IL PENSIERO DEL GIORNO

6 Gennaio 2018

Epifania del Signore


Oggi Gesù ci dice: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te” (Is 60,1).


Dal Vangelo secondo Matteo 2,1-12: Epifania (Epiphaneia) significa venuta, manifestazione, apparizione: Oggi la Chiesa lavata dalla colpa nel fiume Giordano, si unisce a Cristo, suo Sposo, accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa (Ant. al Ben. Liturgia delle Ore). I Magi ed il re Erode sono i protagonisti del racconto evangelico. I Magi si mettono in cammino guidati da una stella per andare ad adorare un bambino: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode rimane paralizzato, inchiodato nei suoi sogni di grandezza: i primi hanno il cuore colmo di una gioia grandissima, il cuore di Erode invece è divorato dalla serpe della follia e concepisce progetti omicidi, e mentendo dice ai Magi: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Ma in verità cerca il Bambino per ucciderlo. I Magi sono la primizia dei popoli che aderiranno con gioia grandissima alla Chiesa edificandola cattolica, universale, Erode è la profezia del tragico destino che attende il Messia: solo i lontani sanno che Israele ha già il Messia e lo cercano per adorarlo, benché ignorino chi è e dove trovarlo. Il doloroso destino di Cristo Gesù, di essere ignorato da compatrioti e cercato dagli estranei, incomincia a realizzarsi dall’inizio stesso della sua apparizione sulla terra. Manifestazione pubblica e pubblico rifiuto vanno uniti.


L’epifania del nostro Salvatore - C. Festa (Schede Bibliche - Ed. Dehoniane): Quando, verso la fine della vita e nell’imminenza del suo martirio (2Tim. 4,6), s. Paolo scrive dalla prigionia romana al diletto discepolo Timoteo, applica per la prima volta al mistero dell’incarnazione il vocabolo greco epiphàneia (2Tim. 1,9s), che fino allora aveva usato solo nel senso di parusia (1Tim. 6,14; Tito 2,13), ossia in relazione alla grandiosa manifestazione del Signore attesa per l’ultimo giorno: «Egli ci ha salvati e ci ha chiamati a una vocazione santa, non in base alle nostre opere. ma al suo disegno e alla sua grazia: la quale ci è stata donata fin dall’eternità, ma fu manifestata adesso con l’apparizione del nostro Salvatore Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha acceso la vita e l’immortalità con il Vangelo» (2Tim. 1,9s.).
Il termine epifania sta in genere a designare l’irruzione di Dio nel mondo, che appare e scompare repentinamente agli occhi degli uomini, in una forma distinta a confusa, di carattere naturale e misterioso. Ma con la nascita di Cristo l’intervento del divino nell’umano ha assunto un carattere permanente: egli è veramente «l’Emmanuele» (Is. 7,14). Dio che ha posto la sua dimora in mezzo agli uomini (Gv. 1,14). Tutto questo però non è avvenuto nel corso di avvenimenti sconvolgenti e terrificanti come quelli che avevano accompagnato le manifestazioni di Iahvé nell’Antico Testamento, bensì sotto le umili e amabili sembianze di un bimbo, talché nella meditazione del mistero della natività l’elemento umano, con la sua tenera e commovente fragilità, sembra quasi avere il sopravvento sul divino.
Ma nei Vangeli scritti e, prima ancora, nel «Vangelo orale» che ha preceduto quelli «scritti», noi ci troviamo di fronte a una testimonianza di fede e non ad un semplice racconto storico. La storia dell’infanzia di Gesù non è la narrazione degli esordi della vita di un grande eroe o di un celebre sapiente, ma il preludio religioso al ministero pubblico di Gesù, e più ancora al mistero della sua morte e della sua risurrezione.
Il vangelo dell’infanzia appartiene al nucleo essenziale della storia della salvezza.
Si comprende allora perché, quando verso il secolo V, la Chiesa romana adottò la festa orientale dell’Epifania del Signore, concentrò la sua meditazione sul mistero dell’adorazione dei Magi nella quale Cristo viene presentato per la prima volta come Re e Salvatore di tutte le genti, relegando in secondo piano la vera, prima e grande epifania storica di Gesù, e cioè il suo battesimo che aveva costituito e costituisce l’oggetto principale della festa dell’Epifania nelle Chiese d’Oriente.


Ortensio Da Spinetoli (Matteo): L’avanzata processionale dei magi verso il presepio, non impedisce di osservare la marcia inversa che la nazione israelitica, rappresentata dai suoi capi, sta compiendo all’annuncio della nascita del salvatore. I magi sono pieni di gioia, gli abitanti di Gerusalemme in preda al terrore.
I giudei sono capaci di scrutare le Scritture e di scoprire il luogo predetto dal profeta per la nascita del condottiero messianico, ma non fanno nessun passo per rintracciarlo, per mettersi almeno al seguito degli adoratori stranieri. Il loro raduno nella reggia di Erode sembra piuttosto un consiglio di guerra e non una serena ricerca della volontà di Dio. La capitale messianica, la piccola Betlem, la minima tra le città di Giuda, adombra la grande Gerusalemme: questa le si lancerà contro con tutte le sue forze, ma inutilmente, il messia sfuggirà ai suoi attacchi. La tensione che il racconto dei magi riflette, abbraccia e riguarda soprattutto le lotte che la comunità apostolica deve sostenere da parte del giudaismo. Il comportamento di Erode, dei sacerdoti, degli scribi e del popolo contro il messia è lo stesso che le autorità gerosolimitane (di nuovo i sacerdoti, gli scribi ed Erode) hanno assunto contro il Cristo sia durante gli anni del ministero pubblico che nella settimana di passione. Lo stesso atteggiamento assumono, mentre l’evangelista scrive, in ogni città della Palestina, dell’Asia o della Grecia all’apparire dei predicatori evangelici. I giudei si disinteressano di indagare sull’identità del messia, si scandalizzano dei suoi umili natali, trarre più intimamente nella dignità e missione del Cristo.
Mentre i racconti precedenti cercano di mettere in luce la sua discendenza davidica e l’origine soprannaturale, il presente «episodio» scopre i lati opposti. Egli sarà non solo un «Dio con noi», ma anche un re perseguitato, un «servo sofferente», si potrebbe dire con un po’ di anticipo. Suoi antenati sono i dinasti di Giuda ma i suoi prototipi sono Mosè e l’Israele dell’esodo. Egli raccoglierà le loro prove prima di ereditare le promesse loro affidate. Prima di iniziare la propria carriera, di ripetere cioè i loro successi, deve ripercorrere, almeno spiritualmente, il loro cammino di sofferenza. Le ostilità vengono solo a caratterizzare la missione di Gesù, non ad arrestarla.


Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): Magi: il nome è di origine semitica; etimologicamente significa sacerdote oppure grande. Secondo Erodoto e Senofonte i Magi costituivano presso i Medi ed i Persiani una casta: di sacerdoti che si occupavano di astronomia, di divinazione e di medicina. Per Matteo i Magi sembrano essere delle persone che si occupavano di astronomia per scoprire nel cielo segni precursori di lieti eventi; essi quindi non erano uomini dediti alla divinazione o ad arti magiche. Il loro paese di origine è indicato con un termine vago: l’oriente. Per un palestinese l’oriente era la Transgiordania; è perciò logico pensare che i  Magi venuti dall’Arabia - come si può dedurre dalla natura dei loro doni - risalirono per Moab e la Transgiordania, attraversarono il Giordano e vennero a Gerusalemme ed a Bethleem. Non è il caso di immaginare un oriente lontano come la Mesopotamia o la Persia un viaggio durato più mesi. Il testo non dice che essi erano dei re, né indica il loro numero, né i loro nomi.


Giovanni Paolo II, (Omelia, 6 Gennaio 2002): Quest’oggi, solennità dell’“Epifania”, che significa “Manifestazione”, ritorna con vigore il tema della luce. Quest’oggi il Messia, che a Betlemme si manifestò a umili pastori della regione, continua a rivelarsi luce dei popoli di ogni tempo e di ogni luogo. Per i Magi, venuti dall’Oriente ad adorarlo, la luce del “re dei Giudei che è nato” (Mt 2,2) assume la forma di un astro celeste, così splendido da attirare i loro sguardi e guidarli fino a Gerusalemme. Li pone così sulle tracce delle antiche profezie messianiche: “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele...” (Nm 24,17). Quanto è suggestivo il simbolo della stella che ricorre in tutta l’iconografia del Natale e dell’Epifania! Ancor oggi evoca profondi sentimenti anche se, come tanti altri segni del sacro, rischia talora di venire banalizzato dall’uso consumistico che ne vien fatto. Tuttavia, ricollocata nel suo contesto originario, la stella che contempliamo nel presepe parla alla mente ed al cuore anche dell’uomo del terzo millennio. Parla all’uomo secolarizzato, ridestando in lui la nostalgia della sua condizione di viandante in cerca della verità e desideroso dell’assoluto. L’etimologia stessa del verbo “desiderare” evoca l’esperienza dei naviganti, i quali si orientano nella notte osservando gli astri, che in latino si chiamano “sidera”. Chi non sente il bisogno di una “stella” che lo guidi nel suo cammino sulla terra? Avvertono questa necessità sia gli individui che le nazioni. Per venire incontro a quest’anelito di universale salvezza, il Signore si è scelto un popolo, che fosse stella orientatrice per “tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Con l’Incarnazione del suo Figlio, Dio ha poi allargato l’elezione ad ogni altro popolo, senza distinzione di razza e cultura. È nata così la Chiesa, formata da uomini e donne i quali, “riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti” (GS 1). Risuona, pertanto, per l’intera Comunità ecclesiale l’oracolo del profeta Isaia, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te... Cammineranno i popoli alla tua luce, / i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1.3).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Ora è stato rivelato che tutte le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

5 Gennaio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Vieni e vedi” (Gv 1,46).


Dal Vangelo secondo Giovanni 1,43-51: Filippo è, dopo Andrea e Simon Pietro, il terzo discepolo che viene chiamato con il suo nome: tutti e tre vengono da Betsaida, città di pescatori situata in riva al lago di Tiberiade. Lo scetticismo di Natanaele è comprensibile: il messia non poteva venire da una città insignificante come Nazaret. Questo contrasto tra il messia glorioso atteso e l’origine umile di Gesù è lo scandalo dell’Incarnazione. Solo la fede può vincere questo scetticismo ed entrare nel mistero del Cristo, solo la fede può sollevare il velo della  povertà della carne è conoscere che Gesù di Nazaret è il Figlio di Dio, il Verbo fatto Carne (Gv 1,14). Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi:  nel vangelo di Giovanni, Gesù dà spesso prova di una conoscenza superiore degli avvenimenti e delle persone, e di essere padrone di ogni situazione che gli si presenta. Il titolo Figlio dell’uomo nel vangelo di Giovanni si ispira alla scala di Giacobbe (Gn 28,10-17), a differenza dei sinottici che fanno riferimento al libro di Daniele (7,13). Come in quell’episodio della Genesi, il riferimento agli angeli significava l’incontro e la comunicazione di Dio con gli uomini, così qui Gesù, in quanto Figlio dell’uomo, è diventato il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra.


Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): L’incontro Gesù-Natanaele è ben descritto. Gesù gli fa capire che lo conosce in profondità; anzi, che l’ha conosciuto e visto, e perciò scelto, prima ancora che Filippo lo chiamasse. Gesù già sapeva che Natanaele era un vero israelita, cioè che apparteneva a quel resto di Israele, povero e umile, che viveva, alimentandosi alle Scritture, l’ansiosa attesa del Messia. Di fronte a questa esperienza Natanaele pronuncia il suo atto di fede, premettendo di riconoscersi discepolo. Egli chiama Gesù «Rabbi», cioè «Maestro», e poi aggiunge: «Tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele», Il suo atto di fede è unicamente fondato sulle Scritture ed è strettamente legato alle profezie messianiche davidiche. L’espressione «Figlio di Dio» non ha qui la solennità di 1,34. Qui è spiegata dall’espressione: «Tu sei il re d’Israele». Il Messia, atteso come discendente di Davide, era, secondo la promessa, chiamato «Figlio di Sion (2 Sam 7,14; Sal 89,4-3.27-28).Natanaele si mantiene come Filippo, in un orizzonte puramente nazionalistico. E Gesù che lo porta a conoscere il di più: «Vedrai cose maggiori di queste»; e poi passa all’uso del plurale, chiaro indizio che qui Natanaele è visto come tipo di un gruppo Natanaele: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (1,51).
Natanaele, sentendo Gesù, è subito riportato alle Scritture, a quanto scrisse Mosè; in particolare al sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22). Ora però, si parla di «cielo aperto» e non si parla di «terra»; perciò non si può dire con Giacobbe: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è la casa di Dio questa è la porta del cielo». Ora questo luogo, questa casa, questa porta è il Figlio dell’uomo, come ama chiamarsi Gesù; ed è lui che apre la via del cielo.
È difficile dire che cosa, quel giorno, abbia capito Natanaele, ma è certo che per l’evangelista e la comunità cristiana Gesù è il tempio di Dio, il luogo di incontro tra Dio e l’umanità, tra Dio e ciascun uomo, Certamente le Scritture (per noi cristiani l’Antico Testamento) ci parlano e ci conducono a Gesù, come hanno condotto Filippo e Natanaele. Il compimento delle Scritture, però, va oltre il previsto: la realtà supera sempre la promessa.


