5 Maggio 2019

Domenica della III Settimana di Pasqua

Oggi Gesù ci dice: “Seguimi” (Vangelo).

I Lettura - At 5,27b-32.40b.41: Il Sinedrio non vuol sentire ragione, ha paura della nuova fede e perseguita gli Apostoli nel tentativo di farli tacere. Pietro ripercorre le vicende del Cristo senza tema di annunziare la sua risurrezione e di accusare il Sinedrio di aver ucciso l’Autore della Vita. La Risurrezione di Gesù è l’evento capitale al quale tutto deve essere subordinato e orientato. Gli Apostoli sono lieti «di subire oltraggi per il nome di Gesù» perché a loro è data «la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui» (Fil 1,29). Solo lo Spirito Santo può donare questa gioia.

Salmo Responsoriale - Dal Salmo 29 (30): I. Il salmo 29 è un canto di ringraziamento per la liberazione dalla morte; il salmista, guarito prodigiosamente, ripensa ai momenti della sofferenza, ed esprime la sua gratitudine a Dio.
II La tradizione patristica legge nel salmo una profezia della risurrezione di Gesù; lo considera anche il ringraziamento di Cristo al Padre, dopo la liberazione dalla morte.
III Questo inno può giustamente essere elevato dalla Chiesa; infatti essa, riscattata in Cristo dalla morte, vede il suo pianto mutato in gioia, e la sua tristezza cambiata in canto di ringraziamento.
IV Dobbiamo abituarci a riconoscere gli interventi benefici di Dio nella nostra vita, per essere grati verso chi, spesso, cambia il nostro pianto in gioia” (Giambattista Montorsi, Salmi, Preghiera di ogni giorno).

II Lettura - Ap 5,11-14: Il 5° capitolo del libro dell’Apocalisse può essere considerato l’introduzione alle diverse sezioni che si susseguono nel libro: la sezione dei «sette sigilli» (6,1-8,1); la sezione delle «sette trombe» (8,2-11,19); la sezione delle «sette coppe» (15,1-16,21). L’Agnello è Gesù: è il Crocifisso e il Risorto; il Vivente, degno di «ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». L’aggettivo degno «non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia» (Gaetano Di Palma).

Vangelo - Dal Vangelo secondo Giovanni 21,1-19: Il brano evangelico fonde due episodi distinti: una pesca miracolosa, e un pasto postpasquale. Probabilmente il racconto della pesca miracolosa era in origine un avvenimento concernente l’inizio del ministero di Gesù, come nel vangelo di Luca. La sovrabbondanza dei pesci pescati richiama il miracolo dell’acqua mutata in vino alle nozze di Cana (Gv 2,6) e la moltiplicazione dei pani (Gv 6,11s). In alcuni particolari del racconto evangelico possiamo trovarvi significati simbolici: i pesci rappresentano i futuri discepoli di Gesù, il numero dei pesci pescati, centocinquantré, secondo un computo ben conosciuto nell’antichità, significa la moltitudine e la totalità, la rete che non si rompe simboleggia la Chiesa di cui Simon Pietro sarà il pastore. Nella triplice richiesta del Risorto Simon Pietro vi vede un richiamo al suo triplice rinnegamento (Gv 13,38; 18,17.25-27) e per questo motivo vien detto che rimase addolorato. Alla triplice professione di amore di Simon Pietro, Gesù risponde con una triplice investitura, affidando a Simon Pietro la cura di reggere in suo nome il gregge (cfr. Mt 16,18; Lc 22,31s). Simon Pietro è chiamato a seguire il Maestro fino alla morte (cfr. Gv 13,36), infatti la tradizione cristiana testimonierà il martirio di Simon Pietro a Roma durante la persecuzione dell’imperatore Nerone.

Riabilitazione e funzione di Pietro e la sua futura sorte - Angelico Poppi (I Quattro Vangeli): Prima di costituirlo pastore del gregge, Gesù offre a Pietro l’opportunità di riparare il triplice rinnegamento con una triplice affermazione di amore. È la riabilitazione.
Il mandato affidato a Pietro per tre volte ribadisce innanzitutto la dimensione missionaria della chiesa, fortemente sottolineata nel racconto della pesca, ma indica anche il conferimento a Pietro di un incarico specifico. L’immagine del pastore nell’antichità era spesso associata all’idea del potere regale. Nella Bibbia Dio stesso è presentato di frequente come pastore d’Israele (cf. Gn 49,24; Os 4,16; Ger 23,1-6; 31,10; Ez 34; Is 40,11; Sal 23; 80,2). Tale autorità fu conferita a Gesù, il quale si proclamò il Buon Pastore delle pecore, affidategli dal Padre (10,11-18). Ora Gesù a sua volta affida a Pietro le sue pecore, che gli appartengono come proprietà, di cui è estremamente geloso. Il triplice comando dinanzi agli altri discepoli come testimoni dà maggiore rilievo all’investitura pastorale di Pietro.
Ma quale tipo di autorità Gesù ha conferito a Pietro? Sant’Ambrogio afferma in forma plastica: «Egli (Gesù) ci lasciò Pietro come vicario del suo amore» (PL 15,1848). Il servizio di Pietro implica una profonda unione a Cristo con la disposizione a donare la propria vita per lui. «Su questo impegno di amore totale e di condivisione del destino di Gesù si fonda anche l’incarico di curare e guidare la comunità dei discepoli cre­denti in Gesù» (Fabris, p. 1086).

