IL PENSIERO DEL GIORNO

6 Febbraio 2018

 MARTEDÌ V SETTIMANA «per annum»


Oggi Gesù ci dice: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” (Vangelo).


Dal Vangelo secondo Marco 7,1-3: Il tema della discussione è quello del «lavarsi le mani» che non era un norma igienica, ma una prescrizione rituale della purificazione secondo la «tradizione degli antichi». I tutori della legge consideravano Gesù e i suoi discepoli, a motivo del loro atteggiamento insubordinato, sovvertitori della legge e questo per la nazione intera poteva avere conseguenze inimmaginabili (Gv 11,48). La loro disubbidienza, poi, era sotto gli occhi di tutti; quindi, era urgente fermarli prima che fosse troppo tardi. Così si capisce perché la «casa madre», Gerusalemme, si premura di inviare a Genèsaret farisei e scribi, assai esperti della legge.


Per la comprensione del Vangelo è opportuno richiamare alla memoria le norme di purità che gli Ebrei ritenevano di dover osservare prima di prestare il culto liturgico a Dio. Essi distinguevano tra cose, persone, creature, azioni pure e impure . Chi veniva a contatto con ciò che era considerato impuro doveva purificarsi, prima di entrare in contatto con Dio. Per la Bibbia di Gerusalemme, «i rabbini facevano risalire la tradizione orale, attraverso gli “anziani”, a Mosè ... A proposito dell’impurità delle mani, obiettata dai Farisei, Gesù prende in considerazione la questione più generale dell’impurità attribuita dalla legge a certi alimenti [Lev 11]  e insegna a posporre l’impurità legale a quella morale, la sola che importa veramente ([cf. At 10,9-16; 10,28 ...]».

Discussione sulle tradizioni farisaiche - Ai tempi di Gesù, i Farisei e gli scribi erano considerati i fedeli custodi della tradizione scritta ed orale per cui la loro autorità era indiscussa. Ma la tradizione orale, il cui scopo era quello di esplicitare quella scritta e così alleggerirla, in verità la rendeva insopportabile, a volte, anche per le stesse guide spirituali tanto che spesso, con mille sotterfugi, arrivavano intenzionalmente a trasgredirla: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,3).
Il tema della discussione è quello del «lavarsi le mani» che non era un norma igienica, ma una prescrizione rituale della purificazione secondo la «tradizione degli antichi».
I tutori della legge consideravano Gesù e i suoi discepoli, a motivo del loro atteggiamento insubordinato, sovvertitori della legge e questo per la nazione intera poteva avere conseguenze inimmaginabili (Gv 11,48). La loro disubbidienza, poi, era sotto gli occhi di tutti; quindi, era urgente fermarli prima che fosse troppo tardi. Così si capisce perché la «casa madre», Gerusalemme, si premura di inviare a Genèsaret alcuni esperti della legge.
Sotto il rimprovero capzioso rivolto a Gesù, si può cogliere quella mentalità dura a morire la quale nasceva dalla considerazione che la legge, e sopra tutto la sua osservanza, bastava a giustificare il Giudeo: chi non osservava la legge era gente dannata (Gv 7,49), tagliata fuori dal progetto salvifico. Gesù, agli occhi dei Farisei, non soltanto sovvertiva la tradizione degli antichi, ma fuorviava il popolo introducendolo in sentieri che lo avrebbe portato molto lontano dalla salvezza. Accuse quindi molto pesanti che andavano al di là della banalità di lavarsi le mani prima di prendere cibo.
Gesù innanzi tutto si rifà agli insegnamenti dei Profeti in eterno conflitto con il potere deviante dei governanti e con il posticcio culto che la nazione rendeva a Dio. I re, sovente idolatri, sguazzavano nella melma della sensualità (Sir 47,19) e non si facevano scrupolo di ammazzare pur di possedere la donna oggetto delle loro brame (2Sam 11,1-27).
Il popolo da par suo era abilissimo nell’ emulare le sue guide: da una parte l’incenso e dall’altra una vita scellerata (Is 1,11-13); da una parte le preghiere nel tempio e dall’altra parte le mani lorde di sangue fraterno (Is 1,15); da una parte l’osservanza del Sabato e dall’altra la bramosia che tutto passasse in fretta perché si potesse riprendere a vendere rubando e truffando sul peso (Amos 8,5-6).
La risposta di Gesù è molto aspra, la sua è infatti una controaccusa: i toni sono forti perché Egli sta rimproverando gente molto abile nell’eludere i comandamenti di Dio contrapponendovi la tradizione umana (Mc 7,9) e molto brava da apparire «giusti all’esterno davanti agli uomini» (Mt 23,28).
Per cui Gesù senza mezzi termini li taccia di ipocrisia: il termine hipokrites descrive gli attori con il volto nascosto da una maschera.
In questa prima discussione Gesù non coinvolge il popolo, si rivolge solo ai Farisei e agli scribi perché tecnicamente capaci di comprendere il suo linguaggio. Poi chiama la folla e qui il discorso ha la forma di didascalia, cioè di insegnamento; un insegnamento rivolto a tutti, discepoli e no, e che da tutti doveva essere ritenuto. Gesù non è un rivoluzionario: la legge va osservata anche nei più piccoli particolari perché lui non è venuto per abolirla, ma per renderla perfetta (Mt 5,17-19).
È un invito a guardarsi dentro: la creazione di per sé è buona e c’è un solo tipo di impurità che allontana l’uomo da Dio ed è quella che scaturisce dal suo cuore, cioè dai pensieri e dalle intenzioni. È l’uomo, se non ha un cuore puro, a rendere impure anche le cose buone. E poi, ora, nella pienezza del tempo, non è la legge e la sua osservanza a giustificare l’uomo, ma la fede in Cristo (Rom 5,1s).


La tradizione degli Antichi: Mons. Vincenzo Paglia, Vescovo (Omelia, 6 febbraio 2007): Questo lungo brano evangelico riporta una discussione tra Gesù e i farisei sull’osservanza di alcune prescrizioni riguardanti la purificazione. I discepoli di Gesù si sentivano “liberi” da queste norme rituali che, per altro, non erano dedotte dalla Scrittura ma, appunto, aggiunte dalla “tradizione degli antichi”. Inizialmente le disposizioni ricordate erano riservate ai sacerdoti; solo successivamente vennero estese a tutto il popolo. La disputa che nasce tra Gesù e i farisei si sposta subito su ciò che è puro e ciò che non lo è. Ma Gesù riporta il problema dell’osservanza delle norme sul suo punto nodale: il cuore. Il cuore, infatti, è la fonte dell’impurità. Dal cuore nascono i pensieri malvagi, le intenzioni impure, le decisioni cattive. È il cuore perciò che bisogna curare; è dal cuore che debbono essere sradicate le erbe amare ed è nel cuore che va accolta e custodita la Parola di Dio. Maria, la prima dei credenti, ce lo insegna fin dall’inizio. Essa, scrive il Vangelo, “custodiva nel cuore tutte queste cose”, tutto ciò che vedeva accadere a Gesù.


