5 Luglio 2019 -  Venerdì della XIII Settimana T. O.

Gen 23,1-4.19; 24,1-8.62-67; Sal 105 (106); Mt 9,9-13

Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Matteo come mestiere faceva l’esattore delle tasse, e per scontato qualcuno pensò che era un uomo avido, qualcun altro pensò che era uno strozzino, e un altro ancora un usario… forse… Forse questa nomea gli è stata appiccicata addosso per esaltare la bontà del Signore che non disdegna di chiamare anche i peccatori, e questo è vero, ma a cassare tutti quegli appellativi c’è la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata del Maestro divino. Se fosse stato avido avrebbe, da buon contabile, cercato di mettere in parità il bilancio, “cosa guadagno e cosa perdo?”, oppure avrebbe cercato di cavare qualche profitto, entrare a far parte del gruppo dei discepoli in fondo poteva avere il suo guadagno, e se era usuraio certamente non avrebbe mollato tanto facilmente la sua cassaforte. Niente di tutto questo. Matteo faceva il suo lavoro e quando Gesù lo chiamò immantinente, senza pensarci due volte “lo seguì”. In questa cornice il vangelo ci offre tre riflessioni, la prima che tutti, anche i ricchi e anche gli esattori delle tasse, con tutti i sinonimi annessi e connessi, sono amati da Dio; la seconda che Gesù, medico divino, è venuto per i malati, e tutti siamo malati, e ragione vuole che ci facciamo curare; terzo, non saranno le mille devozioni, cose buone certamente, ad aprirci le porte del Paradiso, ma la misericordia: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi...” (Mt 25,34-36).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 9,9-13: In quel tempo, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

La vocazione di Matteo mette in risalto la potenza della parola di Cristo: essa chiama alla sequela l’esattore di tasse Matteo muovendolo dal di dentro per una risposta pronta e positiva; e ha il potere (exousia) di annunziare la remissione dei peccati, di proclamare ai poveri il vangelo, la buona notizia, e di annunziare la liberazione ai prigionieri. Tra le righe la gioia, la festa per sottolineare l’attenzione amorosa di Dio per i più disperati, per i peccatori, per coloro che a motivo della loro vita o mestiere erano considerati dannati. Matteo cita il profeta Osea (6,6), ma con una notevole e sostanziale differenza. Mentre in Osea l’oggetto diretto della religiosità fatta di «amore e conoscenza» è Dio, nel Vangelo è il peccatore.

Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): La vocazione dei primi quattro discepoli era stata narrata più dettagliatamente. I sinottici riferiscono soltanto di un altro apostolo le circostanze particolari della vocazione; si tratta di «Levi, il figlio di Alfeo», come lo chiamano Marco e Luca (Mc 2, 14; Lc 5,27). Nel primo Vangelo invece è chiamato Matteo, che, secondo l’antica tradizione, avrebbe scritto questo Vangelo. È un esattore, appartiene cioè alla classe odiata e disprezzata dei pubblicani. Per i giudei osservanti era considerato impuro perché trattava di affari e maneggiava denaro, in secondo luogo era un imbroglione poiché sfruttava il prossimo. E Gesù lo chiama! Di nuovo emerge questa «preferenza» di Dio per ciò che è piccolo e disprezzato. Ai peccatori, gente semplice, si aggiunge ora uno a cui non si dà nemmeno la mano. Anch’egli è galileo, come gli altri. È proprio una «bella compagnia» quella che Gesù raduna intorno a sé! Ce ne scandalizziamo anche noi?
Il pubblicano sente la chiamata, si alza e subito si unisce a Gesù. li suo comportamento corrisponde alla linea appena indicata da Gesù per essere suoi veri discepoli (8, 19-22): non fa obiezioni, non domanda dilazioni, ma agisce con decisione e prontezza, senza riserve. Un altro pubblicano, di cui parla l’evangelista Luca - di nome Zaccheo -, mostrerà che Gesù viene capito proprio da questa gente (cf. Lc 19, 1-10). Le due affermazioni: «Si alzò e lo seguì», ci danno un quadro meraviglioso di quel che vuol dire seguire Gesù ed esser suoi discepoli: è necessario troncare risoluti lo stile di vita «vecchio» e osare l’avventura con Cristo.

Misericordia voglio - Misericordia è un attributo che viene costantemente riferito a Dio e si presenta come una delle caratteristiche peculiari della divinità. In essa si possono distinguere due elementi: uno di disposizione di fondo di Dio al perdono e alla benevolenza; l’altro, ad esso indissolubilmente unito, di effettiva azione divina per il bene dell’uomo. Dietro la parola misericordia soggiace il termine ebraico hesed, il cui significato, assai più ricco di sfumature, lo si coglie molto chiaramente studiando le parole con le quali è associato.
Per esempio in Osea, citato da Matteo, hesed è associato con mispat, giudizio, «che qui significa giustizia; le due virtù sono un aspetto della conversione voluta da Yahweh [Os 12,7] e sono due delle tre virtù in cui Michea fa consistere la volontà di Yahweh [Mi 6,8]. Questi, insieme con la rettitudine, sono gli attributi del rapporto di Yahweh con gli uomini [Ger 9,23]» (JOHN L. McKENZIE, Dizionario Biblico).
I Vangeli presentano la misericordia come dovere di un uomo verso il prossimo. Nel Vangelo odierno, Gesù applica Os 6,6 a questo dovere e lo assume egli stesso verso tutti gli uomini sopra tutto verso coloro che si trovano in particolari condizioni di bisogno. Tra questi primeggiano i peccatori, operando in questo modo un collegamento tra misericordia e perdono dei peccati; collegamento abbastanza ovvio, se la misericordia è l’atteggiamento di Dio verso l’uomo in condizione di miseria, e se la massima miseria dell’uomo è il peccato. Nel Nuovo Testamento tutta la buona novella è il racconto della misericordia fatta da Dio all’uomo peccatore nella morte redentrice di Cristo. Da questa considerazione scaturiscono due riflessioni. La prima è che l’uomo non può sfrontatamente abusare della misericordia di Dio (Sir 5,4-7), ma ad essa deve rispondere con la conversione, con l’adorazione; la seconda è che in conseguenza a tanto amore l’atteggiamento etico dell’uomo che vuol vivere conformemente alla realtà di salvezza, nella quale è stato inserito, deve essere un atteggiamento di misericordia verso il suo simile (Mt 18,23-35); solo così può rendersi degno della misericordia di Dio ed avere l’accesso al suo regno.