Simone, figlio di Giovanni: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 9 dicembre 1992): Quando Gesù sta per conferire la missione a Pietro, si rivolge a lui con un appellativo ufficiale: “Simone, figlio di Giovanni” (Gv 21,15), ma assume poi un tono familiare e d’amicizia: “Mi ami tu più di costoro?”. Questa domanda esprime un interesse per la persona di Simon Pietro e sta in rapporto con la sua elezione per una missione personale. Gesù la formula a tre riprese, non senza un implicito riferimento al triplice rinnegamento. E Pietro dà una risposta che non è fondata sulla fiducia nelle proprie forze e capacità personali, sui propri meriti. Ormai sa bene che deve riporre tutta la sua fiducia soltanto in Cristo: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21,17). Evidentemente il compito di pastore richiede un amore particolare verso Cristo. Ma è lui, è Dio che dà tutto, anche la capacità di rispondere alla vocazione, di adempiere la propria missione. Sì, bisogna dire che “tutto è grazia”, specialmente a quel livello! E avuta la risposta desiderata, Gesù conferisce a Simon Pietro la missione pastorale: “Pasci i miei agnelli”; “Pasci le mie pecorelle”. È come un prolungamento della missione di Gesù, che ha detto di sé: “Io sono il buon Pastore” (Gv 10,11). Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli... le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro.

Simon Pietro pietra della Chiesa di Cristo - Catechismo della Chiesa Cattolica 881: Del solo Simone, al quale diede il nome di Pietro, il Signore ha fatto la pietra della sua Chiesa. A lui ne ha affidato le chiavi; l’ha costituito pastore di tutto il gregge. «Ma l’incarico di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo» (Lumen gentium, 22). Questo ufficio pastorale di Pietro e degli altri Apostoli costituisce uno dei fondamenti della Chiesa; è continuato dai vescovi sotto il primato del Papa.

Simon Pietro l’eletto - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Giovanni): Simon Pietro era l’eletto per antonomasia al quale Cristo stesso aveva affidato la guida suprema della Chiesa e che quindi aveva ricevuto da lui un particolare ammaestramento.
Ma egli aveva rinnegato il Signore per ben tre volte e quindi ci si poteva chiedere se non avesse per questo perduto la sua autorità. La questione è di un’importanza essenziale: il peccato può privare dell’autorità? O me­glio: l’autorità dipende dalla santità di chi ne è investito?
La risposta la dà questa scena, che si svolge sulle rive del lago di Genezaret: Simone non ha perduto l’autori­tà, la promessa di Gesù sarà mantenuta. Nonostante la triplice negazione, Cristo gli conferisce solennemente l’autorità di guida suprema. Pietro sarà il sommo pastore visibile del suo gregge.
La triplice affermazione ha prima di tutto un significato giuridico, perché esprime la solennità del conferi­mento, dando a quest’ultimo un carattere legale. Ha però anche un significato morale, in quanto ricorda a Pie­tro la sua triplice caduta. Questi se ne accorge e si addolora, ma espia il suo fallo con l’amore.
L’autorità gli viene conferita nonostante la sua debolezza e peccaminosità. Perciò l’esercizio dell’autorità è in­dipendente dalla santità e dalla grandezza morale di chi ne è investito. Ma d’altra parte ogni persona investita di autorità deve curare di mantenersi spiritualmente all’altezza della propria autorità, in modo da esercitarla con la giusta disposizione d’animo, che è quella dell’amore.
Fare penitenza non vuole dire irrigidirsi nel dolore, frugare nel passato; il pentimento non è un complesso di inferiorità o uno stato di desolazione, ma è un rinnovamento compiuto dall’amore e precisamente dall’amore fondato sull’umile sottomissione.
La risposta è quindi chiara: l’autorità è indipendente dalle disposizioni interiori; però, chi ne è investito deve cercare di avere quelle disposizioni, che consistono poi in un umile amore a Cristo Signore. In questo episodio trova soluzione il problema dei papi indegni, dei sacerdoti sacrileghi, dei cristiani peccatori.

Molti nell’unica barca che si spinge al largo per la pesca ravvisano la barca di Pietro, e quindi la Chiesa e nella rete che non si rompe credono di intravedere il simbolo dell’unità della Chiesa. La Chiesa è una per la sua origine: «Il supremo modello e il principio di questo Mistero è l’unità nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo» (CCC 813). La Chiesa è una per il suo Fondatore: «Il Figlio incarnato, infatti... per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio, ... ristabilendo l’unità di tutti i popoli in un solo Popolo e in un solo corpo» (CCC 813; cfr. Unitatis redintegratio, 1: «Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica»). La Chiesa è una per la sua anima: «Lo Spirito Santo, che abita nei credenti e tutta riempie e regge la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei credenti e tanto intimamente tutti unisce in Cristo, da essere il principio dell’unità della Chiesa» (CCC 813). Dunque è «proprio dell’essenza stessa della Chiesa di essere una: Che stupendo mistero! Vi è un solo Padre nell’universo, un solo Logos dell’universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è ance una sola vergine divenuta madre, e io amo chiamarla Chiesa» (CCC 813). Tale unità dell’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, senza possibilità di essere perduta (cfr. UR 4; LG 8). Tutti gli uomini sono «chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza» (LG 13). A motivo di tale unità la Chiesa non deve lacerarsi con scismi e fazioni. Le divisioni tra i cristiani impediscono che la chiesa attui in essi l’unità e la cattolicità che le sono proprie, e come rigurgito tali divisioni impediscono alla Chiesa di realizzare in modo pieno la pace, la concordia e la fratellanza tra i popoli. Non c’è da attendere che una nuova Pentecoste che infiammi i cuori e li muova all’unità: il tema centrale della preghiera che Gesù innalzò al Cielo prima di consegnarsi alla Passione (Gv 17).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Padre misericordioso, accresci in noi la luce della fede, perché nei segni sacramentali della Chiesa riconosciamo il tuo Figlio, che continua a manifestarsi ai suoi discepoli, e donaci il tuo Spirito, per proclamare davanti a tutti che Gesù è il Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te...