La legge e i cristiani - Le polemiche asfissianti sull’osservanza della legge tra Farisei e cristiani andranno avanti ancora per molti anni. La Chiesa apostolica dovrà fare i conti sopra tutto con i credenti provenienti dal giudaismo, i quali, fanatici e per nulla rinnovati nel cuore, cercheranno di imporre il giogo della legge mosaica ai cristiani in modo particolare a quelli che provenivano dal paganesimo. Una lotta estenuante che imporrà all’apostolo Paolo di prendere spesso carta e penna per difendere con forza l’affraccamento dalla legge mosaica: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti quali «Non prendere, non gustare, non toccare»? Tutte cose destinate a scomparire con l’uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne» (Col 2,20-23). E non pago scriverà agli stolti Galati: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla» (Gal 5,1-2).
La libertà è un anelito che trova radici profonde nel cuore dell’uomo. È il frutto di lotte, di conquiste pagate a caro prezzo ... ma cosa significa libertà per l’uomo di oggi? Che valore ha? Cosa significa vivere da uomini liberi? Il Magistero della Chiesa risponde a queste domande e lo fa dicendo innanzi tutto che la libertà dell’uomo è «finita e fallibile».
«Di fatto, l’uomo ha sbagliato. Liberamente ha peccato. Rifiutando il disegno d’amore di Dio, si è ingannato da sé; è divenuto schiavo del peccato. Questa prima alienazione ne ha generate molte altre. La storia dell’umanità, a partire dalle origini, sta a testimoniare le sventure e le oppressioni nate dal cuore dell’uomo, in conseguenza di un cattivo uso della libertà» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1739). Quindi, l’uomo, nel gustare il dono della libertà, deve partire dalla sincera consapevolezza che nel cuore porta una profonda ferita inferta dal peccato dei Progenitori e dal suo peccato attuale: un vulnus che lo spinge al male (Rom 7,14-25). Per cui se la libertà non è incanalata nell’alveo di veri valori può diventare libertinaggio e paradossalmente mera schiavitù. Per cui, l’esercizio della libertà «non può implicare il diritto di dire e di fare qualsiasi cosa».
«È falso pretendere che l’uomo, soggetto della libertà, sia un “individuo sufficiente a se stesso ed avente come fine il soddisfacimento del proprio interesse nel godimento dei beni terrestri”. Peraltro, le condizioni d’ordine economico e sociale, politico e culturale richieste per un retto esercizio della libertà troppo spesso sono misconosciute e violate. Queste situazioni di accecamento e di ingiustizia gravano sulla vita morale ed inducono tanto i forti quanto i deboli nella tentazione di peccare contro la carità. Allontanandosi dalla legge morale, l’uomo attenta alla propria libertà, si fa schiavo di se stesso, spezza la fraternità coi suoi simili e si ribella contro la volontà divina» (ibidem 1740).
Solo Cristo ha veramente reso liberi gli uomini perché con la sua croce gloriosa li ha «riscattati dal peccato che li teneva in schiavitù». Noi siamo liberi perché Cristo ci ha liberato dal peccato. La vera libertà consiste nel non essere più schiavi del peccato: in Cristo «abbiamo comunione con “la verità” che ci fa liberi [Gv 8,32]. Ci è stato donato lo Spirito e, come insegna l’Apostolo , “dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” [2Cor 3,17]» (ibidem 1741). E non è vero che la «grazia di Cristo si pone in concorrenza con la nostra libertà», soprattutto «quando questa è in sintonia con il senso della verità  del bene che Dio ha messo nel cuore dell’uomo» (ibidem 1742).

  
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Gesù insegna a posporre l’impurità legale a quella morale, la sola che importa veramente.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Custodisci sempre con paterna bontà la tua famiglia, Signore, e poiché unico fondamento della nostra speranza è la grazia che viene da te, aiutaci sempre con la tua protezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo …


  IL PENSIERO DEL GIORNO

5 Febbraio 2018

LUNEDÌ V SETTIMANA «per annum»


Oggi Gesù ci dice: “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati.  Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5,5-6 - Antifona alla Comunione).


Dal Vangelo secondo Marco 6,53-56: Genezaret: spinti dal vento, i discepoli non riescono a portarsi al posto voluto sulla riva ad occidente di Bcthsaida (v. 45). Dopo una notte laboriosa e tormentata giungono, dunque, molto più ad occidente, nella zona di Genezaret, da cui viene uno dei diversi nomi del lago [Mc 11,67; Lc 5,1; Mt 14,34]. La pianura di Genezaret, con circa 6 km di lunghezza e 4 di larghezza, si estende tra Magdala a sud e Et-Tabga a nord, sulla costa occidentale del lago. Secondo G. Flavio, Ant. jud., 3, 10, 8 nel I d.C. era tra le zone più fertili di tutta la Palestina. alcuni lo riconobbero: in greco il verbo manca di soggetto come tutta la descrizione successiva. Evidentemente è un tratto riassuntivo, in cui l’evangelista ha voluto condensare un periodo non determinato dell’attività di Gesù, soprattutto come taumaturgo. Nel testo non si parla di insegnamento impartito alle folle e ciò, secondo alcuni, starebbe a significare che, nonostante i miracoli, la gente andava distaccandosi con crescente indifferenza da Gesù, il quale a sua volta si distaccava da essa per recarsi in località sempre più lontane [cf 7,24]” (Alberto Siti, Vangelo secondo Marco).


Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse: ovunque Gesù si reca il suo passaggio suscita speranza, gioia. La sua presenza cambia letteralmente la vita e le giornate delle cittadine e dei villaggi: uomini e donne lasciano le loro occupazioni quotidiane, i bambini i loro giochi, i malati i loro letti di dolore, per affollarsi attorno alla sua Persona, cercando un contatto, attendendo una parola di consolazione, un gesto di compassione. La descrizione evangelica di questa folla dolorante mette in evidenza che finalmente è giunto tra gli uomini Colui che sa commuoversi sul dolore degli uomini. Tutti sperano e confidano in lui e nella sua forza di guarigione: è sufficiente per molti anche solo toccare la frangia del suo mantello per essere guariti: ... e quanti lo toccavano venivano salvati, ritrovare la sanità del corpo è importante perché significa reinserirsi nella vita, ritornare a gioire e a sperare..., ma è la salvezza che dona pienezza di vita, di gioia, di speranza perché mette in comunione l’uomo con Dio. Il Vangelo ci suggerisce un impegno, quello di farci lembo di mantello di Cristo per essere toccati dagli uomini, e donare ad essi la gioia della salvezza.