Dare ai poveri. - Évode Beaucamp e Jacques Guillet (Dizionario di Teologia Biblica): Rinunziare alla ricchezza non significa necessariamente non comportarsi più da proprietario. Persino al seguito di Gesù vi furono alcune persone agiate, e proprio un ricco uomo di Arimatea accolse il corpo del Signore nella sua tomba (Mt 27, 57). Il vangelo non vuole che ci si sba­razzi della propria fortuna come di un peso ingombrante, ma esige che la si distribuisca ai poveri (Mt 19,21 par.; Lc 12,33; 19,8); facendosi degli amici con il «denaro disonesto» - quale fortuna infatti è, nel mondo, immune da ogni ingiustizia? - i ricchi possono quindi sperare che Dio aprirà loro la via difficile della salvezza (Lc 16,9). Lo scandalo non è che ci sia un ricco ed un povero Lazzaro, ma che Lazzaro, «pur desiderando nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco» (Lc 16,21), non ne ricevesse nulla. Il ricco è responsabile del povero; colui che serve Dio dà il suo denaro ai poveri, colui che serve Mammona lo conserva per appoggiarsi su di esso.
Infine la vera ricchezza non è quella che si possiede, ma quella che si dà, perché questo dono chiama la generosità di Dio, unisce nel ringraziamento colui che dà e colui che riceve (2Cor 9,11) e permette al ricco di esperimentare anch’egli che c’è «più felicità nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35).

Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori - Gesù durante la sua vita terrena ha dichiarato di voler salvare i peccatori. Il Vangelo di oggi ci mostra il Cristo che chiama Matteo, che per il mestiere era considerato un pubblico peccatore: «Cristo non si vergogna di chiamare Matteo. E perché stupirci che Cristo non abbia avuto vergogna di chiamare un pubblicano, quando non solo non si vergognò di chiamare una donna peccatrice, ma le permise anche di baciare i suoi piedi e di bagnarli con le sue lacrime? [cf. Lc 7,36-50]. Proprio per questo Gesù era venuto: non solo per curare i corpi dalle loro infermità, ma per guarire anche le anime dalle loro iniquità» (Giovanni Crisostomo).
Quindi, quello di Levi, non è l’unico contatto tra il Cristo e il peccato. Gesù è il buon pastore che difende le pecore dai lupi offrendo la sua vita, va in cerca di quella smarrita e di quelle che non fanno parte del suo ovile (Mt 18,12ss; Gv 10,1ss). La parabola del figlio prodigo (Lc 15,11-32) manifesta palesemente i sentimenti di misericordia del Padre e del Figlio, sommo sacerdote misericordioso che sa «compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15-16).
Gesù, durante la sua vita, ha dimostrato a fatti, oltre che a parole, la sua misericordia verso i peccatori. Va in casa di Zaccheo, «capo dei pubblicani e ricco», offrendogli la salvezza e un’abbondante moratoria per quanto riguarda tutti i suoi peccati di avarizia (Lc 19,1-10). Il buon ladrone addirittura è il primo santo canonizzato dallo stesso Fondatore della Chiesa (Lc 23,43). Sulla croce prega e scusa i suoi crocifissori (Lc 23,34). Gesù è la «vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2). In questo modo, Gesù è il «sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Lasciando il mondo, trasmette agli Apostoli e ai loro successori il potere di rimettere i peccati (Mt 18,18; Gv 20,23). Cristo volendo che la sua attività sacerdotale continuasse sulla terra fino alla fine del mondo, poiché il suo sacerdozio «non doveva estinguersi con la morte [Eb 7,24-27]», volle lasciare alla Chiesa, «un sacrificio visibile [...], con cui venisse significato quello cruento che avrebbe offerto una volta per tutte sulla croce prolungandone la memoria fino alla fine del mondo, e applicando la sua efficacia salvifica alla remissione dei nostri peccati quotidiani» (Concilio di Trento, Sess. 22°). Così che ogni volta che «si celebra sull’altare il sacrifico della croce col quale “Cristo nostra pasqua è stato immolato” [1Cor 5,7], si compie l’opera della nostra redenzione» (LG 3).
Nella Messa, esplosione della misericordia divina, Dio in Cristo dichiara il suo amore eterno alla sua creatura; nel Pane Eucaristico il credente gode della misericordia e del perdono di Cristo, «sommo sacerdote santo e innocente» (Eb 7,26).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.




4 Luglio 2019

Giovedì della XIII Settimana T. O.