4 Maggio 2019

Sabato della II Settimana di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: «Sono io, non abbiate paura!» (Vangelo)

Vangelo - Dal Vangelo secondo Giovanni 6,16-21: Il sesto capitolo si articola in quattro parti. La prima parte va dal versetto 1 fino al versetto 15: Gesù manifesta il suo potere taumaturgico alla folla moltiplicando cinque pani d’orzo e due pesci e sfamando cinquemila uomini; la seconda parte va dal versetto 16 al versetto 21: Gesù  manifesta il suo potere ai discepoli camminando sul mare. La terza parte va dal versetto 22 al versetto 59: Gesù rivela alla folla di essere il “pane della vita”:  «Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame e che crede in me non avrà sete, mai!» (v. 35). Nella quarta parte, che va dal versetto 60 al versetto 71, Giovanni mette in luce la crisi dei discepoli.
Nel vangelo di oggi, “Gesù cammina sul mare”, si possono mettere a fuoco due temi: la paura dei discepoli: la barca di Pietro sta per sprofondare negli abissi del mare a motivo del mare agitato e del forte vento. Al di là della furia della natura, si può evidenziare che lì dove non vi è la “presenza di Gesù”, tutto rischia di affondare, invece, dove è presente Gesù subito si instaura un clima di gioia, di sicurezza e di pace, la barca, dove è Gesù, facilmente raggiunge il porto: “«Sono io, non abbiate paura!». Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti”.
Il secondo tema, è l’iniziativa di Dio che precede sempre quella dell’uomo. Non sono i discepoli in difficoltà a invocare l’aiuto di Gesù, e Gesù che va incontro ai suoi discepoli. La salvezza è un dono, è Gesù che si “avvicina alla barca” per salvare coloro che sono destinati a un sonoro naufragio.

Gesù cammina sulle acque - Rudolf Pesch: Come il racconto della tempesta sedata, anche il camminare di Gesù sulle acque è considerato dall’indagine odierna una storia prodigiosa di un’epifania alla cui stesura ha portato non tanto (o affatto) un ricordo storico, quanto l’adesione a Cristo e l’interesse legato alla predicazione. La pericope ci è trasmessa in due diverse versioni, in Mc 6,45-52 e Gv 6,16-21; Mt 14,22-23 è un’elaborazione redazionale dell’originale di Mc con l’aggiunta del racconto di Pietro che cammina sul lago. Il taglio dato dalla predicazione al racconto originario, riconoscibile in entrambe le versioni (Mc e Gv), mira chiaramente a celebrare Gesù come il Signore che come JHWH stesso incede da signore sulle profondità del mare, sull’elemento caotico (cf. riguardo a Mc 6,48/Gv 6,19: Gb 9,8; Sal 77,20; Is 43,16). Con la formula rivelatoria “sono io” (Mc 6,50/Gv 6,20) Gesù si presenta ai discepoli e viene incontro alla loro paura, dovuta all’epifania del divino, con l’antico incoraggiamento “non temete”. Questa storia kerygmatica di un prodigio, i cui singoli elementi sono posti totalmente al servizio dell’affermazione centrale che si vuole annunciare (“Gesù come divino Signore”), non dovrebbe essere ritenuta un racconto pasquale predatato nella vita di Gesù.

Venuta intanto la sera, i  discepoli di Gesù scesero al mare, salirono sulla barca, probabilmente è la barca di Pietro, nella quale la tradizione cristiana unanimemente vede l’immagine della Chiesa. La barca è ancora distante da terra ed è scossa dalle onde, il mare era agitato e soffiava un forte vento. In questa scena, in un contesto di tempesta e di paura, emerge la tempra dei discepoli, ma anche la loro natura tutta umana. I discepoli sono uomini rotti ad ogni tipo di fatica, ma pur sempre uomini, con le loro paure, con la loro stanchezza, con quella ottusa capacità di conoscere, di capire, di cogliere in tutta la sua interezza la verità. Non riconoscono Gesù che cammina sulle acque, forse credono di vedere un fantasma. Ebbero paura, ma la voce del Maestro ricolma il loro cuore di gioia e di speranza. Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti. Nell’Antico Testamento il potere camminare sulle acque, così come quello di calmare le tempeste, è attribuito a Iahvé (cfr. Sal 65,7; 77,20; 89,9-10; Gb 9,8; 26,11-12; 38,16; Sir 24,5-6; Is 43,16). Intenzionalmente è una professione di fede della comunità primitiva nella divinità di Gesù. Al di là della storicità dell’episodio, si può cogliere un messaggio altamente parenetico: Gesù risorto è sempre presente nella sua Chiesa e se i marosi sembrano far affondare la barca di Pietro occorre continuare, nonostante tutto, ad avere fiducia nella potenza della sua Presenza, la quale rende possibile la prosecuzione della navigazione. A tutti i naviganti più o meno esperti, Gesù continua a ripetere, «Sono io, non abbiate paura!».  Così l’episodio illumina la vita cristiana fatta a volte anche di affondamenti.

Sono io non abbiate paura - Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 9 Settembre 1987): È Dio-Figlio consustanziale al Padre (e allo Spirito Santo), nell’espressione “Io Sono”, che Gesù Cristo utilizza nei riguardi della propria persona, troviamo un’eco del nome con il quale Dio ha manifestato se stesso parlando a Mosè (cf.Es 3,14). Poiché Cristo applica a se medesimo lo stesso “Io Sono” (cfr. Gv 13,19), occorre ricordare che questo nome definisce Dio non soltanto quale Assoluto (esistenza in sé dell’Essere per se stesso), ma colui che ha stipulato l’alleanza con Abramo e con la sua discendenza e che, in forza dell’alleanza, manda Mosè a liberare Israele (cioè i discendenti di Abramo) dalla schiavitù di Egitto. Così dunque quell’“Io Sono” contiene in sé anche un significato soteriologico, parla del Dio dell’alleanza che è con l’uomo (come con Israele) per salvarlo. Indirettamente parla dell’Emmanuele (cfr. Is 7,14), il “Dio con noi”. L’“Io Sono” di Cristo (soprattutto nel Vangelo di Giovanni) deve essere inteso nello stesso modo. Senza dubbio esso indica la preesistenza divina del Verbo-Figlio (se ne è parlato nella catechesi precedente), ma, nello stesso tempo, richiama il compimento della profezia d’Isaia circa l’Emmanuele, il “Dio con noi”.“Io Sono” significa quindi - sia nel Vangelo di Giovanni sia nei Vangeli sinottici - anche “io sono con voi” (cfr. Mt 28,20). “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16,28) “... a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). La verità circa la salvezza (la soteriologia), già presente nell’Antico Testamento nella rivelazione del nome di Dio, viene riconfermata ed espressa fino in fondo dall’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo. Proprio in tale senso “il Figlio dell’uomo” è vero Dio: Figlio della stessa sostanza del Padre, che ha voluto essere “con noi” per salvarci.