In contatto con la forza del regno - Basilio Caballero (La Parola Per Ogni Giorno): Gesù mise ripetutamente in relazione le guarigioni dì infermi con la venuta del regno di Dio nel mondo degli uomini; secondo lui, le guarigioni erano segni di liberazione, uniti ed equiparabili all’annuncio del vangelo. Così fece nella sinagoga di Nazaret, quando applicò il testo del profeta Isaia a se stesso, come unto dallo Spirito di Dio, mandato per annunciare ai poveri la buona novella, per ridare la vista ai ciechi e la libertà agli oppressi (Lc 4,18s).
Gesù si riferisce alle sue guarigioni anche nella risposta al Battista, che dal carcere manda emissari a chie­dergli della sua identità messianica: «”Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”. In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Po diede loro questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella”» (Lc 7,20ss).
Anche se con una sfumatura di magia, il gesto de malati che volevano toccare il mantello di Gesù per guarire raggiungeva un livello religioso di fede. Volevano entrare in contatto con il potere soprannaturale del rabbi di Nazaret, nel quale, come diceva la gente, agiva la forza di Dio. Era un primo passo dalla religiosità naturale alla fede; perché alla fede, come condizione preliminare, erano strettamente collegati i miracoli di Gesù, segni della salvezza portata dal regno di Dio agli esseri umani.
«I lettori cristiani di questo vangelo devono convincersi che è necessario toccare Gesù in senso più profondo di quanto facessero i galilei; cioè, si deve credere in lui come il messia promesso, che raduna il popolo di Dio e che è veramente Figlio di Dio » (R. Schnackenburg).
Tutto questo perché la fede è un incontro personale con Dio attraverso Gesù, giacché Cristo è il luogo e il sacramento visibile di questo incontro con Dio. Perciò non c’è altra strada se non quella di «toccare» con la fede Gesù, immagine del Padre e sua parola fatta uomo.


E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati: Compendio della Dottrina Sociale 261: Durante il Suo ministero terreno, Gesù lavora instancabilmente, compiendo opere potenti per liberare l’uomo dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte. Il sabato, che l’Antico Testamento aveva proposto come giorno di liberazione e che, osservato solo formalmente, veniva svuotato del suo autentico significato, è riaffermato da Gesù nel suo originario valore: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27). Con le guarigioni, compiute in questo giorno di riposo (cfr. Mt 12,9-14; Mc 3,1-6; Lc 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6), Egli vuole dimostrare che il sabato è Suo, perché Egli è veramente il Figlio di Dio, e che è il giorno in cui ci si deve dedicare a Dio e agli altri. Liberare dal male, praticare fraternità e condivisione è conferire al lavoro il suo significato più nobile, quello che permette all’umanità di incamminarsi verso il Sabato eterno, nel quale il riposo diventa la festa cui l’uomo interiormente aspira. Proprio in quanto orienta l’umanità a fare esperienza del sabato di Dio e della Sua vita conviviale, il lavoro inaugura sulla terra la nuova creazione.


Presenza della carità - Ad gentes 12: La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni razziali, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso moto con cui Dio ha cercato l’uomo. Come quindi Cristo percorreva tutte le città e i villaggi, sanando ogni malattia ed infermità come segno dell’avvento del regno di Dio, così anche la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri ed ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro. Essa infatti condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni e i problemi della vita, soffre con essi nell’angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno, portando loro la pace e la luce che vengono dal Vangelo.


Atteggiamento spirituale degli ammalati - Lumen gentium 41: Sappiano che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha proclamati beati, e «il Dio... di ogni grazia, che ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po’ di patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà stabili e sicuri» (1Pt 5,10).
Tutti quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo.


Sant’Agata -  Messaggio e attualità - Enzo Lodi (I Santi del Calendario Romano): La colletta, scelta dalle due presenti nel sacramentario Gregoriano, pone in rilievo la gloria associata della verginità e del martirio. Il testo latino differenzia i termini chiamando «virtù» (potenza) il martirio e «merito» la castità: si vuole così sottolineare che se il martirio rivela la potenza di Dio, che trionfa anche della debolezza della creatura infondendole la sua forza, la castità è invece più opera della creatura, pur sempre nel corrispondere alla grazia del Signore. Nella lettura dell’Ufficio, scritta dal patriarca di Costantinopoli san Metodio (874), di origine siracusana (perciò detto il Siculo) e grande difensore del culto delle immagini (seguendo le orme del settimo concilio di Nicea: 787), si gioca sull’etimologia greca di Agata, che significa «buona», per presentarla come modello di fortezza nel martirio in quanto «portava le tracce del sangue purpureo di Cristo di cui era imbevuta». Le due antifone delle lodi e dei vespri, rimaste dall’Ufficio medievale (secolo X), sottolineano l’ardore di questa martire che «andava con grande gioia al carcere come una sposa verso le nozze»; e insieme la riconoscenza della martire vittoriosa dei tormenti dei carnefici. L’attualità di questa memoria può essere oggi evidenziata con l’illustrare il significato della lotta per il martirio incruento della castità cristiana, che concerne tutti gli stati di vita: anzitutto della verginità consacrata, che ha senza dubbio un merito speciale davanti al Signore per chi la offre per il servizio di Dio e dei fratelli; e poi anche dello stato coniugale e della condizione cristiana in genere, dove la castità è sempre una virtù essenziale. Non per nulla nel Medioevo è annoverata fra le sante «ausiliatrici» (per le malattie del seno).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** [Quando Gesù] era nel mondo, il solo tocco delle sue vesti sanava gli infermi, come si può dubitare, avendo fede, che non farà miracoli, così intimamente unito [nella comunione eucaristica], e non ci darà quanto gli chiederemo, trovandosi nella nostra casa? Sua Maestà non ha certo l’abitudine di pagare male l’alloggio, se gli viene data confortevole ospitalità. (Teresa d’Avila, Cammino di Perfezione [Vallodolid], capitolo 34,8)
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa:  Donaci, Signore, la tua misericordia, per intercessione di sant’Agata, che risplende nella chiesa per la gloria della verginità e del martirio. Per il nostro Signore Gesù Cristo...





  


IL PENSIERO DEL GIORNO

4 Febbraio 2018

V DOMENICA «per annum»


Oggi Gesù ci dice: “Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati ” (Mt 5,5-6 - Antifona alla Comunione).