Vieni e vedi: Benedetto XVI (Udienza Generale, 6 settembre 2006): Il Quarto Vangelo racconta che, dopo essere stato chiamato da Gesù, Filippo incontra Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,45). Alla risposta piuttosto scettica di Natanaele (“Da Nazaret può forse venire qualcosa di buono?”), Filippo non si arrende e controbatte con decisione: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). In questa risposta, asciutta ma chiara, Filippo manifesta le caratteristiche del vero testimone: non si accontenta di proporre l’annuncio, come una teoria, ma interpella direttamente l’interlocutore suggerendogli di fare lui stesso un’esperienza personale di quanto annunciato. I medesimi due verbi sono usati da Gesù stesso quando due discepoli di Giovanni Battista lo avvicinano per chiedergli dove abita. Gesù rispose: “Venite e vedrete” (cfr. Gv 1,38-39). Possiamo pensare che Filippo si rivolga pure a noi con quei due verbi che suppongono un personale coinvolgimento. Anche a noi dice quanto disse a Natanaele: “Vieni e vedi”. L’Apostolo ci impegna a conoscere Gesù da vicino. In effetti, l’amicizia, il vero conoscere l’altro, ha bisogno della vicinanza, anzi in parte vive di essa. Del resto, non bisogna dimenticare che, secondo quanto scrive Marco, Gesù scelse i Dodici con lo scopo primario che “stessero con lui” (Mc 3,14), cioè condividessero la sua vita e imparassero direttamente da lui non solo lo stile del suo comportamento, ma soprattutto chi davvero Lui fosse. Solo così infatti, partecipando alla sua vita, essi potevano conoscerlo e poi annunciarlo. Più tardi, nella Lettera di Paolo agli Efesini, si leggerà che l’importante è “imparare il Cristo” (4,20), quindi non solo e non tanto ascoltare i suoi insegnamenti, le sue parole, quanto ancor più conoscere Lui in persona, cioè la sua umanità e divinità, il suo mistero, la sua bellezza. Egli infatti non è solo un Maestro, ma un Amico, anzi un Fratello. Come potremmo conoscerlo a fondo restando lontani? L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno scoprire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù giorno per giorno.


Vedrete il cielo aperto... Catechismo della Chiesa Cattolica n. 326: «Il cielo», o «i cieli», può indicare il firmamento, ma anche il «luogo» proprio di Dio: il nostro «Padre che è nei cieli» (Mt 5,16) e, di conseguenza, anche il «cielo» che è la gloria escatologica. Infine, la parola «cielo» indica il «luogo» delle creature spirituali - gli angeli - che circondano Dio.


... e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 350-352: Gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creature: «Ad omnia bona nostra cooperantur angeli - Gli angeli cooperano ad ogni nostro bene». Gli angeli circondano Cristo, loro Signore. Lo servono soprattutto nel compimento della sua missione di salvezza per tutti gli uomini. La Chiesa venera gli angeli che l’aiutano nel suo pellegrinaggio terreno e che proteggono ogni essere umano.


Salvatore Alberto Panimolle (Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni): A) ACCOSTARSI A GESÙ CON SINCERITÀ - Natanaele è stato trasformato dall’incontro con Gesù, perché in lui non c’era falsità; egli si è accostato al Maestro con cuore sincero e semplice. Chi invece vive nell’ipocrisia, è impermeabile all’azione salvifica della parola e della persona di Gesù. Tali furono i giudei. Perché il Cristo possa convertire i cuori, perché la parola di Dio possa cambiare radicalmente la nostra esistenza, è necessario avvicinarsi a queste realtà salvifiche con semplicità e sincerità, con la disponibilità del discepolo che vuole accogliere tutto dal suo Maestro e Dio. B) ACCOGLIERE LA PAROLA E LA PERSONA DI GESÙ - Nella pericope della vocazione dei primi discepoli Gesù è presentato come il Messia escatologico che porta la rivelazione perfetta e definitiva. A noi il bisogno, più che al dovere, di accogliere la parola del figlio di Dio. Gesù inoltre realizza le Scritture. Noi viviamo la bibbia, quando crediamo nel Cristo, quando polarizziamo la nostre esistenza verso la sua persona. Il Verbo incarnato è la rivelazione piena e perfetta dell’amore del Padre; quindi per ottenere la salvezza, dobbiamo accogliere e accettare la persona del figlio di Dio. Gesù è il re messianico, in quanto testimone della verità ossia in quanto rivelatore escatologico. A noi il dovere e il bisogno di ascoltare la voce del Maestro, di accogliere la sua rivelazione, facendola penetrare nel nostro cuore, affinché trasformi tutta Ia nostra viva, rendendola conforme al messaggio evangelico.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  Il Verbo incarnato è la rivelazione piena e perfetta dell’amore del Padre; quindi per ottenere la salvezza, dobbiamo accogliere e accettare la persona del figlio di Dio.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nella nascita del tuo unico Figlio hai dato mirabile principio alla nostra redenzione, rafforza la fede del tuo popolo, perché sotto la guida del Cristo giunga alla meta della gloria eterna. Egli è Dio, e vive e regna con te...


IL PENSIERO DEL GIORNO

4 Gennaio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Venite e vedrete” (Gv 1,39).


Dal Vangelo secondo Giovanni 1,35-42: Possiamo trovarvi una traccia per un cammino vocazionale: cercare Gesù è andare da lui, vedere dove abita, stare con lui e ascoltare la sua Parola. Ma non può essere un possesso egoistico, perché l’incontro con il Verbo deve essere testimoniato; deve far nascere nel cuore dei discepoli il desiderio e lo zelo di condurre a Dio gli uomini. I credenti che hanno incontrato il Cristo sono i testimoni dell’Amore: tutti i battezzati, come Giovanni Battista, «tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2), devono indicare al mondo l’Agnello di Dio.


L’Agnello pasquale - G. B. (Agnello in Schede Bibliche Pastorali, Vol. I - EDB): Come altri animali, nei riti sacrificali dell’Antico Testamento l’agnello era la vittima offerta in olocausto espiatorio a Dio (cf. per es. Lv 9,3). Aveva invece un ruolo del tutto singolare nel rito della cena pasquale (Es 12,1-16).
La sera del 14 del mese di Nisan gli israeliti uccidevano l’agnello, o il capretto, scelto quattro giorni prima con oculatezza, dovendo essere senza alcun difetto, maschio, di un anno. Lo si arrostiva per bene e di notte lo si mangiava con pani azzimi ed erbe amare. La celebrazione aveva il preciso significato di commemorazione dello scampato pericolo in terra egiziana, quando Jahvé colpì i primogeniti d’Egitto, risparmiando le case degli ebrei con gli stipiti e l’architrave tinti del sangue dell’agnello.
Ed è risaputo che Israele attribuiva ai suoi riti di «memoria» storica una pregnanza tutta particolare: i partecipanti attualizzavano infatti la portata salvifica degli eventi commemorati, nel nostro caso del riscatto dalla schiavitù egiziana. La tradizione giudaica poi è giunta ad attribuire esplicitamente al sangue dell’agnello pa­squale valore salvifico. «In virtù del sangue dell’alleanza della circoncisione e in virtù del sangue della pasqua, io vi ho liberati dall’Egitto» (Pirqè R. Eliezer 29).
Ora, nel Nuovo Testamento, tutto intento ad approfondire ed esprimere il mistero della persona di Gesù Cristo, si identifica senz’altro l’agnello pasquale con Cristo, o meglio si afferma che questi è per i credenti l’agnello pasquale. Ne fa fede anzitutto Paolo: «E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (1Cor 5,7). Ma l’apostolo si mostra qui debitore alla tradizione cristiana primitiva. Dunque è alla chiesa degli anni quaranta che dobbiamo questa interpretazione tipologica dell’agnello pasquale. Sotto forma di paragone poi la prima lettera di Pietro proclama che i credenti sono stati redenti «con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia» (1,18-19). In questo passo però, oltre la sottolineatura del valore espiatorio della morte di Cristo, si accentua l’innocenza della vittima.
Comunque sono gli scritti giovannei che più hanno sviluppato tale tipologia cristologica. Il quarto vangelo attribuisce grande importanza ad un particolare apparentemente insignificante della passione di Crsto: al crocifisso non furono spezzate le gambe (19,33). In realtà, l’evangelista vi scorge il compimento profetico del testo della prescrizione del libro dell’Esodo secondo cui non dovevano essere spezzate le ossa dell’agnello pasquale (Es 12,46), testo inteso quale preannuncio del futuro: «Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso» (19,36). A questo scopo Giovanni sottolinea che Gesù morì in croce la vigilia della pasqua ebraica (18,28; 19,14.31), esattamente quando si uccidevano gli agnelli della celebrazione pasquale. In breve, è il crocifisso il vero agnello pasquale per i credenti che per grazia hanno realizzato il nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà e nell’eucaristia, nuova pasqua, celebrano l’evento liberatore. Ma già all’inizio del suo vangelo Giovanni aveva presentato in questi termini il contenuto della testimonianza del Battista a favore di Gesù: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» (1,29; cf. 1,36). Con probabilità vi si allude all’agnello pasquale, che però non aveva valore di sacrificio espiatorio. In realtà, vuol dire Giovanni, Cristo supera di molto la portata dei riti dell’Antico Testamento; egli libera il mondo dalla potenza del peccato e la sua morte costituisce il vero e definitivo sacramento di salvezza.
L’umanità peccatrice, impossibilitata da se stessa, cioè con i suoi sacrifici, a liberarsi, riceve in dono da Dio stesso Gesù come vittima sacrificale capace di ottenere il perdono dei peccati. Si spiega così la singolarità della formula giovannea: «agnello di Dio». Diventa allora possibile che l’evangelista si riferisca non solo all’agnello pasquale, ma anche al servo sofferente di Dio, paragonato a un agnello condotto al macello (Is 53,7) e portatore del peccato della moltitudine umana (Is 53,12).


L’Agnello che toglie il peccato del mondo - Catechismo della Chiesa Cattolica n. 608: Dopo aver accettato di dargli il battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti


Ecco l’agnello di Dio! - Il brano del Vangelo può essere diviso in due parti. Nella prima, Giovanni rende testimonianza a Gesù suscitando la vocazione di Andrea e di un secondo discepolo che non viene nominato nel Vangelo; nella seconda parte, fragrante di genuino sapore missionario, Andrea, affascinato da Gesù, lo annuncia al fratello Simone che viene a sua volta conquistato al Cristo.
«Giovanni stava con due dei suoi discepoli e,  fissando lo sguardo su Gesù»: il verbo emblépein indica l’atto di guardare con attenzione, cercando di andare in profondità, scrutando l’anima e il cuore.
Il quarto vangelo poi lo dirà di Gesù, il quale poserà il suo sguardo su Simone (Cf. Gv 1,42; Lc 22,61). I vangeli ricorderanno anche lo sguardo di Gesù che si poserà sul giovane ricco. Marco addirittura annoterà: «Gesù, fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (Mc 10,21).
Giovanni guarda con attenzione Gesù che passava: che venga detto che Gesù camminasse è un particolare sul quale l’evangelista Giovanni insiste molto in quanto con esso vuole sottolineare l’umanità di Gesù: «questi è un vero uomo, che cammina con i piedi, come farà il paralitico guarito alla piscina di Betzatà [...]. Si osservi inoltre il contrasto tra l’atteggiamento statico del Battista, ritto in piedi [Gv 1,35] e quello dinamico di Gesù. Questi è in cammino per illuminare gli uomini e invitarli a credere nella luce [Cf. Gv 12,35s]. Gesù è in cammino verso la croce e invita i discepoli a seguirlo sul Golgota [Cf. Gv 12,24ss]. Gesù è in cammino e sta per chiamare i primi discepoli ad incamminarsi con lui [Gv 1,39] e a seguirlo [Gv 1,43]» (SALVATORE ALBERTO PANIMOLLE).
L’espressione Ecco l’agnello di Dio è gravida di un duplice simbolismo, che ha profonde radici nella teologia dell’Antico Testamento: il primo rimanda all’agnello pasquale che viene immolato nel tempio alla vigilia di Pasqua e al quale non doveva venir spezzato alcun osso (Giovanni collocherà la morte di Gesù in questo contesto sacrificale); l’altro riconduce al servo sofferente che porta su di sé il peccato del mondo e che era stato preannunciato da Isaia: «... era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca... egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli» (Is 53,1ss).
Una interpretazione dettata dal fatto che la parola agnello, talià, significa tanto servo quanto agnello: Gesù è l’agnello di Dio, il Servo sofferente, colui che toglie il peccato del mondo (Cf. Gv 1,29).
«Venite e vedrete»: il verbo vedere ricorre molte volte nel Vangelo e nelle lettere di Giovanni come passaggio al credere e alla testimonianza. Si possono ricordare, tra i tanti, almeno tre passi. Il primo è Gv 1,34: «Io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio». Il secondo brano è Gv 19,35: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate». Il terzo è l’ampia professione di fede dell’apostolo Giovanni: «... quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza... -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1ss).
Questo vedere suscita o rafforza la fede, ma «non porta mai alla visione diretta e definitiva di Dio. “Dio nessuno l’ha visto”, insiste il IV Vangelo [cf 1,18; 5,37; 6,46]; i discepoli possono “vedere” Gesù, e solo attraverso lui riconoscere il Padre [cf 14,7.9]. Questo riconoscimento è reale solo se messo in pratica dall’ascolto della parola di Dio: “io, dice Gesù, parlo di quello che ho visto presso il Padre, voi dunque fate quello che avete udito dal Padre vostro” (8,38). È proprio l’ascolto della Parola la condizione normale per venire alla fede: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” [Gv 20,29]» (Clara Achille Cesarini).
Andrea e il discepolo innominato si fermano, ascoltano... la Parola prima che alle loro menti si rivela ai loro cuori... essi comprendono che Gesù è il Messia e ne diventano gli annunciatori, oltre che i discepoli. I frutti sono immediatamente abbondanti. Andrea conduce il fratello Simone a Gesù e a lui tocca fare un’esperienza ancora più esaltante: scrutato, amato da Gesù fin dal primo momento, viene trasformato nel cuore, nella mente e nell’anima, al punto che riceve un nome nuovo: Cefa, che significa Pietro.
Simone è la roccia sulla quale Cristo edificherà la sua Chiesa «e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16,13-19).


E lo condusse da Gesù - Pastores Dabo Vobis 38: Certamente la vocazione è un mistero imperscrutabile, che coinvolge il rapporto che Dio instaura con l’uomo nella sua unicità e irripetibilità, un mistero che viene percepito e sentito come un appello che attende una risposta nel profondo della coscienza, in quel «sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria». Ma ciò non elimina la dimensione comunitaria, ed ecclesiale in specie, della vocazione: anche la Chiesa è realmente presente e operante nella vocazione di ogni sacerdote. Nel servizio alla vocazione sacerdotale e al suo itinerario, ossia alla nascita, al discernimento e all’accompagnamento della vocazione, la Chiesa può trovare un modello in Andrea, uno dei primi due discepoli che si pongono al seguito di Gesù. È lui stesso a raccontare al fratello ciò che gli era accaduto: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)». E il racconto di questa «scoperta» apre la strada all’incontro: «E lo condusse da Gesù». Nessun dubbio sull’iniziativa assolutamente libera e sulla decisione sovrana di Gesù. È Lui che chiama Simone e gli dà un nuovo nome: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”». Ma pure Andrea ha avuto la sua iniziativa: ha sollecitato l’incontro del fratello con Gesù.
«E lo condusse da Gesù». Sta qui, in un certo senso, il cuore di tutta la pastorale vocazionale della Chiesa, con la quale essa si prende cura della nascita e della crescita delle vocazioni, servendosi dei doni e delle responsabilità, dei carismi e del ministero ricevuti da Cristo e dal suo Spirito. La Chiesa, come popolo sacerdotale, profetico e regale, è impegnata a promuovere e a servire il sorgere e il maturare delle vocazioni sacerdotali con la preghiera e con la vita sacramentale, con l’annuncio della Parola e con l’educazione alla fede, con la guida e la testimonianza della carità.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Ma pure Andrea ha avuto la sua iniziativa: ha sollecitato l’incontro del fratello con Gesù.
Questa parola cosa ti suggeriscono?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Dio onnipotente, il Salvatore che tu hai mandato, luce nuova all’orizzonte del mondo, sorga ancora e risplenda su tutta la nostra vita. Egli è Dio, e vive e regna con te...


IL PENSIERO DEL GIORNO

3 Gennaio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie” (Salmo Responsoriale).


Dal Vangelo secondo Giovanni 1,29-34: Gesù agli inizi della sua missione, incomincia il suo cammino fra i peccatori e in solidarietà con essi, prendendo su di sé i loro peccati. Gesù è l’agnello di Dio, un’ immagine biblica che rievoca quella del servo sofferente di Ihawè che, come agnello mansueto, viene condotto al macello e porta su di sé i peccati del popolo (cfr. Isaia 53,4-7.11-12), e quella dell’agnello pasquale di Esodo (12,46) che l’evangelista accosterà più tardi alla morte innocente di Gesù in croce. La testimonianza del Battista si conclude con la proclamazione di Gesù Figlio di Dio. Tale riconoscimento non è frutto di conoscenza umana, ma è dono dello Spirito. Infatti Giovanni dichiara di non aver conosciuto la persona di Gesù nella profondità del suo mistero di Figlio di Dio, se non dopo aver visto lo Spirito discendere come una colomba dal cieli e rimanere su di lui (cfr. Is 11,2; 61,1).


Ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio - Ecco l’agnello di Dio... Applicando a Gesù il termine agnello, l’evangelista Giovanni offre al suo lettore diverse possibili interpretazioni. Le più comuni sono quelle che si rifanno all’agnello pasquale con cui è stato salvato il popolo d’Israele (Cf. Es 12,3) oppure all’Agnello apocalittico che distruggerà il male presente nel mondo (Cf. Ap 5,7; 17,14). Possono essere questi i riferimenti a cui il Precursore si è ispirato, ma poiché in aramaico per dire agnello si usa la parola talya, e la stessa parola designa anche il servo, al testo giovanneo possono essere date altre interpretazioni.
Giovanni Battista, può essersi ispirato al noto vaticinio presente nel quarto canto del servo del Signore: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello; come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,7); oppure al servo sofferente preconizzato dal profeta Isaia: «Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4).
Ma forse, il Precursore, ha voluto unire intenzionalmente in una sola parola i due significati presentando in questo modo Gesù servo e agnello: un lavoro di sutura con il quale assomma la sofferenza vicaria del Figlio di Dio alla sua umile e mite obbedienza alla volontà del Padre, «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8). Gesù è il servo-luce (Cf. Gv 3,19s; 12,46) che porterà «la salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6) e allo stesso tempo è l’Agnello-immolato (Cf. Gv 19,36; Ap 5,6), «colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29).
È probabile che il precursore abbia usato di proposito questa parola per assommare i due significati, ma «l’evangelista, scrivendo in greco, abbia dovuto scegliere» (Bibbia di Gerusalemme).
In ogni caso, con questa “immagine”, o faccia riferimento al servo-luce delle nazioni o all’agnello-immolato per la salvezza del popolo, bene viene messa in evidenza la missione del Verbo di Dio: strade intrise di sangue, di pene e di dolori indicibili che si incroceranno, sul Golgota, con la Croce, il supplizio infamante degli schiavi.
Comunque, il riferimento all’Agnello apocalittico che toglie il peccato del mondo «corrisponderebbe meglio al modo di pensare del Battista, così come possiamo trovarlo nei Sinottici: egli annuncia la venuta di colui che “ha in mano il ventilabro” e “pulirà la sua aia... brucerà la pula” [Matteo 3,12]. Egli in questo modo coincide con la concezione apocalittica, espressa in molti testi dell’epoca, dell’Agnello regale che lotta contro le fiere e distrugge il mondo cattivo [vedi Apocalisse 14,10; 17,14]. Qui però l’immagine ebraica è stata capovolta dalla fede cristiana: nell’Apocalisse, il combattimento dell’Agnello è la sua morte e sulla bocca del Battista non sono più i peccatori che sono vinti, ma il peccato del mondo che è tolto dall’Agnello di Dio» (I Quattro Vangeli Commentati, ELLEDICI).
... colui che toglie il peccato del mondo! Il peccato «al singolare indica la situazione in cui si trovavano gli uomini e che l’agnello di Dio prende su di sé per togliere» (Giuseppe Segalla). Mondo nel Vangelo di Giovanni indica l’ambiente in cui l’uomo vive, oppure gli uomini che lo abitano e che Dio ama e salva in Gesù (Cf. Gv 3,16-17), oppure tutto quello che si oppone al Vangelo di Gesù e alla salvezza da lui offerta (Cf. Gv 17,1s).
Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele. Che Giovanni Battista non conoscesse Gesù fa pensare che il quarto vangelo ignori la tradizione sull’infanzia di Gesù (Cf. Lc 1,41). Ma probabilmente il significato è ben diverso: nessuno può da solo conoscere il mistero di Gesù. C’è bisogno della rivelazione del Padre. Il battesimo di Giovanni non è un battesimo di perdono dei peccati, ma di preparazione alla rivelazione di Gesù. Il verbo manifestare (rivelare) è proprio del quarto vangelo ed indica l’uscire di Gesù dalle tenebre per essere visto e conosciuto dagli uomini.
Nella testimonianza del Battista vi è ancora un’immagine: Ho contemplato lo Spirito Santo discendere come una colomba.
La colomba, già presente in vari testi scritturali (come simbolo della nuova creazione nel libro della Genesi [8,8], come figura amorosa nel Cantico dei Cantici [2,14; 4,1; 5,2.12; 6,9] o della comunità d’Israele in Osea [11,11]), qui è il simbolo dello Spirito Santo che viene nel mondo rinnovandolo con il dono della pace, costituendolo nuovo Israele, la vera e unica Chiesa di Dio, e per unirlo come sposo, in mistiche nozze, al suo Creatore (Ap 21,2).
Lo Spirito si posa e rimane su Gesù: Giovanni, con quest’ultimo verbo, ama sottolineare il legame durevole della relazione tra il Padre e il Figlio e tra il Figlio e i discepoli. Ma il verbo rimanere è anche importante perché «nel quarto vangelo questo è il verbo che rende possibile il “portare frutto” [pensiamo al capitolo 15: nei primi versetti questo verbo compare ben 10 volte!]. “Rimanendo” in Gesù, lo Spirito Santo ne rende possibile il “portare frutto”, cioè ne rende possibile la missione, l’obbedienza al Padre, il cammino verso l’“ora” [tema caratteristico di Giovani], l’accettare la croce e l’esaltazione della gloria di Pasqua» (Don Primo Gironi).
Ed è stata la discesa dello Spirito Santo a manifestare al Battista la dignità messianica di Gesù.
E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio. Nell’annuncio del Precursore Figlio di Dio significa Messia, ma per i lettori cristiani esprime pure la sua Divinità come intende suggerire l’evangelista Giovanni (Cf. Gv 21,30-1). Quella di Giovanni Battista, è una professione di fede che dovrebbe risuonare nei cuori di tutti i credenti e «in tutto il mondo» (Mc 16,15) perché creda e si salvi.


Catechismo della Chiesa Cattolica

Il battesimo di Gesù n. 536: Il battesimo di Gesù è, da parte di lui, l’accettazione e l’inaugurazione della sua missione di Servo sofferente. Egli si lascia annoverare tra i peccatori; è già «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29); già anticipa il «battesimo» della sua morte cruenta. Già viene ad adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,15), cioè si sottomette totalmente alla volontà del Padre suo: accetta per amore il battesimo di morte per la remissione dei nostri peccati. A tale accettazione risponde la voce del Padre che nel Figlio suo si compiace. Lo Spirito, che Gesù possiede in pienezza fin dal suo concepimento, si posa e «rimane» su di lui. Egli ne sarà la sorgente per tutta l’umanità. Al suo battesimo, «si aprirono i cieli» (Mt 3,16) che il peccato di Adamo aveva chiuso; e le acque sono santificate dalla discesa di Gesù e dello Spirito, preludio della nuova creazione.

Ecco l’agnello di Dio n. 608: Dopo aver accettato di dargli il battesimo tra i peccatori, Giovanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il peccato delle moltitudini e l’Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui n. 1286: Nell’Antico Testamento, i profeti hanno annunziato che lo Spirito del Signore si sarebbe posato sul Messia atteso in vista della sua missione salvifica. La discesa dello Spirito Santo su Gesù, al momento del suo Battesimo da parte di Giovanni, costituì il segno che era lui che doveva venire, che egli era il Messia, il Figlio di Dio. Concepito per opera dello Spirito Santo, tutta la sua vita e la sua missione si svolgono in una totale comunione con lo Spirito Santo che il Padre gli dà «senza misura» (Gv 3,34).

Figlio unico di Dio n. 441: Figlio di Dio, nell’Antico Testamento, è un titolo dato agli angeli, al popolo dell’elezione, ai figli d’Israele e ai loro re. In tali casi ha il significato di una filiazione adottiva che stabilisce tra Dio e la sua creatura relazioni di una particolare intimità. Quando il Re-Messia promesso è detto «figlio di Dio», ciò non implica necessariamente, secondo il senso letterale di quei testi, che egli sia più che umano. Coloro che hanno designato così Gesù in quanto Messia d’Israele forse non hanno inteso dire di più.


Catechismo degli Adulti

Figlio di Dio

293: “Figlio di Dio”, nell’Antico Testamento, veniva chiamato Israele, in quanto scelto da Dio e prediletto tra tutti i popoli; e poi anche il re di Israele, in quanto governava come rappresentante di JHWH. La fede cristiana delle origini, attribuendo a Gesù questo titolo, lo intese in un senso incomparabilmente più alto: Gesù è  il Figlio unico di Dio, eternamente partecipe della sua vita, eternamente amato

  
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Chi rimane in Dio non pecca (I Lettura).
Questa parola cosa ti suggeriscono?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, tu hai voluto che l’umanità del Salvatore, nella sua mirabile nascita dalla Vergine Maria, non fosse sottoposta alla comune eredità dei nostri padri; fa’ che liberati dal contagio dell’antico male possiamo anche noi far parte della nuova creazione, iniziata da Cristo tuo Figlio. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

2 Gennaio 2018


Oggi Gesù ci dice: “Quello che avete udito da principio rimanga in voi” (Prima Lettura).


Dal Vangelo secondo Giovanni 1,19-28: Perché dunque tu battezzi, se non sei il cristo, né Elia, né il profeta? All’incalzare delle domande degli inviati, arriva finalmente la risposta positiva: «Io sono voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,23). L’attenzione quindi viene spostata perentoriamente sul vero Messia che è già in mezzo al popolo, ma non ancora manifestato: «In mezzo a voi sta uno che non conoscete» (Gv 1,26). Bisogna, dunque, disporsi ad accoglierlo, con la conversione e la penitenza cui allude il battesimo di Giovanni.


L’uomo mandato da Dio (Gv 1,19-42) - Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): Sappiamo già che si chiamava Giovanni (1,6) e che è stato «mandato da Dio per dare testimonianza alla Luce affinché tutti credessero per mezzo di lui» (1,7-8); conosciamo anche un detto della sua testimonianza: «Colui che viene dopo di me è più grande di me, perché era prima di me» (1,15). Ma come ha esercitato Giovanni la sua missione di testimone? È riuscito a ottenere che almeno alcuni per mezzo suo credessero nella Luce? Davvero colui che è venuto dopo, è più grande di lui? A queste domande risponde l’evangelista che ora parla del modo con cui Giovanni, in tre giorni successivi, ha testimoniato Gesù. Il primo giorno (1,19-28) dice chi egli è in relazione a Gesù; il secondo giorno (1,29-34) è presente anche Gesù, e allora Giovanni con molta più chiarezza dice chi è Gesù; infine, il terzo giorno (1,35-42) parla di Gesù ai suoi discepoli e due di loro passano dalla parte di Gesù.


Il Cristiano deve preparare la via al Signore Gesù - Salvatore Alberto Panimolle (La Lettura Pastorale del Vangelo di Giovanni): La missione e la funzione esplicata dal Battista, di preparare la via a Gesù, ha una grande attualità anche per i discepoli del Cristo nel secolo XX. Come abbiamo costatato, mentre i sinottici, presentando l’opera del precursore del Messia, sottolineano la necessità della conversione per accogliere la parola di Gesù, il quarto evangelista accentua l’aspetto della finalizzazione della testimonianza di Giovanni verso la persona di Gesù, per favorire la fede nell’Eletto di Dio.
A somiglianza del Battista, anche noi dobbiamo finalizzare la nostra vita e la nostra azione apostolica verso la persona di Gesù. Come Giovanni dobbiamo preparare le vie del Signore, ossia dobbiamo disporre il cuore dei nostri fratelli all’incontro personale con Gesù. Dobbiamo portare i nostri fratelli al Cristo risorto, per farli aderire alla sua persona divina con ‘una fede esistenziale profonda.
La nostra vita acquista un valore eccezionale, se è spesa per preparare la strada alla venuta del Cristo nel cuore di un nostro fratello.
In realtà ogni discepolo di Gesù è invitato a fare da battistrada al Signore, ha la missione di essere l’araldo del Cristo, il banditore del suo vangelo, prestando la sua voce a Dio, spendendo le sue energie e la sua vita per favorire l’avvento del regno di amore, di giustizia, di pace, di fraternità e di libertà.


Benedetto Prete (Vangelo secondo Giovanni): v. 28 A Bethania, al di là del Giordano; un’indicazione geografica chiude la pericope evangelica. La località non è stata ancora identificata e non è ricordata da nessuna toponomastica antica; non pochi esegeti tuttavia pensano che l’informazione non trovi un perfetto riscontro geografico, ma che essa abbia un valore simbolico, come è nello stile del quarto evangelista. In questo caso si fa notare che il Precursore battezzava al di là del Giordano, cioè fuori della terra santa, poiché la sua attività costituiva una preparazione all’accettazione del mistero messianico. Alcuni codici invece di Bethania leggono Bethabara ed Origene afferma che ai suoi tempi si indicava un luogo presso la riva del Giordano, chiamato Bethabara, dove Giovanni aveva battezzato. Bethabara (altri leggono Bethara) indica «il luogo del passaggio», cioè il luogo dove gli ebrei passarono il Giordano; la denominazione si presta ad un significato simbolico ed ad una applicazione tipologica. Il Boismard pensa che il quarto evangelista avrebbe fatto rilevare il nesso tipologico che esiste tra il battesimo di Gesù, primizia del battesimo cristiano, e Bethabara, il luogo dove gli ebrei avrebbero attraversato il Giordano per entrare nella terra promessa.


Gesù di Nazareth, «elevato» nello Spirito Santo - Dominum et vivificantem 19: Anche se nella sua patria di Nazareth Gesù non è accolto come Messia, tuttavia, all’inizio dell’attività pubblica la sua missione messianica nello Spirito Santo viene rivelata al popolo da Giovanni Battista. Questi, figlio di Zaccaria e di Elisabetta, annuncia presso il Giordano la venuta del Messia ed amministra il battesimo di penitenza. Egli dice: «Io vi battezzo con acqua, ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Giovanni Battista annuncia il Messia-Cristo non solo come colui che «viene» nello Spirito Santo, ma anche come colui che «porta» lo Spirito Santo, come rivelerà meglio Gesù nel Cenacolo. Giovanni è qui l’eco fedele delle parole di Isaia, le quali nell’antico Profeta riguardavano il futuro, mentre nel suo proprio insegnamento lungo le rive del Giordano costituiscono l’introduzione immediata alla nuova realtà messianica. Giovanni è non solo un profeta, ma anche un messaggero: è il precursore di Cristo. Ciò che egli annuncia si realizza davanti agli occhi di tutti. Gesù di Nazareth viene al Giordano per ricevere anch’egli il battesimo di penitenza. Alla vista di colui che arriva, Giovanni proclama: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo». Ciò dice per ispirazione dello Spirito Santo, rendendo testimonianza al compimento della profezia di Isaia. Al tempo stesso, egli confessa la fede nella missione redentrice di Gesù di Nazareth. Sulle labbra di Giovanni Battista «Agnello di Dio» è un’affermazione della verità intorno al Redentore, non meno significativa di quella usata da Isaia: «Servo del Signore». Così, con la testimonianza di Giovanni al Giordano, Gesù di Nazareth, rifiutato dai propri concittadini, viene elevato agli occhi di Israele come Messia, cioè «Unto» con lo Spirito Santo. E tale testimonianza viene corroborata da un’altra testimonianza di ordine superiore, menzionata dai tre Sinottici. Infatti, quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto il battesimo, stava in preghiera, «il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come una colomba» e, contemporaneamente, «vi fu una voce dal cielo, che disse: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». E una teofania trinitaria, che rende testimonianza all’esaltazione di Cristo in occasione del battesimo al Giordano. Essa non solo conferma la testimonianza di Giovanni Battista, ma svela una dimensione ancora più profonda della verità su Gesù di Nazareth come Messia. Ecco: il Messia è il Figlio prediletto del Padre. La sua solenne esaltazione non si riduce alla missione messianica del «Servo del Signore». Alla luce della teofania del Giordano, questa esaltazione raggiunge il mistero della stessa persona del Messia. Egli è esaltato, perché è il Figlio del divino compiacimento.


Santi Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno - Messaggio e attualità - Enzo Lodi (I Santi del Calendario Romano): a) La colletta della messa dei due dottori cappadoci offre già il contenuto del messaggio della loro spiritualità. Infatti, sostituendo quello precedente derivante dal Comune dei confessori e dei dottori, questo testo (che si ispira al messale francescano: «postcommunio» di san Francesco del 1243-1244) esalta la comune ricerca della verità nell’umiltà («con spirito umile e ardente»).
Così Basilio ci appare come il dottore dello Spirito Santo, il cui Trattato ci viene presentato anche nella lettura patristica del giorno feriale postnatalizio (cap. 26: «Il Signore vivifica il suo corpo nello Spirito»). A questo Trattato si deve la formula liturgica che ha diffuso la dossologia trinitaria dove, invece della clausola «nello Spirito», si afferma l’uguaglianza con le altre due persone divine attraverso la congiunzione paritetica: «e allo Spirito Santo». Ancora il messaggio più noto ci viene dall’anafora di Basilio, già diffusa in Oriente fin dall’antichità e oggi riservata a giorni particolari: è la storia della salvezza che viene evocata e attualizzata in un disegno organico e straordinariamente efficace.
Anche Gregorio Nazianzeno, per i suoi cinque Discorsi teologici (sulla Trinità, sulla natura divina, sulla divinità del Verbo e sullo Spirito Santo), è stato un grande ricercatore della verità, tanto da essere chiamato «il Teologo»; ma tale grandezza dottrinale (sono perciò i dottori cappadoci per eccellenza) è associata all’umiltà. Di Gregorio scriverà Rufino che «non si è mai visto una vita più semplice e più irreprensibile, un’eloquenza più viva e più brillante, una fede più pura e più ortodossa, una scienza più perfetta e consumata; fu il solo la cui fede non poté essere contestata dai partiti neppure opposti, tanto che basta non essere d’accordo sulla fede con Gregorio, per essere convinti di peccare contro la fede cattolica».
L’attualità di questo messaggio si può trovare ancora nella colletta che ricorda, sulla traccia della frase paolina (Ef 4, 15: «Operiamo fedelmente la verità nella carità»; cfr. Basilio, Moralia, Reg. LXXX, 22), anche la carità indissociabile dalla verità e dall’umiltà. Così Basilio è un esempio attuale per conciliare la vita contemplativa con la sollecitudine per i poveri (fondatore di un ospedale); e ambedue i santi cappadoci ci richiamano il grande aiuto dell’amicizia fraterna, attraverso la lezione patristica nell’Ufficio di lettura, come valore umano e spirituale da coltivare. La parte finale del brano potrebbe essere un programma anche per i nostri rapporti di amicizia: «E mentre per altri alcune cose sono conosciute sia come ricevute dai genitori, o da se stessi, procurate cioè dai propri sforzi di vita o da istituzioni; per noi invece era di grande importanza e prestigio essere ed essere ritenuti cristiani».


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  A somiglianza del Battista, anche noi dobbiamo finalizzare la nostra vita e la nostra azione apostolica verso la persona di Gesù.
Questa parola cosa ti suggeriscono?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che hai illuminato la tua Chiesa con l’insegnamento e l’esempio dei santi Basilio e Gregorio Nazianzeno, donaci uno spirito umile e ardente, per conoscere la tua verità e attuarla con un coraggioso programma di vita. Per il nostro Signore Gesù Cristo...