Gen 22,1-19; Sal 114 (115); Mt 9,1-8

Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…

Due più due fa quattro, almeno per gli uomini di buon senso, non per gli scribi. La guarigione immediata del paralitico comprovava che Gesù aveva il potere di rimettere i peccati, e se aveva il potere di rimettere i peccati era Dio. Invece per gli eterni spioni e irriducibili sostenitori della Legge di Mosè, Gesù è un trasgressore della Legge, un millantatore e un bestemmiatore che merita la morte. Al contrario, nell’altro campo, quello del due più due fa quattro, le folle vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini. L’ipocrisia rende ciechi gli scribi, ingabbiati nei loro pregiudizi non riescono a vedere al di là del loro naso, e sono pronti a mettere le mani alle pietre pur di difendere le loro idee, dall’altra parte la folla che sa guardare con occhi puliti, vede, constata e tira le giuste conclusioni. Certo la fede della folla è ancora immatura, ma invece di dare la stura a giudizi avventati sa aprirsi all’intelligenza dello stupore e del timore, trasformando la guarigione del paralitico in una liturgia di lode. Se per gli scribi tutto va giudicato alla luce di una legge umana, la folla sa scorgere in un evento prodigioso l’amore del Padre e la sua sconfinata misericordia verso gli uomini.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 9,1-8: In quel tempo, salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati». Allora alcuni scribi dissero fra sé: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”? Ma, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati: Àlzati – disse allora al paralitico –, prendi il tuo letto e va’ a casa tua». Ed egli si alzò e andò a casa sua. Le folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.

Ti sono perdonati i peccati... costui bestemmia: la bestemmia consisteva nel maledire il nome di Dio ed era punita con la lapidazione (Cf. Lv 2,16). Nel nostro caso, gli scribi potevano parlare di bestemmia soltanto in modo indiretto: Egli che era uomo si faceva Dio (Cf. Gv 10,33), appropriandosi di prerogative divine come quella di perdonare i peccati. La reazione degli scribi è la reazione degli ottusi; la risposta di coloro che si sono faticosamente e ostinatamente costruite certezze su Dio, sull’uomo e nelle quali si sono rinchiusi perché abbarbicati al passato e sopra tutto per paura del nuovo.
«Ecco, io faccio una cosa nuova ... io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati» (Is 43,19): la parola di Dio che risuona per bocca del profeta Isaia ora trova pienezza e compiutezza nel potere di Gesù di sanare i malati e di rimettere i peccati: «Figlio, ti sono perdonati i peccati... alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (Vangelo). Proprio perché Dio è imprevedibile è meglio tenerlo relegato dentro i confini della più rigorosa interpretazione della Legge: Dio è fedele e non può smentire se stesso; Dio nessuno lo può vedere e restare vivo (Cf. Es 33,20) e solo lui può rimettere i peccati (Cf. Is 1,18), quindi Gesù, che si arroga questo potere, è un bestemmiatore; un uomo pericoloso che mina il potere costituito e corrompe le tradizioni dei padri, quindi deve essere immediatamente eliminato: «E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6).
Il giudizio degli scribi era «fondamentalmente giusto, perché il rimettere i peccati è una prerogativa esclusiva di Dio [Cf. Es 34,6-8; Sal 103,3; Is 43,25; 44,22]. Ma avevano torto in quanto dall’osservazione dei fatti prodigiosi compiuti da Gesù non avevano saputo risalire alla sorgente divina delle sue facoltà» (Adalberto Sisti, Marco). La tentazione di imprigionare Dio dentro gli oscuri schemi della grettezza umana, di asservirlo alle proprie conoscenze sono purtroppo manovre tentate spesso dai battezzati e anche dagli uomini di Chiesa: è la tentazione dei nostalgici. Gesù con una impietosa operazione chirurgica mette fuori, alla luce del sole, i pensieri occulti degli scribi e anche questa è una prerogativa divina: solo Dio può conoscere i pensieri dell’uomo, solo Lui scruta il cuore degli uomini (Cf. Ger 17,9-10).

Che cosa è più facile…: Il perdono dei peccati è qualcosa che non si può riscontrare, il miracolo sì; ecco perché Gesù per dare prova che il «Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra», sana il paralitico nel corpo. Solo la folla a questo punto applaudisce. È meravigliata non tanto, o non solo, per il miracolo prodigioso, quanto per l’autorità che Gesù rivendica a sé.
A Cafarnao Gesù aveva già operato guarigioni, liberazioni di indemoniati meravigliando tutti, ma ora, cosa mai vista, sana un uomo dalla lebbra del peccato dandone la prova certa guarendolo dalla paralisi, per questo motivo le «folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini» (Vangelo). Ma quanta amarezza nel vedere come gli scribi, che avevano le carte in regola per riconoscere tali cose, in verità, per la loro albagia, escono fuori dal coro.

Ed egli si alzò e andò a casa sua - Wolfgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Che l’infermo si alzi realmente e vada a casa, appare una semplice e naturale conseguenza del fatto che era stato guarito nello spirito. Così la storia termina senza scalpore. La cosa principale per la gente non è la guarigione miracolosa, ma che Dio abbia «dato un tale potere agli uomini». Come deve essere grande Dio, proprio per questa liberalità, che non tiene gelosamente per sé il suo tesoro. L’accento, quindi, viene posto su quanto Dio fa: egli trasmette agli uomini i suoi poteri. Qui, ora, è stato il Figlio dell’uomo in persona, ma ciò non viene sottolineato; in seguito saranno degli uomini semplici ad avere il potere di rimettere i peccati in nome di Dio, un miracolo che si rinnova ogni volta che veniamo perdonati. Siamo consapevoli che Dio mette a nostra disposizione qualcosa di esclusivamente suo e dona a un uomo la sua stessa autorità? Siamo coscienti che si tratta di una grazia concessa liberamente?

Le folle, vedendo questo, furono prese da timore - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Dio che aveva dato tale potere agli uomini; la folla capì l’argomentazione del Maestro e ne rimase stupita. Il testo dice: furono prese da timore; agli Ebrei ogni manifestazione del potere divino infondeva timore, poiché essi consideravano soprattutto la grandezza e la maestà di Dio; si tratta quindi di timore riverenziale. Il versetto considera la remissione dei peccati più che la guarigione; l’espressione vedendo ciò va presa in senso improprio, cioè sentendo ciò. La folla ammira che Gesù, uomo come gli altri, rimette i peccati. Tuttavia la redazione del versetto (lodarono Dio che aveva dato tale potere agli uomini) ha presente l’uso della Chiesa primitiva, nella quale ogni credente vedeva che degli uomini (i ministri sacri) rimettevano i peccati in nome di Gesù.