Dal Vangelo secondo Marco 1,29-39: Gesù, dopo aver guarito la suocera di Pietro, guarisce molti ammalati e ossessi imponendo ai demoni, come ai miracolati e perfino agli apostoli (Cf. Mc 1,25.34.44; 3,12; 5,43; 7,36; 8,26.30; 9,9), una consegna di silenzio sulla sua identità messianica che sarà tolta solo dopo la sua morte (Cf. Mt 10,27). Per la Bibbia di Gerusalemme, poiché «il popolo si faceva una idea nazionalista e guerriera del Messia, molto diversa da quella che Gesù voleva incarnare, gli occorreva usare molta prudenza, almeno in terra d’Israele (Cf. Mc 5,19), per evitare spiacevoli equivoci sulla sua missione (Cf. Gv 6,15; Mt 13,13). Questa consegna del “segreto messianico” non è una tesi artificiosa inventata più tardi da Marco come alcuni hanno preteso; risponde invece a un atteggiamento storico di Gesù, benché Marco ne abbia fatto un tema su cui ama insistere».


Jacques Hervieux (Vangelo di Marco): Ai tempi di Gesù si attribuiva spesso alla febbre un’origine diabolica. Per questo motivo Luca, nel suo vangelo, ha riferito questa guarigione della suocera di Simone come se si trattasse di un esorcismo (Lc 4,39). E quindi chiaro che, già per Marco, il gesto di Gesù verso questa donna dimostra il suo dominio sulle forze del male e della morte. Ecco qui il messia che offre i segni dell’avvento del regno di Dio. Ma dobbiamo procedere oltre. Marco, rivolto alla propria comunità cristiana, ha riletto questo episodio alla luce della risurrezione di Gesù: ciò è sottolineato con discrezione dall’uso di una formula significativa. In greco, il verbo «la fece alzare» (v. 31b) è lo stesso utilizzato da Marco per dire di Gesù: «È risorto» (16,6). È effettivamente necessario metterci nella situazione dei primi cristiani quando leggiamo questa pagina dell’evangelista. Per loro Gesù non è solo il guaritore prestigioso degli inizi della sua missione: grazie alla sua risurrezione, egli è riconosciuto come «Cristo e Signore» (At 2,36), colui che continua, ogni giorno, a salvare gli uomini dal peccato, a strapparli alla morte; è il salvatore che rimette in piedi tutti coloro che sono abbattuti dal male. E quando Marco descrive la donna, subito guarita, mettersi a servire i suoi ospiti (v. 31c), nessuno può dubitare che egli pensi al «servizio» del Cristo al quale i cristiani sono chiamati. Il Salvatore non cessa di liberare i suoi fedeli dal male per metterli al proprio servizio.  Noi siamo incessantemente invitati a leggere una pagina come questa a un duplice livello. Il primo è quello dell’azione di Gesù che fa irruzione nella storia: la storicità dell’episodio raccontato è chiaramente testimoniata. Ma il secondo livello è il più importante: è quello della rilettura delle azioni e delle parole di Gesù da parte della comunità cristiana alla luce della sua risurrezione. La fede si collega allora al «Signore» che continuamente esercita la propria opera di salvezza nella sua Chiesa e nel mondo.


Andiamocene altrove - I particolari su cui insiste Marco, la casa di Simone e Andrea, la presenza di Giacomo e Giovanni, due dei tre discepoli privilegiati, potrebbero tradire la testimonianza di un testimone oculare. Anche il racconto della guarigione della suocera di Simon Pietro a una lettura più attenta potrebbe celare delle sorprese. Per esempio, se letto con gli occhi di Luca assume un significato che va al di là del puro fatto di cronaca. Il terzo evangelista, infatti, «sottolinea la forza [con il verbo minacciò la febbre, lo stesso usato per indicare la scacciata del demonio] e l’istantaneità [con l’espressione Alzatasi all’istante], oltre alla gravità della malattia [era afflitta da una grande febbre]: egli perciò la considera come un potente esorcismo di Gesù, sempre impegnato nella lotta non solo contro Satana, ma anche contro le conseguenze del peccato [in questo caso contro la malattia]» (Carlo Ghidelli, Luca). La lotta contro Satana è una idea forza che troviamo diffusamente nei Vangeli ed è presente anche in Marco che ne fa quasi un tratto fondamentale del ministero apostolico di Gesù (Cf. Mc 1,39). San Giovanni, quasi a sintetizzare la missione di Gesù, afferma che Egli è «apparso per distruggere le opere del diavolo» (1Gv 3,8).
Vi è un altro particolare. Quando si dice della suocera di Pietro che Gesù la fece alzare, Marco usa il verbo egeirō che viene spesso usato per indicare la risurrezione di Gesù (Cf. Mc 14,28; 16,6; 1Cor 15,4; At 3,15; 13,37). Molto probabilmente la Chiesa primitiva ha letto il miracolo come una «prefigurazione della risurrezione escatologica operata nel genere umano attraverso la morte e la risurrezione di Cristo» (Edward J. Mally, S.J.).
Il racconto evangelico è attraversato da un crescendo di emozioni, di entusiasmo e di buoni sentimenti, almeno da parte della folla che non si stanca di ascoltare il Maestro e dei molti ammalati che assediano la casa dove Egli è ospite per ottenere la guarigione fisica. Si passa dalla entusiasta accoglienza nella sinagoga alla guarigione della suocera di Pietro; dalla guarigione di molti ammalati «affetti da varie malattie» alla liberazione di indemoniati e ossessi fino a raggiungere il culmine con la frase di Pietro: «Tutti ti cercano!». Ma su questo entusiasmo arriva una risposta a dir poco sconcertante e inattesa: «Andiamocene altrove».
Con questa nota sembra che Marco abbia intenzione di mettere in evidenza l’andare di Gesù di villaggio in villaggio. Egli è stato mandato per andare e dedicarsi alla salvezza dei Giudei e dei pagani: «per questo Egli è venuto». Egli è venuto a chiamare i peccatori (Cf. Mc 2,17), a cercare la pecora perduta (Cf. Lc 14,4-6) e a dare «la propria vita in riscatto per molti» (Cf. Mc 10,45).
Con queste parole, Andiamocene altrove, Gesù per la prima volta «parla della sua missione e manifesta chiaramente il proposito di volersi attenere alla volontà del Padre, considerando suo compito primo l’annuncio della salvezza e non quello di soddisfare la curiosità o l’entusiasmo delle folle come un qualunque guaritore più o meno abile» (ADALBERTO SISTI, Marco, NVB).
La vita di Gesù è una vita girovaga senza riposo e senza un tetto sotto il quale ripararsi (Cf. Mt 8,20), uno stile di vita che i discepoli devono saper imitare. Sul suo esempio, Egli vuole che i suoi discepoli siano decisi ad abbracciare questo stile di vita intessuto di povertà e di precarietà, pronti nell’abbandonare affetti, case e parentele varie per mettersi al suo seguito (Cf. Mt 8,21-22). Un distacco totale che contrassegna la sequela cristiana. Ritirandosi in un luogo deserto per pregare, Gesù indica ai suoi discepoli la fonte dove trovare la forza per attuare un simile programma di vita.
I Vangeli amano parlare della preghiera di Gesù. Sopra tutto la ricordano in occasione dei momenti più importanti del ministero pubblico del Signore: il battesimo (Cf. Lc 3,21), la chiamata degli Apostoli (Cf. Lc 6,12), la prima moltiplicazione dei pani (Cf. Mc 6,46), la Trasfigurazione (Cf. Lc 9,29), nel Getsemani (Cf. Mt 26,39), sulla croce quando prega per i suoi carnefici (Cf. Lc 23,34). Altresì, possiamo ricordare quante volte la preghiera ottenne il dono della guarigione da Gesù: il cieco nato (Cf. Mc 10,46-56), la guarigione del lebbroso (Cf. Mt 8,23), la Cananea (Cf. Mt 15,21-28). Il discepolo apprende in questo modo il segreto della preghiera come unico fondamento su cui poggiare la sua fede, la sua speranza. Senza la preghiera il cristiano non può essere fedele alla sua vocazione e alla sua elezione (2Pt 2,10).