La rivelazione della divinità di Gesù: «Io sono»: Salvatore Alberto Panimolle (Lettura pastorale del Vangelo di Giovanni): [...] l’espressione: «Io sono» (Gv 6,20), che si trova anche nei passi paralleli dei sinottici (Mc 6,50 e par.). nel quarto vangelo riveste un significato speciale, dato il caratteristico uso giovanneo per indicare che il Cristo è il Signore. «In Gesù si manifesta la presenza di Dio maestosa e potente, libera, salvifica. Tutto questo è racchiuso nell’affermazione Io sono (v. 20), che è l’equivalente del nome divino ed è indubbiamente il punto centrale dell’intero episodio. Gesù sceglie la via del mare non tanto per affrettarsi in aiuto dei discepoli, quanto per affermare che è il Signore. l’Io sono»?”.
In realtà la locuzione «Io sono» per Giovanni significa che Gesù di Nazaret è Dio, come lo è Jahvè (Gv 8,24.28.58; ecc.). Il Verbo incarnato infatti dichiara che per non morire nei peccati bisogna credere che egli è il Signore; «Se non credete che Io sono» (Gv 8,24). Dalla croce Gesù rivelerà questa sua natura divina (Gv 8,28). Anzi allorché il Maestro pronuncia l’espressione divina «Io sono», i suoi nemici si prostrano davanti a lui (Gv l8,6).
Alla luce dell’Io sono il segno della traversata sul mare in tempesta nel quarto vangelo i presenta come un evento di rivelazione. Con questo gesto Giovanni vuoi mostrare la condizione divina di Gesù. Le parole «ego eimi» «nei sinottici sono soprattutto un modo di farsi riconoscere (non si tratta dì un fantasma!), quantunque non sfugga il tono solenne di questa epifania ... Ma per l’evangelista (Giovanni), che l’aveva già preparato (v. 17b), queste parole diventano totalmente un’autoqualificazione di Gesù, un’automanifestazione divina. Questo è, per lui, non soltanto il punto culminante, ma anche la principale ragione per cui ha accolto questo racconto nella sua esposizione”.
Il Verbo incarnato, camminando sulle acque e proclamando Io sono, si rivela come vero Dio, a somiglianza di Javhé, la cui via passava sul mare e i cui sentieri sono nelle grandi acque (Sal 77,20).
In realtà la locuzione «Ego eimi» nei LXX, soprattutto in Es 3,14 e nel libro del Deutero-Isaia, indica il nome del Signore, in quanto è fedele all’alleanza. Il quarto evangelista mette sulla bocca di Gesù questa espressione sacra per proclamare la sua divinità.

Gesù Cristo è nostro Signore secondo le due nature - Catechismo Tridentino 40: NOSTRO SIGNORE. Le sacre Scritture attribuiscono al Salvatore molteplici qualità, di cui alcune chiaramente gli spettano come Dio, altre come uomo, avendo Egli in sé, con la duplice natura, le proprietà rispettive. Rettamente dunque dicevamo che Gesù Cristo, per la sua natura divina, è onnipotente, eterno, immenso; mentre per la sua natura umana, diciamo che ha patito, è morto, è risorto. Ma, oltre questi, altri attributi convengono a entrambe le nature, come quando, in questo articolo, lo diciamo nostro Signore; a buon diritto del resto, potendosi riferire tale qualifica all’una e all’altra natura. Infatti egli è Dio eterno come il Padre; cosi pure è Signore di tutte le cose quanto il Padre. E come egli e il Padre non sono due distinti Dei, ma assolutamente lo stesso Dio, così non sono due Signori distinti. Ma anche come uomo, per molte ragioni è chiamato Signore nostro. Innanzi tutto perché fu nostro Redentore e ci liberò dai nostri peccati, giustamente ricevette la potestà di essere vero nostro Signore e meritarne il nome. Insegna infatti l’Apostolo: Si umiliò, fattosi ubbidiente fino alla morte e morte di croce; per cui Dio lo ha esaltato, conferendogli un nome, che è sopra ogni altro, onde al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, in cielo, in terra, nell’inferno; e ogni lingua proclami che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre (Filipp. 2,8-11). Egli stesso disse di sé dopo la risurrezione: Mi è stato conferito ogni potere in cielo e sulla terra (Mt 28,18). Inoltre è chiamato Signore per aver riunito in una sola Persona due nature, la divina e l’umana. Per questa mirabile unione meritò, anche senza morire per noi, d’essere costituito quale Signore, sovrano di tutte le creature in genere, e specialmente dei fedeli che gli obbediscono e lo servono con intimo affetto.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, uguale al Padre nella divinità, in tutto simile a noi nell’umanità, eccetto il peccato. Il Figlio eterno di Dio si è fatto uomo, per renderci partecipi della sua vita filiale e introdurci nell’intimità del Padre.” (Catechismo degli Adulti 314).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Padre, che ci hai donato il Salvatore e lo Spirito Santo, guarda con benevolenza i tuoi figli di adozione, perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…



3 Maggio 2019

Venerdì della II Settimana di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Vangelo)

Dal Vangelo secondo Giovanni 14,6-14: Chi ha visto me, ha visto il Padre: Gesù è la rivelazione perfetta e personale del Padre, ma tale rivelazione può essere intellegibile solo con la fede. Proprio per questo la risposta di Gesù inizia con queste parole: Non credi?, e un po’ più avanti, rivolgendosi a tutti gli Apostoli, dirà: Credete in me. Questa ineffabile verità la si può applicare anche ai credenti, essi, infatti, sono inabitati dalla santissima Trinità, e chi crede nel Figlio compirà le opere che Egli compie e ne compirà di più grandi.