Gesù dinanzi alla malattia - Jean Giblet e Pierre Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): 1. Durante il suo ministero, Gesù trova ammalati sulla sua strada. Senza interpretare la malattia in una prospettiva di retribuzione troppo stretta (cfr. Gv 9,2s), egli vede in essa un male di cui soffrono gli uomini, una conseguenza del peccato, un segno del potere di Satana sugli uomini (Lc 13,16). Ne prova pietà (Mt 20, 34), e questa pietà guida la sua azione. Senza soffermarsi a distinguere ciò che è malattia naturale da ciò che è possessione diabolica, «egli scaccia gli spiriti e guarisce coloro che sono ammalati» (Mt 8,16 par.). Le due cose vanno di pari passo.
Manifestano entrambe la sua potenza (cfr. Lc 6,19) ed hanno infine lo stesso senso: significano il trionfo di Gesù su Satana e la instaurazione del regno di Dio in terra, conformemente alle Scritture (cfr. Mt 11,5 par.).
Non già che la malattia debba ormai sparire dal mondo, ma la forza divina che infine la vincerà è fin d’ora in azione quaggiù. Perciò, dinanzi a tutti gli ammalati che gli esprimono la loro fiducia (Mc 1,40; Mt 8,2-6 par.), Gesù non manifesta che una esigenza: credere, perché tutto è possibile alla fede (Mt 9,28; Mc 5,36 par.; 9,23). La loro fede in lui implica la fede nel regno di Dio, ed è questa fede a salvarli (Mt 9,22 par.; 15,28; Mc 10,52 par.).
2. I miracoli di guarigione sono quindi in qualche misura un’anticipazione dello stato di perfezione che l’umanità ritroverà infine nel regno di Dio, conformemente alle profezie. Ma hanno pure un significato simbolico relativo al tempo attuale. La malattia è un simbolo della stato in cui si trova l’uomo peccatore: spiritualmente, egli è cieco, sordo, paralitico ... Quindi la guarigione del malato è anche un simbolo: rappresenta la guarigione spirituale che Gesù viene ad operare negli uomini. Egli rimette i peccati del paralitico e, per dimostrare che ne ha il potere, lo guarisce (Mc 2,1-12 par.). Questa portata dei miracoli-segni è messa in rilievo soprattutto nel quarto vangelo: la guarigione del paralitico di Bezatha significa l’opera di vivificazione compiuta da Gesù (Gv 5, 1-9. 19-26), e quella del cieco nato fa vedere in lui la luce del mondo (Gv 9). I gesti che Gesù compie sugli ammalati preludono cosi ai sacramenti cristiani. Egli infatti è venuto quaggiù come il medico dei peccatori (Mc 2, 17 par.), un medico che, per togliere le infermità e le malattie, le prende su di sé (Mt 8,17 = Is 53,4). Tale sarà di fatto il senso della sua passione: Gesù parteciperà alla condizione dell’umanità sofferente, per poter trionfare infine dei suoi mali.

Per la Sacra Scrittura, le malattie mostrano il male nel mondo. Perciò le guarigioni miracolose sono segno della salvezza e del regno di Dio, che mettono definitivamente fine al male: Giovanni il Battista chiamati due discepoli «li mandò a dire al Signore: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”... In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella» (Lc 11,18-22).
In una ottica tutta cristiana, la malattia è un dono dall’immenso valore espiatorio e redentivo. Un dono che per vie misteriose fa approdare l’uomo, beneficato dal dono della sofferenza, alla esaltante certezza di essere figlio amato da Dio Padre: «È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli!» (Eb 12,7-8).
Ma qual è il comportamento della Chiesa e dei credenti verso i malati?
La risposta è ovvia: sull’esempio di Gesù, la cura e la visita dei malati per i cristiani non sono un’opera buona complementare, ma uno stretto dovere sul quale verterà il giudizio finale di Dio (Cf. Mt 25,36-45). La Chiesa - afferma il Compendio - «avendo ricevuto dal Signore l’imperativo di guarire gli infermi, si impegna ad attuarlo con le cure verso i malati, accompagnate da preghiere di intercessione» (315).
Perché questo impegno amoroso? Perché il malato - per usare il linguaggio di san Camillo de Lellis - è “la persona stessa di Cristo”, è “pupilla e cuore di Dio”, è “mio signore e padrone”.
Anche all’incredulo malato, al bestemmiatore, a quello che la insulta, la Chiesa, con Camillo, dice: “Tu mi puoi comandare ciò che vuoi...!”.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** In una ottica tutta cristiana, la malattia è un dono dall’immenso valore espiatorio e redentivo.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.





3 Luglio 2019 - SAN TOMMASO, APOSTOLO – FESTA

I Lettura Ef 2,19-22; Salmo Responsoriale: Dal Salmo 116 (117); Gv 20,24-29

Colletta: Esulti la tua Chiesa, o Dio, nostro Padre, nella festa dell’apostolo Tommaso; per la sua intercessione si accresca la nostra fede, perché credendo abbiamo vita nel nome del Cristo, che fu da lui riconosciuto suo Signore e suo Dio. Egli vive e regna con te...  