La preghiera - Helen Scüngel: La preghiera di Gesù è menzionata molto spesso e questo ha indubbiamente impressionato profondamente i suoi discepoli e la prima chiesa. Mt 6,5; Mc 14,34 e altri passi tramandano indicazioni di Gesù sulla preghiera; in Mt 7,9-11 e Mc 11,23 egli assicura che la preghiera sarà esaudita, in Lc 18,1ss usando addirittura un paragone molto ardito. La parabola in Lc 18,9ss contrappone la preghiera erronea, vanagloriosa a quello verace e giustificante. Infine da Gesù deriva l’appellativo di Dio come padre, soprattutto nel Padrenostro.
La chiesa primitiva ha sperimentato la propria preghiera come qualcosa di nuovo, di inaudito. Supportata dalla  fede di essere “liberata dal potere delle tenebre e trasferita nel regno dell’amore del Figlio” (Col 1,13), sapeva di esser autorizzata a pregare “nel nome del Signore” (1Cor 1,10) o “per Cristo”. Tutte le promesse di Dio sono state confermate e adempiute in Gesù e per mezzo suo; nel momento in cui i credenti dicono l’“amen”, ren­dono a Dio l’onore di essere fedele, poiché essi lo fanno nella speranza di sperimentare lo stesso adempimento delle promesse (2Cor 1,20). Così può pregare soltanto colui al quale Dio si è rivelato, mediante Gesù, come il Dio fedele e salvatore e che rimane in questo rapporto con Dio (Gv 15,16). Credere significa dunque saper pregare ed essere certi dell’adempimento (Gv 15,7; 6,23ss). La preghiera cristiana ha perciò la sua motivazione nell’azione salvifica di Dio, ma allo stesso modo rimane orientata verso l’estrema azione di Dio: è un pregare escatologico; nell’invocazione liturgica Maranà tha la comunità prega per la venuta definitiva del suo Signore. Pregando, il cristiano sperimenta la sua distanza dal mondo, soprattutto anche dai propri desideri più vari; egli sa che la sua preghiera, come la sua vita in genere, è determinata dal “non aver nulla e invece possedere tutto” (2Cor 6,10). Una tale preghiera avviene nello Spirito Santo “perché noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26); in questa preghiera ci uniamo al “genere della creazione” (Rm 8,22s). Questa preghiera, dunque, che libera dal mondo, è al tempo stesso la forma più profonda di solidarietà con il mondo.


 ... non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano - Bibbia di Navarra (I Quattro Vangeli): Gli spiriti immondi sono in possesso di un sapere sovrumano; perciò sanno che Gesù è il Messia (Me 1,24). Per mezzo degli indemoniati, essi avevano la possibilità di svelare la natura messianica di Gesù. Ma il Signore, col suo potere divino, intima loro di tacere. La medesima cosa ordina ai discepoli in altre occasioni (Mc 8,30; 9,9); così come anche agli ammalati, dopo che li ha guariti, comanda di non divulgare la notizia che egli è il Messia (Mc 1,44; 5,43; 7,36; 8,26). Questo modo di procedere da parte del Signore può trovare spiega­zione alla luce della pedagogia divina: con la sua condotta Gesù insegna che l’idea del Messia nutrita dalla maggioranza dei contemporanei era troppo umana e politicizzata (cfr la nota a Mt 9,30). Perciò il Signore vuole prima destare l’interesse dei Giudei con i miracoli, e poi spiegare con le parole il senso del suo messianismo, in maniera che i discepoli e tutto il popolo possano gradualmente intenderlo.
E inoltre da osservare, con alcuni Santi Padri, che Gesù non vuole accettare a favore della verità la testimonianza di colui che è il padre della menzogna. E pertanto, benché i demòni lo riconoscevano, non permette loro di dire che chi egli sia.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Gesù non vuole accettare a favore della verità la testimonianza di colui che è il padre della menzogna.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nel tuo amore di Padre ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio, rendici puri e forti nelle prove, perché sull’esempio di Cristo impariamo a condividere con i fratelli il mistero del dolore, illuminati dalla speranza che ci salva. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

3 Febbraio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27).


Dal Vangelo secondo Marco 6,30-34: Alla malvagità dei pastori, della prima lettura (Ger 23,1-6), il Vangelo contrappone la compassione di Gesù. La pericope marciana presenta Gesù mentre compie i suoi primi viaggi dentro e fuori i confini della Galilea. Questi movimenti sono scanditi da catechesi e interventi prodigiosi. I Dodici assumono sempre più l’identità di Chiesa che si raccoglie attorno a Gesù suo pastore messianico.