Io sono la via che conduce al Padre - Catechismo della Chiesa Cattolica 2608-2609: Fin dal discorso della montagna, Gesù insiste sulla conversione del cuore: la riconciliazione con il fratello prima di presentare un’offerta sull’altare, l’amore per i nemici e la preghiera per i persecutori, la preghiera al Padre “nel segreto” (Mt 6,6), senza sprecare molte parole, il perdono dal profondo del cuore nella preghiera, la purezza del cuore e la ricerca del Regno. Tale conversione è tutta orientata al Padre: è filiale.
Il cuore, deciso così a convertirsi, apprende a pregare nella fede. La fede è un’adesione filiale a Dio, al di là di ciò che sentiamo e comprendiamo. È diventata possibile perché il Figlio diletto ci apre l’accesso al Padre. Egli può chiederci di “cercare” e di “bussare”, perché egli stesso è la porta e la via.

Io sono la via: Anselm Urban: Non fa meraviglia che il popolo nomade d’Israele intendesse la propria storia come un cammino iniziato già col suo capostipite: obbedendo alla chiamata di Dio, Abramo si avvia verso un paese sconosciuto (Gen 12,1), con la promessa, tuttavia che JHWH sarebbe stato con lui (26,3); questa è l’alleanza di Dio con gli uomini. Lo stesso Israele dovette abituarsi, attraversando il deserto, a essere in cammino con Dio, tra promessa e tentazione (1Cor 10,1-11; Eb 3,7-4,11). Il dono dell’alleanza dii JHWH è la sua istruzione, cioè l’intera storia vissuta di Dio come guida. Dopo essersi sedentarizzato, il popolo è stato richiamato continuamente alla provvisorietà della meta raggiunta: si deve mangiare l’agnello pasquale (Es 12,11) pronti a partire; in un’altra festa bisogna abitare in capanne di frasche (Lv 23,42ss) e tre volte all’anno occorre mettersi in cammino per il pellegrinaggio al santuario. Ma Israele si allontana di continuo dalla via (Dt 11,28). Perciò risuona l’appello costante dei profeti: “Convertitevi dalle vostre vie malvagie!” (2Re 17,13). Ma anche quando JHWH deve castigare, le sue vie sovrastano quelle degli uomini quanto il cielo sovrasta la terra (Is 55,9): egli sopraggiunge con una nuova salvezza e i suoi araldi gli preparano la via nel deserto (Is 40,3s). Anche i saggi vogliono condurre sulla retta via e mettere in guardia dalle false via: l’una infatti porta alla vita, l’altra alla morte (Pr 12,28; Sai 1). Un’immagine simile è usata da Gesù in Mt 7,13s. Gesù stesso ha condotto una vita itinerante senza “tana e nido” (Mt 8,20) e chi lo vuol seguire deve essere altrettanto pronto ad abbandonare tutto (Mt 19,29). Gesù non insegna però soltanto la via di Dio secondo verità (Mt 22,16); egli stesso, secondo Gv 14,6, è “la via” che è la sola a portare al Padre.

Io sono la vita - Catechismo della Chiesa Cattolica 2697:  La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi, invece, dimentichiamo colui che è la nostra Vita e il nostro Tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio e dei profeti, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: “È necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto si respiri”. Ma non si può pregare “in ogni tempo” se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata.

Io sono la vita - Odilio Kaiser: La vita nel Nuovo Testamento è un contenuto centrale dell’annuncio di fede giovanneo. Già linguisticamente Giovanni distingue tra “la vita” (= vita eterna: zoè) e la vita fisica (bios, psychè) e le sue espressioni. Dio è la vita nella pienezza, a) Per questo egli è il fondamento originario dal quale viene ogni vita (1,1-4). Come il Padre così anche il Figlio ha la vita “in se stesso” (5,26). b) L’uomo deve avere “la vita, poiché in vista di lui ha avuto luogo l’invio del Figlio (10,10). Soltanto nel Figlio l’uomo riesce ad aver parte alla vita che viene da Dio (14,6) e che Dio come Padre vuole donare per mezzo del Figlio suo (3,16). L’accesso alla vita si dischiude per mezzo della fede nel Figlio (3,36); l’incredulità esclude dalla vita (qui si capisce che non si tratta di vita fisica). Colui che crede “ha” la vita eterna (6,47). La conoscenza, acquisita nella fede, della realizzazione della volontà salvifica di Dio nell’evento Cristo “è” la vita eterna (17,3). La parola del Figlio è “Spirito e vita” (6,63). La condizione dell’uomo si rivela nella risposta credente e professante di Simon Pietro: soltanto “il Signore” ha parole “di vita eterna” (6,68). Il Cristo è il pane di vita (6,35); mangiare la sua carne e bere il suo sangue dona la vita (6,53s). Clamore è l’espressione della vita (15,9-13). c) Dio è il signore “della” vita e della morte. La sua potenza, che si manifesta nell’evento Cristo, non conosce limiti nemmeno davanti alla morte fisica. Questa convinzione di fede si riflette nella certezza della risurrezione nell’ultimo giorno (6,40.44.54).