Nonostante il sepolcro vuoto, l’annuncio pasquale della Maddalena (Cf. Gv 20,1-9.18), e la testimonianza degli Apostoli, “Abbiamo visto il Signore”, Tommaso non crede: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”.
Otto giorni dopo, Gesù, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, appare agli Undici, mostrando loro le cicatrici dei polsi che erano stati trapassati dai chiodi e la ferita del fianco che era stato squarciato dalla lancia.
L’intenzione del Vangelo è quella di far comprendere che il Risorto che appare è Gesù di Nazaret morto crocifisso sul Calvario e trafitto dalla lancia del soldato romano. Il corpo risuscitato con il quale si presenta ai discepoli «è il medesimo che è stato martoriato e crocifisso, poiché porta ancora i segni della passione» (CCC 645).
L’entrare a porte chiuse, il fermarsi in mezzo agli apostoli e il parlare con loro, sono particolari che vogliono dire che Gesù è vivo, possiede una vita nuova, diversa, è risorto non come la figlia di Giairo, o come il giovane di Naim, oppure come Lazzaro: la «risurrezione di Cristo è essenzialmente diversa. Nel suo Corpo risuscitato egli passa dallo stato di morte ad un’altra vita al di là del tempo e dello spazio. Il Corpo di Gesù è, nella risurrezione, colmato della potenza dello Spirito Santo; partecipa alla vita divina nello stato della sua gloria, sì che san Paolo può dire di Cristo che egli è l’uomo celeste [Cf. 1Cor 15,35-50]» (CCC 647).
Tommaso non è vinto soltanto dalla evidenza, ma è la fede che gli fa piegare le ginocchia, e dal cuore sgorga una meravigliosa professione di fede: “Mio Signore e mio Dio”. Una buona lezione per gli increduli, una beatitudine per quelli che non hanno visto e hanno creduto!, una beatitudine foriera di salvezza.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Gv 20,24-29: Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù mostrando il costato ferito e le mani e i piedi piagati per vincere l’incredulità di Tommaso indica alla Chiesa e al mondo il cammino per arrivare alla fede: bisogna partire dal Crocifisso, è dalla contemplazione amorosa del Crocifisso risorto che sgorga la fede: «Attraverso la via della croce si arriva alla gloria: teologia della croce per essere teologia della gloria. Gesù mostra le mani, quelle mani ferite, perforate dai chiodi, il segno dell’amore; mostra il costato squarciato, segno ancora più grande dell’amore: il cuore trafitto. La morte è dimostrazione massima dell’amore. La risurrezione è amore» (Don Carlo De Ambrogio).
Solo chi muore amando entra nella vita del Risorto (Cf. 1Gv 3,14).

Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi - Salvatore Alberto Panimolle (Lettura pastorale del Vangelo di Giovanni - Vol. III): Il brano incentrato in Tommaso, mostra in modo vivo come questo apostolo sia passato dall’incredulità più ostinata alla fede più viva nel Signore risorto. Come spesso avviene nel nostro vangelo, l’autore che si rivela sempre un fine artista, rappresenta in modo drammatico la nascita della fede nel cuore dell’incredulo Tommaso.
L’assenza di questo discepolo dal cenacolo, quando venne il Risorto, offre l’occasione per la proclamazione ostentata dell’incredulità dell’apostolo; egli non dà credito alla dichiarazione degli amici, perché replica loro di non credere, se non quando vede con i propri occhi e tocca con le proprie mani (Gv 20,25). Tommaso rifiuta la testimonianza degli altri discepoli, non si fida di loro, perché li ritiene vittime di un’allucinazione; egli vuol vedere il Maestro e costatare di persona se sia proprio lui, con le cicatrici dei chiodi e del colpo di lancia; i suoi colleghi potrebbero aver visto un fantasma.
Gesù accoglie la sfida di Tommaso e otto giorni dopo la prima apparizione, mostrandosi nuovamente nel cenacolo, si rivolge subito all’apostolo incredulo, invitandolo a portare il dito nelle cicatrici delle mani e a mettere la mano nel suo fianco, per diventare credente (Gv 20,26s). La professione di fede di Tommaso nella divinità del Maestro costituisce il vertice dello sviluppo drammatico della scena: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Nel cuore del discepolo incredulo si è accesa la fede più profonda: risorgendo dai morti, Gesù ha dimostrato nel modo più chiaro e convincente di essere il Signore Iddio, come Jahvé.
La fede di Tommaso è autentica e sincera, essa però ha avuto bisogno del segno concreto di vedere il Risorto.
A questo punto nella mente dell’evangelista sorge il problema della fede di coloro che non potranno vedere il Signore Gesù: costoro potranno credere?  Non solo sarà possibile la fede, ma essa si rivelerà superiore a quella dei primi discepoli. Il Cristo risorto infatti proclama beati coloro che crederanno, senza aver visto (Gv 20,29).
Giovanni tuttavia non considera inutili i segni, operati da Gesù, in rapporto alla fede: essi possono favorire il suo nascere e il suo approfondimento; per tale scopo egli ha scritto il suo vangelo: affinché i lettori credano che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio (Gv 20,30s).
La fede nella messianicità divina di Gesù trova il suo alimento nella meditazione dei segni compiuti dal Signore, tra i quali il più strepitoso consiste nella risurrezione dai morti il terzo giorno (Cf. Gv 2,18ss).

Mio Signore e mio Dio! - Catechismo della Chiesa Cattolica 446: Nella traduzione greca dei libri dell’Antico Testamento, il nome ineffabile sotto il quale Dio si è rivelato a Mosè, YHWH, è reso con “Kyrios” [“Signore”]. Da allora Signore diventa il nome più abituale per indicare la stessa divinità del Dio di Israele. Il Nuovo Testamento utilizza in questo senso forte il titolo di “Signore” per il Padre, ma, ed è questa la novità, anche per Gesù riconosciuto così egli stesso come Dio.
447 Gesù stesso attribuisce a sé, in maniera velata, tale titolo allorché discute con i farisei sul senso del Salmo 110, ma anche in modo esplicito rivolgendosi ai suoi Apostoli. Durante la sua vita pubblica i suoi gesti di potenza sulla natura, sulle malattie, sui demoni, sulla morte e sul peccato, manifestavano la sua sovranità divina.
448 Molto spesso, nei Vangeli, alcune persone si rivolgono a Gesù chiamandolo “Signore”. Questo titolo esprime il rispetto e la fiducia di coloro che si avvicinano a Gesù e da lui attendono aiuto e guarigione. Pronunciato sotto la mozione dello Spirito Santo, esprime il riconoscimento del Mistero divino di Gesù. Nell’incontro con Gesù risorto, diventa espressione di adorazione: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). Assume allora una connotazione d’amore e d’affetto che resterà peculiare della tradizione cristiana: “È il Signore!”(Gv 21,7).
449 Attribuendo a Gesù il titolo divino di Signore, le prime confessioni di fede della Chiesa affermano, fin dall’inizio, che la potenza, l’onore e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche a Gesù, perché egli è di “natura divina” (Fil 2,6) e che il Padre ha manifestato questa signoria di Gesù risuscitandolo dai morti ed esaltandolo nella sua gloria.
450 Fin dall’inizio della storia cristiana, l’affermazione della signoria di Gesù sul mondo e sulla storia comporta anche il riconoscimento che l’uomo non deve sottomettere la propria libertà personale, in modo assoluto, ad alcun potere terreno, ma soltanto a Dio Padre e al Signore Gesù Cristo: Cesare non è “il Signore”. “La Chiesa crede... di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana”. 

San Tommaso, Apostolo - Domenico Agasso: Lo incontriamo tra gli Apostoli, senza nulla sapere della sua storia precedente. Il suo nome, in aramaico, significa “gemello”. Ci sono ignoti luogo di nascita e mestiere. Il Vangelo di Giovanni, al capitolo 11, ci fa sentire subito la sua voce, non proprio entusiasta. Gesù ha lasciato la Giudea, diventata pericolosa: ma all’improvviso decide di ritornarci, andando a Betania, dove è morto il suo amico Lazzaro. I discepoli trovano che è rischioso, ma Gesù ha deciso: si va. E qui si fa sentire la voce di Tommaso, obbediente e pessimistica: “Andiamo anche noi a morire con lui”. È sicuro che la cosa finirà male; tuttavia non abbandona Gesù: preferisce condividere la sua disgrazia, anche brontolando.
Facciamo torto a Tommaso ricordando solo il suo momento famoso di incredulità dopo la risurrezione. Lui è ben altro che un seguace tiepido. Ma credere non gli è facile, e non vuol fingere che lo sia. Dice le sue difficoltà, si mostra com’è, ci somiglia, ci aiuta. Eccolo all’ultima Cena (Giovanni 14), stavolta come interrogante un po’ disorientato. Gesù sta per andare al Getsemani e dice che va a preparare per tutti un posto nella casa del Padre, soggiungendo: “E del luogo dove io vado voi conoscete la via”. Obietta subito Tommaso, candido e confuso: “Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?”. Scolaro un po’ duro di testa, ma sempre schietto, quando non capisce una cosa lo dice. E Gesù riassume per lui tutto l’insegnamento: “Io sono la via, la verità e la vita”. Ora arriviamo alla sua uscita più clamorosa, che gli resterà appiccicata per sempre, e troppo severamente. Giovanni, capitolo 20: Gesù è risorto; è apparso ai discepoli, tra i quali non c’era Tommaso. E lui, sentendo parlare di risurrezione “solo da loro”, esige di toccare con mano. È a loro che parla, non a Gesù. E Gesù viene, otto giorni dopo, lo invita a “controllare”... Ed ecco che Tommaso, il pignolo, vola fulmineo ed entusiasta alla conclusione, chiamando Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”, come nessuno finora aveva mai fatto. E quasi gli suggerisce quella promessa per tutti, in tutti i tempi: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”.

Tommaso, uno dei Dodici...: Benedetto XVI (Udienza generale, 27 settembre 2006): Notissima, [...], e persino proverbiale è la scena di Tommaso incredulo, avvenuta otto giorni dopo la Pasqua. In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò!” (Gv 20,25). In fondo, da queste parole emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell’identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l’Apostolo non si sbaglia. Come sappiamo, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente” (Gv 20,27). Tommaso reagisce con la più splendida professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). A questo proposito commenta Sant’Agostino: Tommaso “vedeva e toccava l’uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato” (In Iohann. 121,5). L’evangelista prosegue con un’ultima parola di Gesù a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno” (Gv 20,29). Questa frase si può anche mettere al presente: “Beati quelli che non vedono eppure credono”. In ogni caso, qui Gesù enuncia un principio fondamentale per i cristiani che verranno dopo Tommaso, quindi per tutti noi.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

O Padre, che ci hai nutriti del corpo e sangue del tuo Figlio,
fa’ che insieme all’apostolo Tommaso riconosciamo
nel Cristo il nostro Signore e il nostro Dio,
e testimoniamo con la vita la fede che professiamo.
Per Cristo nostro Signore.





2 Luglio 2019 - Martedì della XIII Settimana T. O.

Gn 19,15-29; Sal 25 (26); Mt 8,23-27

Colletta: O Dio, che ci hai reso figli della luce con il tuo Spirito di adozione, fa’ che non ricadiamo nelle tenebre dell’errore, ma restiamo sempre luminosi nello splendore della verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo…
   
Anche se Gesù dormiva, e il mare era calmo, non c’era motivo di preoccuparsi. Ma le cose si guastano quando la tempesta si abbatte sulla barca, e Gesù continua a dormire. E così suona la sveglia: Salvaci, Signore, siamo perduti! Il rimprovero non tarda a raggiungerli: Perché avete paura, gente di poca fede?. Ed è ben appropriato, se teniamo a mente che poco prima erano stati spettatori di prodigi, esorcismi, e guarigioni. Sappiamo dal Vangelo che tutto finì bene, perché c’era Gesù sulla barca, e se non ci fosse stato? Nella storia degli uomini, il Risorto è sempre  in mezzo ai suoi, ma gli occhi del corpo non lo vedono, i sensi non lo percepiscono, e a volte la barca prende tanta acqua con il rischio di affondare, eppure la Parola di Dio sembra tardare, sembra non arrivare, e per non fare naufragio si è costretti a lottare strenuamente contro una natura ostile e ribelle. Nel Vangelo Gesù è intervenuto e ha minacciato i venti e il mare, ma volte tace, perché impariamo a procedere nel cammino periglioso della vita con il cuore sì in tempesta, ma ben illuminato dal lume della fede. La tempesta è sempre in agguato, è sempre dietro l’angolo, ma il lume della fede deve essere ben alimentato affinché non si spenga. Il lume della fede va alimentato con la certezza che Gesù non dorme, è sempre accanto ai suoi amici, e più che le orecchie bisogna aprire il cuore per sentire la sua Parola di salvezza.