 Venite in disparte - Il testo del vangelo di oggi, considerato da alcuni solo un brano di transizione, introduce una sezione che va sotto il nome di «sezione dei pani», chiamata così perché ricorre spesso la parola «pane» (Cf. Mc 6,31-8,21). Gli apostoli, precedentemente inviati (Mc 6,7), di ritorno dalla missione, riferiscono al Maestro «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30): Gesù «rimane al centro di tutta la loro attività. Li aveva inviati e ora tornano a rendergli conto del loro lavoro, a fare il punto con lui, come servi presso il padrone» (I quattro vangeli commentati).
È importante la sottolineatura «tutto quello che avevano fatto» che precede «quello che avevano insegnato»: l’insegnamento deve essere reso valido dalla coerenza della condotta.
«La predica - suggerisce sant’Antonio di Padova - è efficace, ha una sua eloquenza, quando parlano le opere... “Una legge, dice Gregorio, si imponga al predicatore: metta in atto ciò che predica”. Inutilmente vanta la conoscenza della legge colui che con le opere distrugge la sua dottrina».
Gli apostoli avevano scacciato i demoni, guarito gli infermi e avevano predicato la conversione (Mc 6,12-13): fare e insegnare, le stesse cose che compie Gesù ora diventano mandato e primario impegno degli apostoli. La Chiesa primitiva è chiamata a riconoscere proprio in questa attività, ancorata al ministero di Gesù e degli apostoli, il compito fondamentale della sua attività di evangelizzazione. 
Gesù invita gli apostoli a farsi in disparte con lui e a «riposare». Questa chiamata in un luogo in disparte non è una fuga, ma il tentativo di ritrovare un po’ di pace e di intimità in quanto la folla, che seguiva Gesù fin dagli inizi della sua predicazione, li pressava da ogni parte e non lasciava loro «neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31; Cf. Mc 1,33.37.45; 2,2; 3,20.32; 4,1; 5,21.31).
Il tema del riposo, caro all’Antico Testamento e che richiama l’ingresso del popolo eletto nella Terra promessa (Cf. Dt 3,20; 12,10; 25,19; Gs 1,13.15), indica la partecipazione al sabato eterno, alla vita stessa di Dio (Cf. Eb 3,11-18; 4,3-11). Nel brano di Marco, anticipa l’immagine di Gesù come ‘buon pastore’ (Gv 10,1ss) che concede il riposo alle sue pecore (Cf. Is 65,10; Ez 34,15; Sal 22,2).
Gesù invita ad appartarsi in un luogo solitario, questo luogo potrebbe far pensare al «deserto».
Nella sacra Scrittura, il deserto è il luogo ideale dove Dio parla al cuore dell’uomo: il luogo «ove l’aria è più pura, il cielo più aperto, e Dio più familiare ... per riposarsi nella preghiera, vivere con gli Angeli e per invocare il Signore e sentirlo rispondere: “Ecco sono qui” [Es 33,4]» (Origene).
Ritirarsi con Gesù in un luogo desertico è esigenza essenziale e vitale per ogni comunità missionaria come lo era per Gesù che spesso si ritirava in intima comunione con il Padre. È importante che «Gesù e i Dodici abbiano il tempo per riposarsi, pregare, prender le distanze rispetto alla loro attività e ritrovarsi insieme. Si noti questa sollecitudine molto umana di Gesù. Il riposo, la distensione e anche il tempo di riflessione e di ripresa sono indispensabili a ogni uomo, compresi gli operai del Vangelo» (I quattro vangeli commentati).
Ma molti «però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero» (Mc 6,33). Questa intrusione inopportuna non genera stizza o rabbia; infatti, Gesù, sceso dalla barca, vedendo quell’immensa folla, «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). Un’immagine molto ricorrente nell’Antico Testamento per indicare il popolo che vaga senza meta perché senza guide (Cf. Num 27,17; 1Re 22,17; Ez 34,5).
La commozione di Gesù per la folla importuna non è semplicemente un sentimento di pietà o di commiserazione: la motivazione sta nel fatto che erano come pecore senza pastore e Gesù è il “buon Pastore” secondo il cuore di Dio, mandato dal Padre a radunare l’umanità dispersa in un solo ovile (Gv 10,16). Gesù di fronte alla folla che lo incalza, dimenticando il riposo, si mette a insegnare ad essa «molte cose». L’attività cui Gesù dà il primato è quello dell’insegnamento e dell’annuncio. Ora nutre la folla con il pane della parola, in seguito moltiplicherà i pani e la sazierà fisicamente.
Questo ordine, insegnamento-nutrimento, non è casuale. È un’indicazione per sé molto preziosa che la Chiesa ha fatto sua: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non tralasciando mai, soprattutto nella liturgia, di nutrirsi del pane di vita prendendola dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli» (DV 21).


La spiritualità del deserto - Fausto Longo - Giuseppe Barbaglio: Per i profeti Osea e Geremia il deserto non è un luogo, ma uno stato; consiste nella privazione di tutti i beni che hanno fatto prevaricare Israele. La sua traversata prepara la conversione e perciò esso comporta una rottura col mondo peccatore, per vivere in una nuova intimità con Dio. L’immagine del deserto esprime insieme tale rottura ed intimità. I cristiani separati dal peccato hanno fatto alleanza con Dio, sono diventati una «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato per proclamare le grandezze di lui che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce» (1Pt 2,9). Dio cammina in mezzo al suo popolo e con l’incarnazione ha piantato la sua tenda fra noi (Gv 1,14). Di qui sgorga l’esigenza di santità, d’obbedienza a colui che si è fatto il capo del suo popolo, «il pastore e custode delle sue anime» (1Pt 2,25).
A questo aspetto comune ad ogni vita cristiana si rifà la spiritualità del deserto nella sua applicazione particolare alla vita monastica e religiosa. Particolare rilievo ha il deserto nella vita di Giovanni Battista, il quale trascorse l’adolescenza in «regioni deserte» (Lc 1,80). Non meno caratteristica è l’esperienza degli esseni, che ritentarono la «prova del deserto», fallita nei loro padri. I membri della comunità «si allontanino dagli uomini di iniquità per andare nel deserto per aprirsi la via a lui, come sta scritto: Nel deserto aprite la via... Questo è lo studio della legge prescritta da Mose». Nell’ascetismo e nel monachesimo orientale, il deserto assume un aspetto essenziale. Geograficamente comprende l’Egitto, la penisola del Sinai, il deserto di Giuda, la Siria e altre lande orientali. Per sé esso resta sempre «una terra deserta, ... una landa dove echeggia l’ululo della solitudine» (Dt 32,10).
Per noi occidentali è difficile capirlo; solo l’esperienza potrebbe farci partecipi di un genere di vita ove il rischio è norma. I cedri del Libano, le palme e le rose di Gerico, i gigli esaltati nella Bibbia non sono più quelli della natura, ma questi, fiori e frutti della grazia, maturati nel deserto: Antonio, Pacomio, Macario, Nilo, Saba, Basilio. «Nei deserti l’aria è più pura, il cielo più accessibile e Dio più vicino» (Origene).
Tale spiritualità può sembrare anacronistica nell’attuale civiltà della spersonalizzazione e dell’automazione meccanica. A dimostrare che non lo è, basta la testimonianza di p. Carlo de Foucauld, l’apostolo del Sahara che all’esempio unisce la parola, che addita nel deserto una perenne sorgente di spiritualità: «Bisogna passare per il deserto e sostarvi per ricevere la grazia di Dio. È là che ci si svuota, che ci si sbarazza di tutto quello che non è Dio. Gli ebrei sono passati per il deserto; Mosè, s. Paolo, s. Giovanni Crisostomo si sono preparati nel deserto».