Vivere nella verità - Catechismo della Chiesa Cattolica 2465-2466: L’Antico Testamento lo attesta: Dio è sorgente di ogni verità. La sua Parola è verità. La sua legge è verità. La sua “fedeltà dura per ogni generazione” (Sal 119,90). Poiché Dio è il “Verace” (Rm 3,4), i membri del suo popolo sono chiamati a vivere nella verità.
In Gesù Cristo la verità di Dio si è manifestata interamente. “Pieno di grazia e di verità” ( Gv 1,14 ), egli è la “luce del mondo” ( Gv 8,12 ), egli è la Verità. “Chiunque crede” in lui non rimane “nelle tenebre” (Gv 12,46). Il discepolo di Gesù rimane fedele alla sua parola, per conoscere la verità che fa liberi e che santifica. Seguire Gesù, è vivere dello “Spirito di verità” (Gv 14,17) che il Padre manda nel suo nome e che guida alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Ai suoi discepoli Gesù insegna l’amore incondizionato della verità: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no” (Mt 5,37).

La verità per i cristiani - Saturnino Muratore: La verità si lega profondamente al vivere della persona e si regge sul presupposto di una “verità dell’uomo”. Questa verità va appassionatamente cercata e può essere riconosciuta solo attraverso la fatica dell’intelligenza e l’integrazione di tutti i saperi, nessuno escluso. La legittimità di questo cammino è dischiusa già nello stesso umano interrogare e interrogarsi: poiché comprende impli­citamente la fiducia in una possibile risposta, l’interrogarsi umano giustifica l’aspirazione alla verità e la apre a un trascendimento dei dati naturali. In questo senso la tradizione cristiana parla di una veritas rei (verità della cosa), costitutiva di ogni realtà creata e vede Dio, quale Ipsa Veritas (Verità stessa), come la ragione ultima dello spessore obiettivo della verità.
Si intuiscono così le sorprendenti possibilità del linguaggio cristiano. La verità (in greco alétheia da a-lanthàno, negazione del nascondersi, lo svelarsi, il venire alla luce) non si nasconde ma ci viene incontro nel Signore Gesù: in lui, rivelatore del Padre, ci è svelato il senso ultimo e profondo della creazione e della storia umana. “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), proclama di sé Gesù, che si presenta come la “verità che rende liberi” (Gv 8,31). La verità è il libero comunicarsi di Dio in Gesù: nella mediazione della sua persona, nella mediazione di un incontro che si serve delle parole e dei segni propri del vivere umano, è possibile accedere a una verità superiore, è possibile accedere a una verità che trasforma le nostre esistenze. In Gesù-Verità ci è dischiuso il senso ultimo della vita umana e cosmica: la verità ultima è l’amore. La domanda scettica di Pilato “Che cosa è la verità?” (Gv 18,38) ci ricorda bene che questa verità può essere accolta solo nel­la fede, solo nella rinuncia alla presunzione di un autonomo accesso alla verità e dalla presa di distanza dallo scoraggiamento di chi si rassegna ai suoi limiti.
La tradizione cristiana chiama “Rivelazione” questo venirci incontro della verità. Riconoscerla significa ricordare che questa verità continua a operare tra noi attraverso lo Spirito di verità: nella contemplazione orante e nell’obbedienza della fede, la verità lievita la vita della Chiesa e dà vita a una lunga tradizione religiosa. Riconoscerla significa guardare alla storia non solo come il luogo dell’agire libero e razionale dell’uomo ma anche come il risultato della misericordiosa presenza di Dio che opera con noi. Riconoscerla significa pure evitare ogni assolutizzazione del proprio punto di vista o del proprio sapere, gettando così le basi di un autentico e costruttivo dialogo tra diversi.

Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre . Richard Gutzwiller (Meditazioni su Giovanni): La maggior grandezza delle opere compiute dai suoi, si manifesta nel fatto che l’opera sua, la Chiesa, da Lui sviluppata solo entro i ristretti confini di Israele, dopo la sua morte si è dilatata sino ai confini del mondo. La redenzione non si diffonderà più da uomo a uomo soltanto, ma da popolo a popolo. Tutto ciò cui egli ha dato l’avvio nel campo della dottrina, della liturgia, dei sacramenti, della gerarchia, ha raggiunto in seguito il suo pieno sviluppo, in modo che l’opera umana sembra più grande di quella compiuta dal Signore: in realtà, non si tratta di altro che dello sviluppo del seme che egli ha gettato nel terreno, della dilatazione del messaggio che egli è venuto a portare. Ma c’è di più: la stessa prodigiosa espansione è dovuta a lui, che intercede per gli uomini presso il Padre ed esaudisce le loro suppliche e le loro preghiere.
Cristo indica dunque agli uomini tre fattori: il fine a cui essi devono tendere, cioè il cielo che è la loro patria; la via per giungervi, che è lui stesso; e le opere che essi devono compiere sulla terra, ossia le opere che proma­nano dalla fede e dall’unione con lui.
Perciò il suo congedo è, a rigor di termini, solo apparente, e non reale. Le parole di addio da lui dette in que­sta prima parte dimostrano che egli rimarrà spiritualmente tra i suoi.
I profondi misteri che qui vengono svelati sono: l’essenza e l’opera di Cristo, la natura della Chiesa, il senso della vita cristiana, la potenza della fede e della preghiera, l’importanza delle opere e il significato che assumo­no - in Cristo e per Cristo - la vita, la storia e il mondo intero.
Non si tratta dunque di un congedo, ma di una rinnovata ed approfondita rivelazione di Cristo alla ristretta famiglia dei suoi, che ora deve essere capace di accogliere e di comprendere il suo grande messaggio di verità. Si spiega allora perché ad esso Gesù premetta le parole: «Voi credete in Dio, credete anche in me». Tutte le verità rivelate da Cristo in questa circostanza, sono verità di fede, che non ammettono una prova razionale né un’analisi sperimentale; ma per la fede - e quindi per il credente - sono più importanti di qualsiasi altra affer­mazione controllabile dai sensi.
Da questa fede il credente riceve una vita che ignora la morte, e quindi non dà luogo ad una separazione, ma conduce alla pienezza ed alla perfezione.
Questo è il motivo per cui il cristiano sta su un piano completamente diverso da quello in cui vive l’incredulo. La sua concezione della vita e le sue modalità di esistenza sono del tutto differenti. Essere cristiano non vuol dire aggiungere qualcosa alla vita in genere, ma comporta un mutamento così radicale che tutte le cose assumono una nuova forma e un nuovo aspetto. Chi ha compreso questo non è più angosciato dal pensiero della morte e dell’ai di là: «Non si turbi il vostro cuore». Il cristiano è nella mente, nella vita e soprattutto nel cuore un altro uomo, che vive in Cristo, di Cristo e per Cristo.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.” (Vangelo) 
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O Dio, nostro Padre, che rallegri la Chiesa con la festa degli apostoli Filippo e Giacomo, per le loro preghiere concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



2 Maggio 2019

Giovedì della II Settimana di Pasqua


Oggi Gesù ci dice: “Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa.” (Vangelo). 

Dal Vangelo secondo Giovanni 3,16-21: Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa: per volontà del Padre, tutto è in mano del Figlio, cioè tutto è in suo potere (cfr. Gv 13,3). Tale potestà è il fondamento della regalità del Cristo che egli inaugurerà il giorno della sua esaltazione (cfr. Gv 12,32), quando il principe di questo mondo sarà gettato fuori (Gv 12,31).

Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): I verss. 31-36 costituiscono una sezione a parte che non presenta dei legami logici con quanto è stato detto precedentemente (verss. 25-30). Numerosi esegeti ritengono che in questi verss. siano contenute delle riflessioni dell’evangelista, aggiunte dopo che egli ha riferito la testimonianza del Precursore. Come si è già accennato, vari studiosi pensano che la presente sezione (verss. 31-36) vada congiunta con i verss. 16-21 e che formi con essi un unico blocco letterario. In tal modo si otterrebbe il seguente ordine di fatti: a) l’incontro di Gesù con Nicodemo (3,1-15); b) il commento dell’evangelista sul mistero dell’incarnazione (3,16-21,31-36); c) la disputa dei discepoli di Giovanni con il giudeo (3,22-30); d) la partenza di Gesù per la Galilea (4,1-4). Non si può negare che i verss. 31-36 tocchino un argomento differente da quello sviluppato nei versetti precedenti (verss. 27-30), ma è difficile imporre dei rigidi criteri di logica ad uno scrittore come Giovanni, che ha un suo genio letterario e segue un proprio metodo personale e indipendente; egli infatti ama ripetersi ritornando su quanto ha detto, così come ama compiere delle digressioni. Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; l’espressione indica chiaramente Gesù, colui che viene dall’alto (ἄνωθεν) e dal cielo (ἐκ τοῦ οὐρανοῦ).Chi è dalla terra appartiene alla terra...; abbiamo tradotto fedelmente il testo greco che ripete tre volte l’espressione ἐκ τῆς γῆς (resa in italiano differentemente: dalla terra; alla terra; della terra). Gli esegeti non sono concordi nell’indicare la persona o le persone a qui alludono le parole: «chi è dalla terra». Molti ritengono che l’espressione designi il Battista, che è considerato come un semplice uomo; sembra tuttavia poco verosimile che il quarto evangelista si esprima in tal modo per indicare il Precursore, di cui riconosce la posizione privilegiata di inviato di Dio e di testimonio del Messia. Altri pensano che l’autore voglia accennare ai discepoli di Giovanni, i quali hanno mostrato di essere «della terra», perché non hanno afferrato il senso della testimonianza del loro maestro. Probabilmente l’espressione va intesa come una formula indeterminata con la quale l’evangelista designa gli uomini in generale; in tal modo si distingue nettamente l’origine celeste di Gesù e l’origine terrestre di tutti gli uomini. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti; la seconda parte della proposizione manca in alcuni manoscritti; alcuni critici la omettono e traducono: «Chi viene dal cielo attesta ciò che ha veduto ed ascoltato» (così traduce la Bible de Jérusalem). Altri critici, al contrario, accolgono la ripetizione «è al di sopra di tutti», perché è dello stile del quarto evangelista ripetersi ed amare le ridondanze espressive.

Mario Galizzi (Vangelo di Giovanni): Ci sembra fin troppo chiaro che qui non è il Battista che parla, ma l’evangelista che, senza ripetersi troppo, riflette sulla trascendenza di Gesù e, come nella precedente meditazione (3,16-21), ci parla del Padre quale mandante, del Figlio quale inviato e degli uomini in relazione alla missione di Ge­sù, il Figlio.
Prima si era detto: «Tanto Dio ha amato il mondo»; ora si dice: Dio ama il Figlio e ha posto tutto nelle sue mani, un’affermazione che avrà ampi sviluppi nei seguenti capitoli, ma che trova già qui una prima applicazione.
Il Figlio vi appare rivestito di ogni potere e dotato della pienezza dello Spirito. È perciò perfettamente qualificato per il suo compito messianico. Tanto più che egli, a differenza di coloro che sono dalla terra, viene dal cielo, e quale Figlio di Dio è davvero al di sopra di tutti. Venendo dal cielo, egli può davvero dare testimonianza di ciò che ha visto e udito; quale inviato può davvero comunicarci le parole di Dio (3,32.34). Egli infatti quale Figlio unigenito è sempre accanto al Padre ed è l’unico che può rivelarci il Padre (1,18).
L’evangelista lo contempla in questa sua attività e, osservando la reazione degli uomini, usa, come ha fatto in 1,11 e 3,19, una frase assoluta e dice: Nessuno accoglie la sua testimonianza (3,32), ma subito, come nei due passi preceden­ti, si corregge, e qui aggiunge: Chi però l’accoglie certifica che Dio è veritiero (3,33). La fede non è solo adesione e accoglienza di Gesù, l’inviato: è anche riconoscimento dell’amore del Padre, dichiarazione solenne, contrassegnata dal proprio sigillo (per rendere meglio l’originale), che Dio è veritiero, cioè leale, fedele, perché in Gesù rivela pienamente la sua fedeltà alle promesse e si rivela come «un Dio di vita»: Chi infatti crede nel Figlio ha la vita eterna, cioè partecipa fin d’ora alla vita divina.
Non così chi non crede. Costui viene definito come colui che non ubbidisce al Figlio (3,36). Di lui si è detto in 3,18 che è già condannato ... , qui si dice che su di lui rimane l’ira di Dio, cioè la riprovazione di Dio e, usando il futuro, si afferma che non vedrà la vita, cioè: finché rimane nella disubbidienza, è tagliato fuori dalla vita.
Il Figlio quindi non si presenta soltanto come l’unico e definitivo rivelatore, ma anche come l’unico Salvatore. È il tema del capitolo 4.

Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti... - Silvano fausti (Una comunità legge il Vangelo di Giovanni): v. 31: chi viene dall’alto, ecc. Giovanni, da qui al v. 36, fa propria la testimonianza di Gesù davanti a Nicodemo.
chi è dalla terra, ecc. Mosè e i profeti sono terra (v. 12). Da loro viene la legge (1,17) e la testimonianza della luce (1,6-9). Ma non sono la vita né la luce. Ciò che è generato dalla carne è carne (v. 6). Da Gesù invece riceviamo grazia su grazia (1,16), perché egli è la luce e la vita: da lui riceviamo il dono dello Spirito, che ci genera dall’alto e ci fa diventare figli di Dio.
La terra non può salire al cielo, ma può attenderlo e accoglierlo, perché scende dall’alto.

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna - Benedetto XVI (Udienza Generale, 2 novembre 2011): L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: «Io so­no la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,25-26). Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr. Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Gv 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo «da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha at­traversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare senza alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attra­verso l’oscurità.

La vita eterna altro non è che la partecipazione dei credenti alla vita stessa di Gesù risorto: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 16 dicembre 1998): Punto di partenza della nostra riflessione sono le parole del Vangelo, che ci additano in Gesù il Figlio e il Rivelatore del Padre. Il suo insegnamento, il suo ministero, il suo stesso stile di vita, tutto in Lui rinvia al Padre (cfr. Gv 5,19.36; 8,28; 14,10; 17,6). Questi è il centro della vita di Gesù, e a sua volta Gesù è l’unica via per accedere al Padre. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Gesù è il punto di incontro degli esseri umani con il Padre, che in Lui si è reso visibile: “Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?” (Gv 14,9-10). La manifestazione più espressiva di questo rapporto di Gesù col Padre si ha nella sua condizione di risorto, vertice della sua missione e fondamento di vita nuova ed eterna per quanti credono in Lui. Ma l’unione tra il Figlio e il Padre, come quella tra il Figlio e i credenti, passa attraverso il mistero dell’“innalzamento” di Gesù, secondo una tipica espressione del Vangelo di Giovanni. Col termine “innalzamento” l’evangelista indica sia la crocifissione che la glorificazione di Cristo; ambedue si riflettono sul credente: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,14-16). Questa “vita eterna” altro non è che la partecipazione dei credenti alla vita stessa di Gesù risorto e consiste nell’essere inseriti in quella circolazione d’amore che unisce il Padre e il Figlio, i quali sono una cosa sola (cfr. Gv 10,30; 17,21-22).

L’ira di Dio - Liselotte Mattern: L’Antico Testamento parla molto spesso dell’ira, poiché essa caratterizza proprio il Dio santo e ardente. L’ira non è, tuttavia, un ribollimento iracondo; è ben lontana anche da una passione o un’eccitazione. È piuttosto la reazione alla disubbidienza dell’uomo. Essa non è in contraddizione con la giustizia, ma designa il giusto giudizio di Dio. L’ira è rivolta soprattutto contro Israele. L’elezione del popolo e l’alleanza di Dio con esso non garantiscono a Israele la sicurezza della salvezza, ma lo impegnano alla fedeltà, all’alleanza e all’obbedienza. I profeti mettono continuamente in guardia dalla mormorazione contro la guida di Dio, soprattutto da una caduta nell’idolatria, dalla disubbidienza verso i comandamenti, la quale può esprimersi anche come comportamento ingiusto in campo sociale, economico e politico. Il giorno di JHWH atteso da molti israeliti come giorno di gioia si rivolterà altrimenti, come giorno dell’i., contro il proprio popolo disubbidiente. [...] Per il Nuovo Testamento l’idea dell’ira, è ovvia; essa è la definizione del futuro giudizio di Dio. Non si tratta certo del fatto che nel Nuovo Testamento al posto dell’ira, subentri un amore di Dio “a buon mercato”. Nei Vangeli, tuttavia, il concetto di ira si trova solo raramente. Secondo Giovanni Battista soltanto la conversione può ormai salvare dall’ira imminente. In bocca a Gesù la parola “ira” si trova solo nell’allusione alla distruzione di Gerusalemme in Lc 21,23. Paolo invece parla molto spesso dell’ira. Anche per Paolo ira esprime il giudizio universale. Alla fine del tempo, il giorno dell’ira porta con sé il giusto giudizio su tutti i popoli. Tutta l’umanità vive nell’empietà e nell’ingiustizia e pertanto è sottoposta già oggi al giudizio che viene Soltanto la  fede giustifica e può salvare il cristiano dall’incombente giudizio dell’ira e della distruzione. Secondo Gv 3,36 il non-credente sottostà all’ira, il credente invece possiede già oggi la vita. L’Apocalisse parla con colori sfavillanti della futura ira. Nel giorno della grande ira si berrà dalla coppa del vino dell’ira; sarà il giorno dell’ira dell’agnello (Ap 14,10; 6,16).

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui.” (Vangelo).
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: Dio di infinita sapienza, che hai suscitato nella tua Chiesa il vescovo sant’Atanasio, intrepido assertore della divinità del tuo Figlio, fa’ che per la sua intercessione e il suo insegnamento cresciamo sempre nella tua conoscenza e nel tuo amore. Per il nostro Signore Gesù Cristo...