Vangelo - Dal Vangelo secondo Matteo 8,23-27: In quel tempo, salito Gesù sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».

Nella narrazione evangelica si possono cogliere le contrastanti reazioni dei personaggi che animano il racconto: mentre la tempesta infuria, Gesù dorme; i discepoli, svegli, hanno gli occhi sbarrati per la paura; e mentre quest’ultimi sono atterriti, Gesù si presenta calmissimo. Altri particolari, che non sono ornamentali, ma essenziali al racconto, suggeriscono come tutto è spinto all’estremo: una grande sconvolgimento, una grande bonaccia, un grande (pieni) stupore. In questa estrema situazione, ridotti a mal partito, i discepoli svegliano Gesù rimproverandolo di non interessarsi della sorte dei suoi amici. Questa lamentela provoca l’immediato intervento di Gesù che è autoritario: egli non prega il Padre, ma agisce di persona. Il Maestro rimprovera i discepoli: «Perché avete paura, gente di poca fede?», e la tempesta si seda.
Al cessare del vento, la reazione da parte dei discepoli è immediata e Matteo, che vuole portare il lettore alla conoscenza sempre più profonda di Gesù, riporta l’interrogativo dei discepoli: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?». Questa domanda, che non esprime altro se non ammirazione, è strumentale in quanto obbliga il lettore a porsi alcune domande: nell’Antico Testamento chi è il creatore del mondo? Chi è il dominatore della creazione? Chi esercita sovrana autorità sugli elementi naturali?
La risposta è immediata e spontanea: è il Signore Dio. Egli è il creatore dei cieli, del sole, della luna, delle stelle, della luce, delle acque... è lui che dispone a suo piacimento dei venti e della pioggia, è lui che ha posto un limite al mare e alla sua potenza... è lui che chiama per nome le stelle ed esse rispondono (Cf. Bar 3,35).
Il lettore, dopo aver risposto a queste domande, è  obbligato a porsi altre domande: se l’onnipotenza è prerogativa di Dio, perché i discepoli si rivolgono a Gesù e non a Dio? come mai Gesù non prega il Padre ma agisce con autorità di persona? come mai Gesù si comporta da dominatore assoluto degli elementi della natura? Domande importanti, perché l’identità di Gesù costituisce il nucleo della questione fondamentale di tutto il vangelo di Matteo, e anche degli altri vangeli. A questo punto, Matteo interviene e per aiutare il suo lettore a dare una risposta gli indica l’itinerario che deve percorrere per arrivare alla perfetta conoscenza del Maestro: questo itinerario è la fede in Colui che è morto e risorto ed è presente nella sua Chiesa fino alla fine dei giorni (Cf. Mt 28,20).

Wolgang Trilling (Vangelo secondo Matteo): Gesù sale in barca e i discepoli «lo seguirono». Egli è il primo, colui che precede, gli altri gli vanno dietro. Questo primo versetto ripropone il tema della «sequela» di Gesù, che continuerà nell’episodio sul lago. In mezzo al mare si scatena la grande tempesta, come accade frequentemente sul lago di Genezaret, incastonato com’è tra catene montuose, mettendo in serio pericolo i piccoli pescherecci poco adatti al mare. In quel bacino tra i monti si scontrano venti impetuosi che agitano profondamente le acque, rendendo quasi impossibile la navigazione. Gli esperti pescatori hanno appena il tempo di accorgersi del pericolo imminente, che già le onde minacciano di sommergere l’imbarcazione. In mezzo alla tempesta, nella barca sbattuta da cavalloni spumeggianti, Gesù dorme. È sicuro in Dio, e la situazione del momento non lo tocca.
Preoccupati e terrorizzati, i discepoli chiamano il Maestro: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». È un grido di disperazione, certo, ma anche di fiducia: non vedono altra via d’uscita che il Signore in mezzo a loro. Soltanto in lui è la salvezza! La loro esperienza e le loro capacità non servono a nulla. L’esclamazione: «Siamo perduti!», oltre al significate letterale, ha anche un senso spirituale: Siamo rovinati! Siamo spacciati! È finita per noi! Tutta la nostra vita se ne va, ogni speranza è morta! È quello che sperimentiamo davanti a un pericolo mortale, di fronte a un grave rischio, quando sembra svanire ogni intima speranza di vita.

La fede della Chiesa - Jean Duplacy: 1. La fede pasquale. - Questo passo fu compiuto quando i discepoli, dopo molte esitazioni in occasione delle apparizioni di Gesù (Mt 28,17; Mc 16,11-14; Lc 24,11), credettero alla sua risurrezione. Testimoni di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto (Atti 10,39), essi lo proclamano «Signore e Cristo», nel quale sono compiute invisibilmente le promesse (2,33-36). Ora la loro fede è capace di giungere «fino al sangue» (cfr. Ebr 12,4). Essi chiamano i loro uditori a condividerla per beneficiare della promessa ottenendo la remissione dei loro peccati (Atti 2, 38 s; 10,43). La fede della Chiesa è nata.
2. La fede nella parola. - Credere significa innanzitutto accogliere questa predicazione dei testimoni, il vangelo (Atti 15,7; 1Cor 15,2), la parola (Atti 2,41; Rom 10,17; 1Piet 2,8), confessando Gesù come Signore (1Cor 12,3; Rom 10,9; cfr. 1Gv 2,22). Questo messaggio iniziale, trasmesso come la tradizione (lCor 15,1-3), potrà
arricchirsi e precisarsi in un insegnamento (1Tim 4,6; 2Tim 4,1-5): questa parola umana sarà sempre, per la fede, la parola stessa di Dio (1Tess 2,13). Riceverla, vuol dire per il pagano abbandonare gli idoli e rivolgersi al Dio vivo e vero (1Tess 1,8ss), significa per tutti riconoscere che il Signore Gesù porta a compimento il disegno di Dio (Atti 5,14; 13,27-37; cfr. 1Gv 2,24). Significa, ricevendo il battesimo, confessare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28,19).
Questa fede, come constaterà Paolo, apre all’intelligenza i tesori di sapienza e di scienza che sono in Cristo (Col 2,3): la sapienza stessa di Dio rivelata dallo Spirito (1Cor 2), cosi diversa dalla sapienza umana (1Cor 1,17-31; cfr. Giac 2,1-5; 3,13-18; cfr. Is 29,14) e la conoscenza di Cristo e del suo amore (Fil 3,8; Ef 3,19; cfr. 1 Gv 3,16) .
La fede e la vita del battezzato. - Condotto dalla fede sino al battesimo e alla imposizione delle mani che lo fanno entrare pienamente nella Chiesa, colui che ha creduto nella parola partecipa all’insegnamento, allo spirito, alla «liturgia» di questa Chiesa (Atti 2,41-46). In essa infatti Dio realizza il suo disegno operando la salvezza di coloro che credono (2,47; 1Cor 1,18): la fede si manifesta nell’obbedienza a questo disegno (Atti 6,7; 2Tess l,8). Si dispiega nell’attività (1Tess 1,3; Giac l,21s) di una vita morale fedele alla legge di Cristo (Gal 6,2; Rom 8,2; Giac 1,25; 2,12); agisce per mezzo dell’amore fraterno (Gal 5,6; Giac 2,14-26). Si conserva in una fedeltà capace di affrontare la morte sull’esempio di Gesù (Ebr 12; Atti 7,55-60), in una fiducia assoluta in colui «nel quale ha creduto» (2Tim 1,12; 4,17s). Fede nella parola, obbedienza nella fiducia, questa è la fede della Chiesa, che separa coloro i quali si perdono - l’eretico, per esempio (Tito 3,10) - da coloro che sono salvati (2Tess 1,3-10; 1Piet 2,7s; Mc 16,16).

Il racconto della tempesta sedata rimanda al libro di Giona. Il figlio di Amittai, dal Signore Dio, era stato mandato ai Niniviti per stimmatizzare il loro peccato. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più feroce e sanguinario dell’antico Oriente. Inoltre, Ninive, città idolatra e avida di ricchezze (Cf. Na 3,1ss), come Sòdoma e Gomorra, era il simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano. Il profeta si ribella alla parola del Signore e così si mette in marcia per fuggire a Tarsis, «lontano dal Signore» (Gn 1,3): «Tarsis rappresentava, agli occhi degli ebrei, l’estremità del mondo. Giona vuol sottrarsi alla sua missione fuggendo il più lontano possibile» (Bibbia di Gerusalemme).
Imbarcatosi sulla nave, mentre imperversa una grande tempesta, Giona, come Gesù, dorme profondamente. È stupefacente come nel racconto evangelico si ritrovano gli stessi particolari del racconto di Giona: la stessa descrizione della tempesta, il sonno del personaggio principale, il terrore dei marinai, la stessa invocazione d’aiuto, il medesimo placarsi della tempesta.
Per ottenere la bonaccia, Giona verrà gettato a mare e Gesù sarà consegnato alla morte e come Giona starà tre giorni nel ventre della balena, così il Cristo resterà tre giorni nel seno della terra. Alla luce di tutto questo, il racconto di Matteo assume allora un valore e un significato molto più profondo: mentre la tempesta evoca la Passione di Gesù, il sonno ricorda la sua morte che lascerà sgomenti, atterriti i suoi discepoli. La morte di Gesù provoca nella piccola comunità una grande tempesta: l’assenza fisica di Gesù costituisce una prova per i discepoli, vissuta nello sgomento, nella paura, nello sconforto, nella tristezza. Chiusi nel cenacolo per timore dei Giudei (Cf. Gv 20,19), i discepoli si sentono soli, minacciati, abbandonati al loro destino di morte. Gesù, svegliatosi dal sonno della morte, e apparendo ai suoi li rimprovera per la loro mancanza di fede: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?» (Lc 24,38).
I discepoli non avevano messo nei loro progetti la possibilità che un giorno il Maestro si sarebbe allontanato da loro per ritornare al Padre. Pensavano di averlo sempre con loro, come parafulmine che li avrebbe messo al riparo di ogni tempesta. Ingenuamente credevano, avendo Gesù sulla barca, di possedere una sorta di assicurazione contro ogni improvvisa burrasca. Invece bisogna affrontare persino il mare in tempesta; anche se Lui, il Maestro, nella barca dorme profondamente: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro - destinato a perire e tuttavia purificato col fuoco - torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1Pt 1,6-7).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** “Che cos’è l’uomo più felice senza la fede? Un fiore in un bicchiere d’acqua, senza radici e senza durata” (Camillo Benso, Conte di Cavour).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

La divina Eucaristia, che abbiamo offerto e ricevuto, Signore,
sia per noi principio di vita nuova,
perché, uniti a te nell’amore,
portiamo frutti che rimangano per sempre.
Per Cristo nostro Signore.