Josemariá Escrivá (È Gesù che passa, 166-167): Pensate alla scena narrata da San Luca, quando Gesù giunge presso la città di Nain. Gesù vede il dolore di quelle persone con cui si imbatte per caso. Poteva passare al largo, o aspettare che lo pregassero. Invece non se ne va né attende una richiesta. Prende l’iniziativa, mosso dall’afflizione di una vedova che aveva perduto tutto ciò che le restava, suo figlio. 
L’evangelista precisa che Gesù provò compassione: forse si sarà commosso anche esteriormente, come per la morte di Lazzaro. Gesù Cristo non era, non è, insensibile alla sofferenza che nasce dall’amore, né gode di separare i figli dai genitori: vince la morte per dare la vita, affinché coloro che si amano siano vicini, pur esigendo anzitutto e sempre la preminenza dell’Amore divino che deve informare ogni esistenza autenticamente cristiana.
Gesù sa di essere circondato da una folla che rimarrà stupefatta davanti al miracolo e che ne proclamerà la notizia per tutta la regione. Ma il Signore non compie un gesto studiato: si sente davvero toccato dalla sofferenza di quella donna, e non può fare a meno di consolarla. Infatti le si avvicina e le dice: Non piangere! Come per farle capire: non voglio vederti in lacrime, perché io sono venuto a portare sulla terra la gioia e la pace. Ed ecco il miracolo, manifestazione della potenza di Cristo Dio. Ma prima venne la commozione della sua anima, manifestazione evidente della tenerezza del cuore di Cristo Uomo. 
Se non impariamo da Gesù, non sapremo mai amare. Se pensassimo, come alcuni, che conservare un cuore pulito, degno di Dio, significa non immischiarlo, non contaminarlo con affetti umani, la conseguenza logica sarebbe quella di renderci insensibili al dolore degli altri. Saremmo allora capaci soltanto di una carità ufficiale, arida, senz’anima, ma non della vera carità di Cristo, che è affetto e calore umano. Con questo, non intendo avallare false teorie, tristi scuse per sviare i cuori, allontanandoli da Dio, e indurli in occasioni di perdizione.
[…] Per aiutare veramente gli altri, dobbiamo amarli di un amore
di comprensione e di donazione, pieno di affetto e di consapevole umiltà. Il Signore, infatti, volle riassumere tutta la Legge in quel duplice comandamento che in realtà è unico: amare Dio e amare il prossimo, con tutto il nostro cuore».


Venite in disparte... - Presbyterorum ordinis 8: Animati da spirito fraterno, i presbiteri non trascurino 1’ospitalità, pratichino la beneficenza e la comunione dei beni, specialmente solleciti di quanti sono ammalati, afflitti, sovraccarichi di lavoro, soli, o in esilio, nonché di coloro che soffrono persecuzione. Si riuniscano volentieri anche per trascorrere insieme in allegria momenti di distensione, ricordando le parole con cui il Signore stesso invitava gli apostoli, stremati dalla fatica: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco» (Mc 6,31). Inoltre, perché i presbiteri trovino reciproco aiuto a fomentare la vita spirituale e intellettuale, possano collaborare più efficacemente nel ministero ed evitare i pericoli eventualmente derivanti dalla solitudine, si favorisca tra loro qualche modalità di vita comune, o qualche condivisione di vita; questa può tuttavia assumere forme diverse in rapporto alle differenti esigenze personali o pastorali: cioè coabitazione, dove è possibile, oppure una mensa comune, o almeno frequenti e periodici raduni.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Per aiutare veramente gli altri, dobbiamo amarli di un amore di comprensione e di donazione, pieno di affetto e di consapevole umiltà.
Questa parola cosa ti suggeriscono?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio grande e misericordioso, concedi a noi tuoi fedeli di adorarti con tutta l’anima e di amare i nostri fratelli nella carità del Cristo. Egli è Dio e vive e regna con te ...


  IL PENSIERO DEL GIORNO

2 Febbraio 2018

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE



Oggi Gesù ci dice: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi, soglie antiche, ed entri il re della gloria” (Salmo Responsoriale).


Dal Vangelo secondo 2,22-40: Lo Spirito Santo aveva promesso a Simeone, che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Il vegliardo, uomo giusto e pio, rappresenta «l’Israele fedele, che attendeva con fiducia illimitata la comparsa del Messia per l’attuazione del regno di Dio. In questo incontro la religiosità sincera dell’Antico Testamento si salda direttamente con quella del Nuovo Testamento, in una meravigliosa continuazione del progetto salvifico di Dio» (Angelico Poppi). La Luce entra nel mondo e riscalda i cuori degli uomini colmandoli di festose speranze, ma la gioia di Giuseppe e di Maria viene turbata dalle parole oscure di Simeone, il quale non fa che indicare agli ignari sposi la via della croce: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori. Gesù apre la via della Croce, la percorre fino alla fine e la propone a noi, suoi discepoli. Maria, per prima, la seguirà in piena fedeltà e disponibilità.


Catechismo della Chiesa Cattolica 529: La Presentazione di Gesù al Tempio lo mostra come il Primogenito che appartiene al Signore. In Simeone e Anna è tutta l’attesa di Israele che viene all’Incontro con il suo Salvatore (la tradizione bizantina chiama così questo avvenimento). Gesù è riconosciuto come il Messia tanto a lungo atteso, “luce delle genti” e “gloria di Israele”, ma anche come “segno di contraddizione”. La spada di dolore predetta a Maria annunzia l’altra offerta, perfetta e unica, quella della croce, la quale darà la salvezza “preparata da Dio davanti a tutti i popoli


