiata nel VT dai nomi di sposo e di sposa.
Per l’uomo si tratta di aver comunione con la vita trinitaria, di unirsi al Figlio di Dio per diventare figlio del Padre celeste: lo sposo è Cristo, e Cristo crocifisso. La nuova alleanza è suggellata nel suo sangue (1Cor 11,25) e perciò l’ Apocalisse non chiama più Gerusalemme sposa di Dio, ma sposa dell’agnello (Apoc 21,9).
2. La Chiesa, sposa della nuova alleanza. - Qual è questa Gerusalemme, chiamata alla alleanza con il Figlio di Dio? Non è più la serva, che rappresenta il popolo dell’antica alleanza, ma la donna libera, la Gerusalemme di lassù (Gal 4,22-27). Dopo la venuta dello sposo, al quale il precursore, suo amico, ha reso testimonianza (Gv 3,29), l’umanità è rappresentata da due donne, simbolo di due città spirituali: da una parte la «prostituta», tipo della Babilonia idolatra (Apoc 17,1.7; cfr. Is 47), dall’altra parte la sposa dell’agnello, tipo della città amata (Apoc 20,9), della Gerusalemme santa che viene dal cielo, perché dallo sposo ha la sua santità (21,2.9 s).
Questa donna è la madre dei figli di Dio, di coloro che l’agnello libera dal dragone in virtù del suo sangue (12,1s. 11.17). Appare dunque che la sposa di Cristo non è soltanto l’insieme degli eletti, ma è la loro madre, colei per mezzo della quale e nella quale nulla di essi è nato; essi sono santificati dalla grazia di Cristo (Tito 3,5 ss), e diventano degli esseri vergini, degni di Cristo loro sposo (2Cor 11,2), uniti per sempre all’agnello (Apoc 14,4).

Senso del digiuno - Raymond Girard (Dizionario di teologia Biblica): Poiché l’uomo è anima e corpo, non servirebbe a nulla immaginare una religione puramente spirituale: per impegnarsi, l’anima ha bisogno degli atti e degli atteggiamenti del corpo. Il digiuno, sempre accompagnato da una preghiera supplice, serve ad esprimere l’umiltà dinanzi a Dio: digiunare (Lev 16,31) equivale ad «umiliare la propria anima» (16,29). Il digiuno non è quindi una prodezza ascetica; non mira a procurare qualche stato di esaltazione psicologica o religiosa. Simili utilizzazioni sono attestate nella storia delle religioni. Ma nel contesto biblico, quando l’uomo si astiene dal mangiare per tutto un giorno (Giud 20,26; 2Sam 12,16s; Giona 3,7) mentre considera il cibo come un dono di Dio (Deut 8,3), questa privazione è un atto religioso di cui bisogna comprendere esattamente i motivi; lo stesso per l’astensione dai rapporti coniugali.
Ci si rivolge al Signore (Dan 9,3; Esd 8,21) in un atteggiamento di dipendenza e di abbandono totale: prima di affrontare un compito difficile (Giud 20,26; Est 4,16), od ancora per implorare il perdono di una colpa (1 Re 21,27), sollecitare una guarigione (2 Sam 12, 16.22), lamentarsi in occasione di una sepoltura (1 Sam 31,13; 2Sam 1,2), dopo una vedovanza (Giudit 8,5; Lc 2,27) o in seguito a una sventura nazionale (1Sam 7,6; 2Sam 1,12; Bar 1,5; Zac 11,19), per ottenere la cessazione di una calamità (Gioe 2,12-17; Giudit 4,9-13), per aprirsi alla luce divina (Dan 10,12), per attendere la grazia necessaria al compimento di una missione (Atti 13,2s), per prepararsi all’incontro con Dio (Es 34,28; Dan 9,3).
Le occasioni ed i motivi sono vari. Ma in tutti i casi si tratta di porsi con fede in un atteggiamento di umiltà per accogliere la azione di Dio e mettersi alla sua presenza. Questa intenzione profonda svela il senso dei quaranta giorni trascorsi senza cibo da Mosè (Es 34,28) e da Elia ( Re 19, 8). Quanto al quaranta giorni di Gesù nel deserto, che si modellano su questo duplice esempio, essi non hanno per scopo di aprirlo allo Spirito di Dio, perché ne è ripieno (Lc 4,1); se lo Spirito lo spinge a questo digiuno, lo fa perché inauguri la sua missione messianica con un atto di abbandono fiducioso nel Padre suo (Mt  4,1-4).

Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza… - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Le due esemplificazioni tendono a chiarire la condotta dei discepoli e, implicitamente, quella del loro Maestro. È cosa imprudente e rischiosa mettere insieme due elementi incompatibili, porre insieme il nuovo ed il vecchio. Una pezza nuova applicata ad un vestito vecchio causa uno strappo peggiore di quello che è stato riparato, perché tira troppo sui margini della stoffa usata; in modo analogo, il vino nuovo, non interamente fermentato, preme troppo sugli otri vecchi e li fa scoppiare. Il vestito vecchio rappresenta il giudaismo; la stoffa nuova (letteralmente: – stoffa – non ancora lavata) indica lo spirito nuovo del regno di Dio. Adattare allo spirito dell’Antico Testamento quello del Nuovo Testamento equivale a compiere una riparazione occasionale senza effetti duraturi. La pietà e la religione non vengono intensificate con nuove imposizioni e nuove pratiche – come facevano i Farisei e i discepoli di Giovanni con i loro digiuni e penitenze – ma con uno spirito più sottomesso a Dio ed illuminato, con un cuore più desideroso di perfezione interiore, la quale eleva e rende simili a Dio, più che di una perfezione esterna, la quale si accontenta dell’uniformità con la legge. Cristo rinnova la religione ebraica sviluppando lo spirito della Legge antica che gli Ebrei avevano soffocato con un legalismo minuzioso e cavilloso. Il principio dottrinale nascosto in queste due immagini è ricco di applicazioni; Gesù stabilisce un principio d’incalcolabile importanza ed interesse, al quale si sono ispirati gli Apostoli e si richiama continuamente la Chiesa. La legge positiva è condizionata alla perfezione dell’uomo; quando lo spirito porta l’uomo ad un livello superiore la legge ha raggiunto il suo scopo ed è superata. La legge ebraica ha preparato la legge evangelica e fu superata da quest’ultima. Gli Apostoli giunsero ad una rottura ufficiale col giudaismo, quando si avvidero che i giudaizzanti volevano imporre la loro legge anche a coloro che venivano dopo la promulgazione della legge evangelica (cf. Atti, 15, 1).

Incompatibilità tra vecchio e nuovo - Basilio Caballero (La Parola per Ogni Giorno): Questa incompatibilità del nuovo con il vecchio è sottolineata da Gesù nelle due brevi parabole del rammendo di panno nuovo su un vestito vecchio e del vino nuovo in otri vecchi. La stoffa nuova tira il tessuto vecchio e causa uno strappo peggiore e il vino nuovo fa scoppiare gli otri vecchi e già rovinati e così si perde anche il vino. L’ordine della salvezza di Dio, che Cristo inaugura, è nuovo come lo fu la rivelazione dell’alleanza e della legge antiche per mezzo di Mosè. Anche se, in linguaggio metaforico, le affermazioni di Gesù sulla novità del regno e del vangelo sono più energiche di tutto quello che leggiamo sull’argomento in san Paolo. Già in altre occasioni Gesù aveva fatto applicazioni concrete del suo atteggiamento verso il nuovo: per esempio, riferendosi ai riti della purificazione, all’osservanza del sabato, al tempio di Gerusalemme e al suo culto, al contatto con peccatori e impuri, pagani e lebbrosi, ecc.; oggi lo fa nei confronti del digiuno. La religione in spirito e verità che Gesù propone è una novità tanto radicale che non dipende assolutamente dal passato. In questo modo l’intese san Paolo, quando tira le conseguenze di questo principio per i cristiani delle sue comunità e di tutti i tempi: «Se uno è i Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Gli otri vecchi sono gli anchilosati schemi mentali e religiosi di sempre. Se le guide religiose d’Israele rifiutarono Gesù fu proprio perché la novità di un messia umile non coincideva con le loro vecchie idee. Ma pensiamo a noi stessi. La resistenza alla novità della parola di Dio nel vangelo di Gesù e nei segni dei tempi è, in fondo, rifiutare la conversione evangelica in nome di tradizioni caduche e facendosi scudo di ciò che è stato sempre fatto. Ma è inutile voler addomesticare ed è impossibile confinare in stampi arrugginiti e ammuffiti la novità radicale di un Dio sempre sorprendente.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Gli otri vecchi sono gli anchilosati schemi mentali e religiosi di sempre.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.