La Bibbia e i Padri della Chiesa (I Padri vivi): La commemorazione liturgica della Presentazione di Cristo al tempio compare nella Chiesa di Gerusalemme e, come riferisce la spagnola Egeria nel racconto del pellegrinaggio in Terra Santa effettuato negli anni 381-383, veniva celebrata in modo molto solenne. Da Gerusalemme, la solennità chiamata «Hypapante» [ = solenne incontro], si diffonde nella Chiesa d’Oriente Viene celebrata inizialmente il 14 febbraio (quaranta giorni dopo il Natale che l’Oriente festeggiava allora il 6 gennaio), poi è trasferita al 2 febbraio dopo che le Chiese d’Oriente hanno accolto il costume di festeggiare il Natale il 25 dicembre. Nell’anno 542, l’imperatore Giustiniano introduce la festa del 2 febbraio in tutto l’Impero d’Oriente.
Verso la metà del secolo VII, la festa viene introdotta in Occidente dove si usa chiamarla «il giorno di san Simeone». Nel sacramentario Gelasiano essa porta il titolo della «Purificazione di Maria», benché tutte le preghiere si riferiscano alla Presentazione di Gesù al tempio. A Roma, in questo giorno, aveva luogo la più vecchia processione mariana i cui partecipanti portavano le candele accese. Sembra che, più che altro, proprio questa processione verso il più grande santuario della Madre di Dio nell’Urbe - la basilica di Santa Maria Maggiore - abbia imposto alla festa del Signore il carattere mariano, che pian piano cominciò a dominare. Malgrado tutta la ricchezza dell’apparato, la processione aveva il carattere penitenziale (il papa e gli assistenti erano vestiti in nero), come riparazione per i peccati commessi durante la coincidente festa pagana «amburbalia». La solenne benedizione delle candele compare dopo; la troviamo nei libri liturgici del X secolo.
Maria e Giuseppe portano Gesù al tempio: ecco la venuta del Signore Potente, che illumina il suo popolo. Cristo viene riconosciuto da chi con fede attendeva la sua venuta. Il Figlio di Dio, nato prima dei secoli, viene proclamato dallo Spirito Santo gloria d’Israele e luce di tutte le genti. Il popolo della Nuova Alleanza, adunato dallo Spirito Santo nel tempio di Dio con le candele, che simbolizzano il Cristo, luce del mondo. Le candele accese le portiamo, nella processione, come segno che insieme con Cristo camminiamo nella vita verso la casa del Padre. Ripetiamo le parole di Simeone: i miei occhi hanno visto la tua salvezza e crediamo che un giorno ci troveremo al cospetto di Dio, come Cristo oggi nel tempio di Gerusalemme. Colui, che al vecchio Simeone diede la gioia di tenere Cristo tra le braccia, a noi che camminiamo per incontrarlo concederà la gioia della vita eterna. La Presentazione di Cristo al tempio contiene in sé qualcosa dei misteri dolorosi. Maria «offre» Gesù a Dio e ogni offerta è una rinuncia. Inizia il mistero della sua sofferenza, che sarà compiuta sotto la croce. La Croce diventerà la spada che trafiggerà la sua anima.


Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale...: Paolo VI (Omelia, 2 febbraio 1975): Gesù bambino è portato al Tempio, anzi offerto a Dio, con un atto esplicito di riconoscimento del diritto divino sulla vita dell’uomo. La vita dell’uomo, del primogenito (cfr. Es 13,12ss.), come suo simbolo, appartiene a Dio. La gerarchia religiosa delle cause e dei valori è nella natura delle cose; la religione è una esigenza ontologica, che nessun ateismo, nessun secolarismo può annullare; negare, dimenticare, trascurare l’uomo potrà, a suo torto e a suo danno; confutare essenzialmente, razionalmente, senza violenza al suo pensiero e al suo essere non gli è alla fine possibile; riconoscerla, la religione, al principio d’una concezione autentica, esistenziale delle cose e della vita, è necessità, è sapienza; il cristianesimo, senza farne una teocrazia politica, lo conferma. Dice ad esempio, San Paolo: «Nessuno inganni se stesso:... sì, tutte le cose sono vostre, ma voi siete di Cristo, e Cristo di Dio» (1Cor 3,18.22-23). Non è forse così che voi, Religiosi e Religiose, voi tutti Fedeli, concepite la vita? Dio è il primo, Dio è tutto; l’atto primario, costituzionale della nostra esistenza è l’atto religioso, l’adorazione, l’ossequio, e noi beati che siamo invitati a fare della nostra religione una professione d’amore.


Papa Francesco (Angelus 2 Febbraio 2014): Oggi celebriamo la festa della Presentazione di Gesù al tempio. In questa data ricorre anche la Giornata della vita consacrata, che richiama l’importanza per la Chiesa di quanti hanno accolto la vocazione a seguire Gesù da vicino sulla via dei consigli evangelici. Il Vangelo odierno racconta che, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, Maria e Giuseppe portarono il Bambino al tempio per offrirlo e consacrarlo a Dio, come prescritto dalla Legge ebraica. Questo episodio evangelico costituisce anche un’icona della donazione della propria vita da parte di coloro che, per un dono di Dio, assumono i tratti tipici di Gesù vergine, povero e obbediente.
Questa offerta di sé stessi a Dio riguarda ogni cristiano, perché tutti siamo consacrati a Lui mediante il Battesimo. Tutti siamo chiamati ad offrirci al Padre con Gesù e come Gesù, facendo della nostra vita un dono generoso, nella famiglia, nel lavoro, nel servizio alla Chiesa, nelle opere di misericordia. Tuttavia, tale consacrazione è vissuta in modo particolare dai religiosi, dai monaci, dai laici consacrati, che con la professione dei voti appartengono a Dio in modo pieno ed esclusivo. Questa appartenenza al Signore permette a quanti la vivono in modo autentico di offrire una testimonianza speciale al Vangelo del Regno di Dio. Totalmente consacrati a Dio, sono totalmente consegnati ai fratelli, per portare la luce di Cristo là dove più fitte sono le tenebre e per diffondere la sua speranza nei cuori sfiduciati.
Le persone consacrate sono segno di Dio nei diversi ambienti di vita, sono lievito per la crescita di una società più giusta e fraterna, sono profezia di condivisione con i piccoli e i poveri. Così intesa e vissuta, la vita consacrata ci appare proprio come essa è realmente: è un dono di Dio, un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo! Ogni persona consacrata è un dono per il Popolo di Dio in cammino. C’è tanto bisogno di queste presenze, che rafforzano e rinnovano l’impegno della diffusione del Vangelo, dell’educazione cristiana, della carità verso i più bisognosi, della preghiera contemplativa; l’impegno della formazione umana, della formazione spirituale dei giovani, delle famiglie; l’impegno per la giustizia e la pace nella famiglia umana. Ma pensiamo un po’ cosa succederebbe se non ci fossero le suore negli ospedali, le suore nelle missioni, le suore nelle scuole. Ma pensate una Chiesa senza le suore! Non si può pensare: esse sono questo dono, questo lievito che porta avanti il Popolo di Dio. Sono grandi queste donne che consacrano la loro vita a Dio, che portano avanti il messaggio di Gesù.
La Chiesa e il mondo hanno bisogno di questa testimonianza dell’amore e della misericordia di Dio. I consacrati, i religiosi, le religiose sono la testimonianza che Dio è buono e misericordioso. Perciò è necessario valorizzare con gratitudine le esperienze di vita consacrata e approfondire la conoscenza dei diversi carismi e spiritualità. Occorre pregare perché tanti giovani rispondano “sì” al Signore che li chiama a consacrarsi totalmente a Lui per un servizio disinteressato ai fratelli; consacrare la vita per servire Dio e i fratelli.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** I consacrati, i religiosi, le religiose sono la testimonianza che Dio è buono e misericordioso.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente ed eterno, guarda i tuoi fedeli riuniti nella festa della Presentazione al tempio del tuo unico Figlio fatto uomo, e concedi anche a noi di essere presentati a te pienamente rinnovati nello spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo...