IL PENSIERO DEL GIORNO

6 Novembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli, e conoscerete la verità» (Gv 8,31b-32; Cf. Canto al Vangelo).  


Vangelo secondo Luca 14,12-14: «Il Vangelo di Luca (Lc 14,1.7-14), ricorda l’insegnamento di Gesù in casa di uno dei farisei che lo aveva invitato a pranzo, dinanzi alla gente che stava ad osservarlo (Lc 14,1.7-14): vedendo che gli invitati sceglievano i primi posti, Gesù insegna il galateo dell’umiltà, non solo a tavola, ma in tutta la vita cristiana, ammonendo: “Chiunque si esalta, sarà umiliato, e chi si umilierà sarà esaltato”. Poi aggiunge la lezione del disinteresse, raccomandando al suo ospite di non invitare a pranzo i parenti e gli amici ricchi per averne il contraccambio. Infine gli segnala che la vera ricompensa del bene, che si fa agli indigenti, si trova in Dio, al quale si diventa più simili con la carità, fino alla piena gioia nella “risurrezione dei giusti”» (Giovanni Paolo II, Omelia 30 Agosto 1980).


Benedetto Prete (Vangelo secondo Luca - Nota a Lc 14,12-13): Disse a chi l’aveva invitato; formula di passaggio ad un nuovo insegnamento, introdotto da Luca per motivi redazionali; la circostanza di un invito a pranzo accolto dal Salvatore (cf. versetti 1-6) offre allo scrittore la situazione ideale per inserirvi questi preziosi ammaestramenti.
Si noti come l’autore abbia rielaborato questi opportuni consigli presentandoli con una struttura letteraria ben studiata: nel versetto 7 l’evangelista parlava degli invitati, qui invece egli considera colui che ha rivolto l’invito. Non invitare i tuoi amici;  gli amici sono ricordati per primi, sia perché a volte sono preferiti ai propri congiunti, sia anche perché l’amicizia, molto sentita ed apprezzata nell’antichità, rappresenta un intimo e nobile legame tra gli uomini che si fonda su una comunione di pensiero e di sentimento. I tuoi fratelli ... i tuoi parenti; i fratelli sono i parenti più vicini; i tuoi parenti indicano le persone legate da vincoli di parentela meno stretta.
Invita i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi; sono elencati quattro tipi di infelici, come nel versetto precedente erano state nominate quattro specie di invitati. «I poveri» figurano per primi poiché per Luca la povertà è una caratteristica ed una condizione fondamentale per l’appartenenza al regno dei cieli.


... e sarai beato perché non hanno da ricambiarti - Giovanni Bernini: La Bibbia testimonia ampiamente la presenza di una caratteristica forma letteraria che possiamo chiamare latinamente «beatitudine» o, dall’aggettivo greco corrispondente, «macarismo». Celebra una persona per la felicità ad essa accordata e in particolare evidenzia il motivo di questa felicità. L’ebraico ‘ashrè significa felicità, successo, fortuna. Il greco si è servito generalmente di una frase nominale: «Beato l’uomo», dove l’ebraico aveva un sostantivo in stato costrutto: «La beatitudine dell’uomo». Segue un participio o una proposizione relativa che indicano il beneficiario e la ragione della felicità.
Dal punto di vista contenutistico la beatitudine consiste, secondo il pensiero biblico, nel raggiungimento di ciò che appaga e fa felice il cuore umano. Tale è, per esempio, la condizione di una donna che è stata appagata della sua naturale aspirazione alla maternità (cf. Gn 30,12-13). Il concetto di beatitudine è diverso da quello di benedizione: questa consiste nell’augurio e nell’aspirazione a ricevere qualche bene che procura la felicità; la proclamazione della beatitudine invece suppone la presenza della felicità in chi ne realizza le condizioni. Alla beatitudine e alla benedizione si oppone la maledizione: quando prevale l’ira o l’odio, dal cuore dell’uomo scaturisce la maledizione, l’imprecazione, l’invettiva; se prevalgono invece la benevolenza e l’amore, l’uomo prorompe nell’augurio, nella benedizione, nella beatitudine.


Il segreto di una famiglia felice: Amoris laetitia 183: Una coppia di sposi che sperimenta la forza dell’amore, sa che tale amore è chiamato a sanare le ferite degli abbandonati, a instaurare la cultura dell’incontro, a lottare per la giustizia. Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello: «Uno sguardo attento alla vita quotidiana degli uomini e delle donne di oggi mostra immediatamente il bisogno che c’è ovunque di una robusta iniezione di spirito famigliare. […] Non solo l’organizzazione della vita comune si incaglia sempre più in una burocrazia del tutto estranea ai legami umani fondamentali, ma, addirittura, il costume sociale e politico mostra spesso segni di degrado». Invece le famiglie aperte e solidali fanno spazio ai poveri, sono capaci di tessere un’amicizia con quelli che stanno peggio di loro. Se realmente hanno a cuore il Vangelo, non possono dimenticare quello che dice Gesù: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). In definitiva, vivono quello che ci viene chiesto in modo tanto eloquente in questo testo: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato» (Lc 14,12-14). Sarai beato! Ecco qui il segreto di una famiglia felice.  


Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo» - Evangelii gaudium 47-48: La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire una mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli. Queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia. Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa.
Se la Chiesa intera assume questo dinamismo missionario deve arrivare a tutti, senza eccezioni. Però chi dovrebbe privilegiare? Quando uno legge il Vangelo incontra un orientamento molto chiaro: non tanto gli amici e vicini ricchi bensì soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti» (Lc 14,14). Non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro. Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo», e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli.


Tutti abbiano misericordia verso i poveri: Apostolicam actuositatem 8: La santa Chiesa, come fin dalle sue prime origini, unendo insieme l’«agape» con la cena eucaristica, si manifestava tutta unita nel vincolo della carità attorno a Cristo, così, in ogni tempo, si riconosce da questo contrassegno della carità, e mentre gode delle iniziative altrui, rivendica le opere di carità come suo dovere e diritto inalienabile. Perciò la misericordia verso i poveri e gli infermi con le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto, destinate ad alleviare ogni umano bisogno, sono da essa tenute in particolare onore 


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo».
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, creatore e padre di tutti, donaci la luce del tuo Spirito, perché nessuno di noi ardisca usurpare la tua gloria, ma riconoscendo in ogni uomo la dignità dei tuoi figli, non solo a parole, ma con le opere, ci dimostriamo discepoli dell’unico Maestro che si è fatto uomo per amore, Gesù Cristo nostro Signore. Egli è Dio e vive e regna ...


IL PENSIERO DEL GIORNO

5 Novembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Uno solo è il Padre vostro, quello celeste e una sola è la vostra Guida, il Cristo» (Mt 23,9b.10b; Cf. Canto al Vangelo).  


Vangelo secondo Matteo: La Chiesa riconosce una sola Guida: Gesù che si è fatto servo di tutti. È un forte richiamo sopra tutto per chi è tentato di strumentalizzare la Chiesa, mettendola al servizio delle proprie idee.


Benedetto Prete (Vangelo secondo Matteo): L’intero capitolo è un severo ammonimento per gli Scribi ed i Farisei ed, in pari tempo, un richiamo a non lasciarsi ingannare dal loro insegnamento. Sulla cattedra di Mosè; gli Scribi (maestri della Legge) ed i Farisei, quando espongono fedelmente la Legge e parlano in nome di Mosè, occupano il posto del grande Legislatore e, perciò, devono essere obbediti. L’accettazione di quanto essi insegnano non obbliga ad imitare la loro condotta (non fate secondo le loro opere), poiché essi sono mendaci ed ipocriti. Gesù ha manifestato più volte il suo pensiero intorno alle interpretazioni false e cavillose date da essi alla Legge mosaica (cf. Mt 15,1-20; 6,6; 19,3-9).


I farisei - La critica di Gesù - * P. J., (Farisei, in Schede Bibliche, Volume III, Ed. Dehoniane - Bologna):  Considerata la potenza della corrente farisaica, solo uno spirito eccezionale avrebbe osato mettersi contro. Gesù ha manifestato subito questo coraggio e, cosciente della sua missione divina, affrontò anche questo gruppo con il suo nuovo messaggio. Dapprima rivolse ai farisei il suo invito alla penitenza. I sinottici parlano frequentemente di questi contatti di Gesù con i farisei. Con bontà e pazienza accettava i loro inviti a cena. Per loro raccontò parecchie parabole. In un certo senso si può dire che i farisei, sostenendo l’importanza dominante della religione in tutta la vita dell’uomo, potevano sembrare il gruppo religioso più vicino alle sue idee. Invece ne divennero i più accaniti avversari, perché egli cercò di riformarne lo spirito. Infatti il formalismo religioso falsificava i rapporti dell’uomo con Dio. Presso certe categorie di giudei si sentiva il bisogno di spezzare il giogo di certi complessi di inferiorità creati dai farisei. Ma il nuovo messaggio non era gradito ai farisei, che respinsero Gesù e lo accusarono di violare la legge, di rinnegarla tradizione, d’essere indemoniato e nemi­co del popolo e, con il loro influsso presso il sinedrio e il popolo, condurranno l’opposizione fino alla condanna capitale (Cf. Mt 12,24.38; 16,1; 22,15.34-35; Mc 3,6).
In verità Gesù non si è mai messo contro la legge, mentre i farisei si perdevano nel numerare, soppesare e misurare i precetti, egli poneva al centro della morale la purezza dei sentimenti e la trasparenza dell’animo, non permettendo nessun vuoto tra la conoscenza e l’azione, nessuna dissonanza tra  l’interno e l’esterno dell’uomo, sottomettendo ogni osservanza al valore supremo della carità.
In un’epoca tanto diversa da quella anteriore all’esilio, si poteva considerare il fariseismo come uno sforzo di aggiornamento della legge a una situazione nuova. Invece non gli si può perdonare d’aver dimenticato tutto l’approfondimento compiuto sulla legge dal profetismo per quattro secoli. I farisei preferirono agganciarsi alla tradizione della «halakà», un’interpretazione legale, giuridica della Torah, assurta a valore normativo uguale alla legge.
Mentre una volta la legge era gioia e corona dell’esistenza, e si diceva: «Tutto può crollare, si può perdere anche la patria, ma la legge nessuno può rapire, perché dove c’è la legge, là c’è vita eterna» (Pirkê Aboth 11,7), ora il fariseismo la riduceva a una maglia ferrea senza rotture, e ogni filo aveva la stessa importanza normativa per le azioni. Non ci fu uno sforzo per stabilire un rapporto interiore con essa. Era logico, dato che la legge era considerata manifestazione insondabile della volontà di Dio.
Ora, i comandi di Dio cadevano semplicemente sotto la considerazione di un esercizio di volontà.
Importante era la sottomissione, non lo spirito con cui questa era eseguita. I punti principali su cui i farisei esercitarono maggiormente la loro attività giuridica furono tre: il sabato, la purità legale, il pagamento delle decime. Essi li interpretavano in modo rigorista, elencando con minuziosità una casistica onerosa. Ma proprio qui si esercitò la critica di Gesù. Per cui la legge del sabato viene dopo l’esigenza del bene dell’uomo (Mc 2,23-28; 3,1-6 e par.). Quanto alle prescrizioni sul puro e l’impuro, la tradizione evangelica ci ha conservato un suo detto che incentra tutta l’attenzione sul «cuore», vera sede profonda da cui scaturisce l’azione, che porta a una prassi creatrice di morte: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7,15). Parimenti Gesù contesta il massimalismo farisaico circa il dovere di pagare le decime: «Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre» (Lc 11,42; cf. Mt 23,23). Soprattutto, egli ha contestato l’ipocrisia farisaica. In proposito basta leggere, nel discorso antifarisaico di Mt 23, i sette «guai» agli scribi e farisei ipocriti (Cf. anche Mt 6,2.5.16).
Certo, Gesù ha anche riconosciuto il loro magistero, ma nello stesso tempo ne ha messo sotto processo la prassi incoerente: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (Mt 23,2-3).


Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei - La tensione creatasi tra Gesù e le guide spirituali del popolo d’Israele, testimoniata nel vangelo di Matteo a partire dal capitolo 21, sfocia qui in invettive così violente da suscitare stupore. Possiamo ben dire che il capitolo 23 di Matteo è una seria e incisiva catechesi contro l’ipocrisia. I peccati sono abbastanza rintracciabili.
Sulla cattedra di Mosè..., sta ad indicare la funzione di insegnare: nelle sinagoghe v’erano dei seggi d’onore, di pietra, riservati ai dottori della Legge che venivano chiamati cattedra di Mosè, perché da essi gli scribi interpretavano per il popolo i testi biblici. In questo modo il loro insegnamento si inseriva nell’alveo magistrale di Mosé. Ma se erano bravi come maestri, poco meno lo erano nell’osservare la Legge di cui si dicevano sapienti conoscitori. E così finivano coll’essere indulgenti con se stessi, e implacabili giudici con la povera gente tanta da angariarla imponendo fardelli pesanti e difficili da portare, e che loro non volevano muoverli nemmeno con un dito.
Tutte le opere le fanno per essere ammirati... è la lebbra della ipocrisia.
L’ipocrisia, appena accennata qua e là nell’Antico Testamento (Is 29,13; Sir 1,28; 32,15; 36,20), è il ricercare l’approvazione degli altri per mezzo di gesti ostentati di beneficenza, di preghiera e di digiuno (Cf. Mt 6,2), giudica negativamente gli altri uomini (Cf. Mt 7,5) e fa pregare solo con le labbra, ma non col cuore (Cf. Mt 15,7). Gli ipocriti sono pure qualificati da Gesù come sepolcri imbiancati all’esterno “belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”, vipere, stolti ... (Cf. Mt 23,25-26). Ma gli ipocriti sono sopra tutto dei poveri ciechi.
“L’ipocrisia si avvicina così all’indurimento, poiché l’ipocrita, illudendosi di essere veramente giusto, diventa sordo ad ogni appello alla conversione. Nella sua cecità, egli non può togliere la trave che gli impedisce di vedere, dal momento che pensa solo a togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello (Mt 7,4-5). Questa cecità è particolarmente grave quando colpisce coloro che devono essere le guide spirituali del popolo di Dio. Così i  farisei, divenuti delle «guide cieche» [Mt 23,16.17.19.24], ingannano se stessi e guidano anche gli altri alla rovina [Mt 23,13]. Essi, che hanno sostituito alla legge divina le tradizioni umane [Mt 15,6-7], sono ciechi e pretendono di guidare altri ciechi [Mt 15,14], e la loro dottrina non è che un cattivo lievito [Lc 12,1]. Accecati dalla loro stessa malizia, si oppongono alla bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene [Lc 13,15-16]; con le loro accuse a Gesù non fanno che manifestare la loro intima malvagità, poiché la «bocca dice ciò che trabocca dal cuore» [Mt 12,24-34]” (R. Tufariello).
I farisei, tanta era la bramosia di essere reputati ottimi religiosi e osservanti della Legge, arrivavano alla puerilità di allargare i loro filatteri e allungare le frange che ogni Israelita, osservando quanto indicato in Num 15,37-41, portava ai quattro capi della veste e che in aramaico erano chiamate frange di preghiera . I filatteri sono astucci di cuoio, contenenti la riproduzione di alcuni testi biblici, e che venivano allacciate al braccio sinistro e alla fronte con  strisce. Gesù non condanna tali usanze, ma solo lo spirito di ostentazione con cui venivano praticate.
Il brano evangelico si chiude con l’indicare un antidoto a tale veleno: l’umiltà, il servizio disinteressato, la carità e l’amore fraterno. E sopra tutto ognuno impari a stare al suo posto. La Chiesa ha un solo Maestro Cristo Gesù: “Cristo è il modello dei pastori della Chiesa, nell’infaticabile amore con cui ha compiuto la missione, affidatagli dal Padre, di andare in cerca delle “pecore perdute della casa d’Israele” [Mt 15,24]. Per questo nessun altro all’infuori del Cristo può essere chiamato “maestro” dalla comunità dei credenti (A. Lancellotti).
Soltanto Gesù è la Guida: soltanto Lui rivela il Padre e solo Lui può donare la luce necessaria perché il credente entri nel cuore del Padre e ne comprenda la volontà; Lui è la Via (Gv 8,16), l’unica Via che conduce al Padre.


Uno solo è il vostro Maestro, il Cristo: Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 1790-1792: L’essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza. Se agisse deliberatamente contro tale giudizio, si condannerebbe sa sé. Ma accade che la coscienza morale sia nell’ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute. Questa ignoranza è spesso imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene «quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine al peccato». In tali casi la persona è colpevole del male che commette. All’origine delle deviazioni del giudizio della condotta morale possono esservi la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi dati dagli altri, la schiavitù delle passioni, la pretesa di una malintesa autonomia della coscienza, il rifiuto dell’autorità della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** All’origine delle deviazioni del giudizio della condotta morale possono esservi la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, creatore e padre di tutti, donaci la luce del tuo Spirito, perché nessuno di noi ardisca usurpare la tua gloria, ma riconoscendo in ogni uomo la dignità dei tuoi figli, non solo a parole, ma con le opere, ci dimostriamo discepoli dell’unico Maestro che si è fatto uomo per amore, Gesù Cristo nostro Signore. Egli è Dio e vive e regna ...


IL PENSIERO DEL GIORNO

4 Novembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Prendete il mio giogo sopra di voi, e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29ab; Cf. Canto al Vangelo).  


Vangelo secondo Luca 14,1.7-11: Gesù vuole che i suoi discepoli siano umili, piccoli, «poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il bene va fatto senza alcuna mira di contraccambio umano e l’amore verso i poveri e gli ultimi deve essere schietto, sincero ad imitazione di Dio che è «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 67,6). Solo agli umili Dio rivela i segreti del Regno (Cf. Mt 11,25 ) e ad essi mostra il suo volto.


Non metterti al primo posto - Gesù accettando di entrare «in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare» fa bene intendere che la sua opposizione verso di essi non è per partito preso o per pregiudizi, ma che si fonda su ragioni molto più profonde delle solite diatribe scolastiche (Cf. Mt 23,13-36; Lc 11,37-52). Un ospite come Gesù certamente doveva attirare l’attenzione degli invitati e suscitare la frenesia di stargli vicino. C’è da ricordare anche che quel giorno era un sabato e Gesù, appena entrato in casa del fariseo, aveva guarito un idropico (Lc 14,2-5). Una guarigione che era stata accettata unanimemente anche se malvolentieri (Lc 14,2-6). Tutto questo costituiva una miscela esplosiva.
Gesù è sotto lo sguardo di tutti, ma Egli non è da meno: osservando e notando come i notabili cercano di accaparrarsi i primi posti, propone ai commensali una lezione sulla virtù dell’umiltà: parole severe, ma scontate in quanto non fanno che svelare l’ipocrisia e la vanità degli scribi e dei farisei notoriamente affamati di lodi, di onori e inoltre amanti dei primi posti (Cf. Mt 23,1-12).
Gesù «vuol mettere in luce che tutti i presenti, invitante ed invitati sono una massa di cafoni, pieni di pregiudizi egoistici, di banali arrivismi e di preoccupazioni gerarchiche. Gesù con le sue nette affermazioni vuole smantellare i pregiudizi mettendo a nudo i loro sentimenti. A parte la questione delle precedenze imposte dal galateo e dalle tradizioni giudaiche, in fondo si tratta anche di non cadere nel ridicolo. C’è sempre tanta ambizione e tanto arrivismo nella società di tutti i tempi: contro di essi Gesù oppone un caloroso invito all’umiltà» (C. Ghidelli).
Seguendo l’insegnamento della sacra Scrittura, l’umiltà, che Gesù addita ai commensali, oltre ad essere una virtù morale è un modo di essere: una «posizione della creatura di fronte al creatore, del peccatore di fronte al redentore» (I. M. Danieli).
Ovvero, al dire di san Bernardo, è la virtù «per la quale l’uomo si disprezza perché possiede una perfetta conoscenza di se stesso».
E nella logica evangelica solo «chi si umilia sarà esaltato» da Dio (Cf. Lc 18,9-14).
È l’insegnamento che Gesù non si stanca di proporre ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,1-4).
Farsi umili, diventare come bambini, significa disporsi ad accettare d’essere dipendenti senza sentirsi feriti nel proprio orgoglio. Nella vita cristiana questo è molto importante perché spalanca il credente al mistero della comunione con i fratelli e con Dio. Essere umili-bambini non significa farsi più piccoli di quel che si è, ma fare la verità in se stessi; significa sapere stimare colui con il quale si condivide un cammino di vita e comprendere quanto veramente si è piccoli di fronte a Dio.
Gesù ha percorso questo cammino, umiliando se stesso e facendosi ubbidiente alla volontà del Padre fino alla morte di croce (Cf. Fil 2,5ss).
Così ammaestrato, e dinanzi a tale modello divino, il discepolo serve il suo Signore con le opere e con il dono della sua vita senza ritenerlo un merito, ma un dovere: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
Gesù ha anche una parola sulla scelta degli invitati. Nei commensali v’è una logica contorta che mortifica ogni relazione umana: è la logica del do ut des. Amare perché c’è un profitto, donare perché c’è un guadagno... un modo di agire che fa a pugni con il Vangelo. Fare il bene disinteressatamente significa diventare sempre simili a Dio il quale è benevolo verso tutti, giusti e ingiusti (Cf. Mt 5,43-48). Tutto questo sarà ancora più chiaro nella sala del grande banchetto del Regno dove i meno abbienti, i poveri, i diseredati occuperanno i primi posti. I farisei per la loro stupida vanità «hanno reso vano per loro il disegno di Dio» (Lc 7,30), ecco perché i pubblicani e le prostitute passano avanti a loro nel regno di Dio (Cf. Mt 21,28-32).


L’umiltà del Figlio Dio - M. F. Lacan: Gesù è il messia umile annunziato da Zaccaria (Mt 21,5). È il messia degli umili che egli proclama beati (Mt 5,4 = Sal 37,11; gr. prays = l’umile che la sottomissione a Dio rende paziente e mite). Gesù benedice i bambini e li presenta come modelli (Mc 10,15s), Per diventare come uno di questi piccoli cui Dio si rivela e che, soli, entreranno nel regno (Mt 11,25; 18,3 s), bisogna mettersi alla scuola di Cristo, «maestro mite ed umile di cuore» (Mt 11,29).
Ora questo maestro non è soltanto un uomo; è il Signore venuto a salvare i peccatori prendendo una carne simile alla loro (Rom 8,3).
Lungi dal cercare la propria gloria (Gv 8,50), egli si umilia fino a lavare i piedi dei suoi discepoli (Gv 13,14ss); egli, che è eguale a Dio, si annienta fino a morire in croce per la nostra redenzione (Fil 2,6ss; Mc 10,45; cfr. Is 53). In Gesù si rivela non soltanto la potenza divina senza la quale noi non esisteremmo, ma la carità divina senza la quale noi saremmo perduti (Lc 19,10).
Questa umiltà («segno di Cristo», dice S. Agostino), è quella del Figlio di Dio, quella della carità. Bisogna seguire la via di questa «nuova» umiltà, per praticare il comandamento nuovo della carità (Ef 4,2; 1Piet 3,8s; «dov’è l’umiltà, ivi è la carità», dice S. Agostino). Coloro che «si rivestono di umiltà nei loro rapporti reciproci» (1Piet 5,5; Col 3,12) cercano gli interessi degli altri e prendono l’ultimo posto (Fil 2,3s: 1Cor 13,4s). Nella serie dei frutti dello Spirito, Paolo pone l’umiltà accanto alla fede (Gal 5,22s); queste due virtù (tratti essenziali di Mosè, secondo Eccli 45,4) sono di fatto connessi, essendo entrambi due atteggiamenti di apertura a Dio, di sottomissione fiduciosa alla sua grazia ed alla sua parola.


Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato - Benedetto XVI (Omelia 2 Settembre 2007): Cari giovani, mi sembra di scorgere in questa parola di Dio sull’umiltà un messaggio importante e quanto mai attuale per voi, che volete seguire Cristo e far parte della sua Chiesa. Il messaggio è questo: non seguite la via dell’orgoglio, bensì quella dell’umiltà. Andate controcorrente: non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi da molte parti propagandano modelli di vita improntati all’arroganza e alla violenza, alla prepotenza e al successo ad ogni costo, all’apparire e all’avere, a scapito dell’essere. Di quanti messaggi, che vi giungono soprattutto attraverso i mass media, voi siete destinatari! Siate vigilanti! Siate critici! Non andate dietro all’onda prodotta da questa potente azione di persuasione. Non abbiate paura, cari amici, di preferire le vie “alternative” indicate dall’amore vero: uno stile di vita sobrio e solidale; relazioni affettive sincere e pure; un impegno onesto nello studio e nel lavoro; l’interesse profondo per il bene comune. Non abbiate paura di apparire diversi e di venire criticati per ciò che può sembrare perdente o fuori moda: i vostri coetanei, ma anche gli adulti, e specialmente coloro che sembrano più lontani dalla mentalità e dai valori del Vangelo, hanno un profondo bisogno di vedere qualcuno che osi vivere secondo la pienezza di umanità manifestata da Gesù Cristo.
Quella dell’umiltà, cari amici, non è dunque la via della rinuncia ma del coraggio. Non è l’esito di una sconfitta ma il risultato di una vittoria dell’amore sull’egoismo e della grazia sul peccato. Seguendo Cristo e imitando Maria, dobbiamo avere il coraggio dell’umiltà; dobbiamo affidarci umilmente al Signore perché solo così potremo diventare strumenti docili nelle sue mani, e gli permetteremo di fare in noi grandi cose. Grandi prodigi il Signore ha operato in Maria e nei Santi! Penso ad esempio a Francesco d’Assisi e Caterina da Siena, Patroni d’Italia. Penso anche a giovani splendidi come santa Gemma Galgani, san Gabriele dell’Addolorata, san Luigi Gonzaga, san Domenico Savio, santa Maria Goretti, nata non lontano da qui, i beati Piergiorgio Frassati e Alberto Marvelli. E penso ancora ai molti ragazzi e ragazze che appartengono alla schiera dei santi “anonimi”, ma che non sono anonimi per Dio. Per Lui ogni singola persona è unica, con il suo nome e il suo volto. Tutti, e voi lo sapete, siamo chiamati ad essere santi!                                                                                                                                                                                                                                                                                                    
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Dov’è l’umiltà, ivi è la carità.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Custodisci nel tuo popolo, o Padre, lo spirito che animò il vescovo san Carlo, perché la tua Chiesa si rinnovi incessantemente, e sempre più conforme al modello evangelico manifesti al mondo il vero volto del Cristo Signore. Egli è Dio, e vive e regna con te...


IL PENSIERO DEL GIORNO

3 Novembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore, e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27; Cf. Canto al Vangelo).  


Vangelo secondo Luca 14,1-6: Gesù accettando di entrare «in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare» fa bene intendere che la sua opposizione verso di essi non è per partito preso o per pregiudizi, ma che si fonda su ragioni molto più profonde delle solite diatribe scolastiche (cfr. Mt 23,13-36; Lc 11,37-52). C’è da ricordare che quel giorno era un sabato e Gesù, appena entrato in casa del fariseo, guarisce un idropico. Una guarigione che è accettata unanimemente anche se malvolentieri. Tutto questo costituiva una miscela esplosiva, i farisei non demordono e sono così eternamente alla ricerca di qualcosa per potere incastrare il giovane Rabbi di Nazaret.


Basilio Caballero (La Parola per ogni giorno): L’inaspettata presenza dell’uomo malato di idropisia - accumulo di acqua nei tessuti - ricorda la scena della guarigione del paralitico nella sinagoga (Lc 6,6ss) e della donna incurvata (13,10ss). In ognuno di questi casi - forse varianti di uno solo - si può indovinare un secondo piano di lettura.
I malati incarnano la situazione del popolo, oppresso dai giuristi con le prescrizioni della legge mosaica, e non solo quella riguardante il sabato, così come essi le spiegavano alla gente. Gesù viene a liberarli da questo giogo insopportabile. Libertà di spirito che allieta i semplici ed è rifiutata dalle guide religiose; per questo decidono di eliminare un soggetto così «sovversiva» come Gesù.
Dato che Gesù è consapevole che scribi e farisei lo spiano per poterlo accusare, prima di curare l’idropico fa loro questa domanda diretta e impegnativa: «È lecito a no curare di sabato?». Egli conosceva molto bene i trentanove lavori proibiti di sabato secondo le tradizioni rabbiniche riepilogate nella Mishnah: curare era tra questi, dato che era considerato come esercizio della medicina. Ma conosceva anche i sotterfugi e le eccezioni a cui ricorrevano i legulei per salvaguardare la proprietà privata; così permettevano di soccorrere un animale infortunato di sabato.
Allora Gesù, che valutava più l’uomo che non i beni, disse loro: «Chi di voi, se un asino (suo figlio, secondo i migliori manoscritti) o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?». A maggior ragione sarà permesso curare un malato restituendogli la salute, che è, insieme alla vita, il maggior bene umano. «Perciò è permesso fare del bene anche di sabato» (Mt 12,12); perché fare del bene al prossimo non può violare nessuna legge Dio.


Gesù e la Legge: Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 581-582: Gesù è apparso agli occhi degli Ebrei e dei loro capi spirituali come un «rabbi». Spesso egli ha usato argomentazioni che rientravano nel quadro dell’interpretazione rabbinica della Legge. Ma al tempo stesso, Gesù non poteva che urtare i dottori della Legge; infatti, non si limitava a proporre la sua interpretazione accanto alle loro; «egli insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29). In lui, è la Parola stessa di Dio, risuonata sul Sinai per dare a Mosè la Legge scritta, a farsi di nuovo sentire sul monte delle beatitudini. Questa Parola non abolisce la Legge, ma la porta a compimento dandone in maniera divina l’interpretazione definitiva: «Avete inteso che fu detto agli antichi [...]; ma io vi dico» (Mt 5,33-34). Con questa stessa autorità divina, Gesù sconfessa certe «tradizioni degli uomini» care ai farisei i quali annullano la parola di Dio. Spingendosi oltre, Gesù dà compimento alla Legge sulla purità degli alimenti, tanto importante nella vita quotidiana giudaica, svelandone il senso «pedagogico» con una interpretazione divina: «Tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo [...]. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti [...]. Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore dell’uomo,escono le intenzioni cattive» (Mc 7,18-21). Dando con autorità divina l’interpretazione definitiva della Legge, Gesù si è trovato a scontrarsi con certi dottori della Legge, i quali non accettavano la sua interpretazione, sebbene fosse garantita dai segni divini che la accompagnavano. Ciò vale soprattutto per la questione del sabato: Gesù ricorda, ricorrendo spesso ad argomentazioni rabbiniche, che il riposo del sabato non viene violato dal servizio di Dio o del prossimo, servizio che le guarigioni da lui operate compiono.


Gesù perfeziona la Legge: Catechismo degli Adulti n. 156: Gesù riprende e concentra tutta la Legge nei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, tra loro intimamente congiunti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,37-40). Le norme particolari sono più o meno importanti secondo che più o meno si avvicinano al cuore della Legge. «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (Mt 23,23-24).
Su alcune cose Gesù è estremamente severo, su altre è sorprendentemente libero, condiscendente. Ma non c’è in lui nessuna incoerenza: la volontà di Dio è il bene vero e concreto, non un sistema intangibile di regole astratte; le norme cessano di avere valore, quando non favoriscono più la crescita autentica dell’uomo. Colui che inasprisce la condanna dell’adulterio è lo stesso che rifiuta la pena di morte, prevista dalla legge, per la donna adultera; colui che, come un pio giudeo osservante, frequenta la sinagoga ogni sabato è lo stesso che non esita a trasgredire il riposo del sabato, senza tener conto delle sottili distinzioni casistiche, quando si tratta di curare e guarire i malati: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?» (Mc 3,4). Il criterio che segue è questo: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27).


Gesù e la Nuova Legge. L’atteggiamento personale di Gesù - Pierre Grelot (Legge, Dizionario di Teologia Biblica): Nei confronti della legge antica, l’atteggiamento di Gesù è netto ma con sfumature diverse. Se egli si oppone con forza alla tradizione degli antichi, di cui gli scribi ed i farisei sono i paladini, non fa però altrettanto per la legge. Al contrario: rifiuta questa tradizione perché porta gli uomini a violare la legge e ad annullare la parola di Dio (Mc 12,28-34 par.). Ora, nel regno di Dio, la legge non dev’essere abolita, ma portata a compimento sino all’ultimo iota (Mt 5,17 ss), e Gesù stesso l’osserva (cfr. 8,4). Nella misura in cui gli scribi sono fedeli a Mosè, la loro autorità deve quindi essere riconosciuta, anche se non bisogna imitare la loro condotta (23,2s). E tuttavia, annunziando il vangelo del regno, Gesù inaugura un regime religioso radicalmente nuovo: la legge ed i profeti hanno avuto fine con Giovanni Battista (Lc 16,16 par.); il vino del vangelo non può essere versato negli otri vecchi del regime sinaitico (Mc 2,21s par.). In che consiste quindi il compimento della legge che Gesù apporta sulla terra? Anzitutto nel rimettere in ordine i diversi precetti. Tale ordine differisce molto dalla gerarchia dei valori che gli scribi hanno stabilita, trascurando il principale (giustizia, misericordia, buona fede) per salvare l’accessorio (Mt 23,16-26). Inoltre le imperfezioni che la legge antica comportava ancora a motivo della durezza dei cuori (19,8) devono sparire nel regno: la regola di condotta che vi si osserverà è una legge di perfezione, ad imitazione della perfezione di Dio (5,21-48). Ideale impraticabile se lo si commisura alla condizione attuale dell’uomo (cfr. 19,10). Gesù quindi, assieme a questa legge, apporta un esempio trascinatore ed una forza interna che permetterà di osservarla: la forza dello Spirito (Atti 1,8; Gv 16,13). Infine, la legge del regno si riassume nel duplice Comandamento, già formulato anticamente, che prescrive all’uomo di amare Dio e di amare il prossimo come se stesso (Mc 12,28-34 par.); tutto viene ordinato attorno a questo, tutto ne deriva. Nei rapporti degli uomini tra loro, questa regola aurea di carità positiva contiene la legge e i profeti (Mt 7,12).
Attraverso queste prese di posizione, Gesù appare già sotto i tratti di un legislatore. Senza contraddire affatto-Mosè, lo spiega, lo continua, ne perfeziona gli insegnamenti; come quando proclama la superiorità dell’uomo sul sabato (Mc 2,23-27 par.; Gv 5,18; 7,21ss). Capita tuttavia che, andando oltre la lettera dei testi, egli vi oppone norme nuove; ad esempio, sconvolge le regole del codice di purità (Mc 7,15-23 par.). Simili atteggiamenti stupiscono i suoi uditori, perché contraddicono quelli degli scribi e rivelano la consapevolezza di un’autorità singolare (1,22 par.). Ora Mosè si eclissa; nel regno non c’è più che un solo dottore (Mt 23,10). Gli uomini devono ascoltare la sua parola e metterla in pratica (7,24ss), perché in tal modo faranno la volontà del Padre (7,21ss). E come i Giudei fedeli, secondo l’espressione rabbinica, si addossavano il giogo della legge, così ora bisogna prendere il giogo di Cristo e mettersi alla sua scuola (11,29). Più ancora, come la sorte eterna degli uomini era sino allora determinata dal loro atteggiamento nei confronti della legge, così ormai lo sarà dal loro atteggiamento nei confronti di Gesù (10,32s). Indubbiamente c’è qui più che Mosè; la nuova legge annunziata dai profeti è ora promulgata.  
                                                                                                                                                                    
Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Fare del bene al prossimo non può violare nessuna legge Dio.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa:  Dio onnipotente ed eterno,accresci in noi la fede, la speranza e la carità,e perché possiamo ottenere ciò che prometti,fa’ che amiamo ciò che comandi. Per il nostro Signore Gesù Cristo...



IL PENSIERO DEL GIORNO


2 Novembre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40; Cf. Canto al Vangelo).  
  

Vangelo secondo Giovanni 6,37-40: Ai Giudei che chiedevano un segno, Gesù aveva risposto: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! (Gv 6,35). Gesù si offre alla morte per la salvezza del mondo ed offre la sua carne e il suo sangue come vero cibo e vera bevanda perché chi ne mangia entri in comunione, realmente ed efficacemente, con la sua persona. Nella Chiesa delle origini, questa comunione reale con Gesù, era collegata all’eucarestia, soprattutto alle parole di Gesù, riportate dai sinottici, sul pane e sul vino: “Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue...” (cfr. Mt 26,26-28; Mc 14,22-24; Lc 22,15-20). Anche se Giovanni non riporta tali parole, tuttavia in questo discorso di Gesù, dimostra di conoscerete il valore profondo di quella Cena e ne esalta l’aspetto mistico di comunione: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv 6,56). La conseguenza di questa unità è la partecipazione alla vita divina e quindi all’eternità, superando la frontiera della morte: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda (Gv 6,54-55).


La memoria dei defunti: Benedetto XVI (Angelus, 2 novembre 2008): Ieri la festa di Tutti i Santi ci ha fatto contemplare “la città del cielo, la Gerusalemme celeste che è nostra madre” (Prefazio di Tutti i Santi). Oggi, con l’animo ancora rivolto a queste realtà ultime, commemoriamo tutti i fedeli defunti, che “ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace” (Preghiera eucaristica I). È molto importante che noi cristiani viviamo il rapporto con i defunti nella verità della fede, e guardiamo alla morte e all’aldilà nella luce della Rivelazione. Già l’apostolo Paolo, scrivendo alle prime comunità, esortava i fedeli a “non essere tristi come gli altri che non hanno speranza”. “Se infatti - scriveva - crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (1Ts 4,13-14). È necessario anche oggi evangelizzare la realtà della morte e della vita eterna, realtà particolarmente soggette a credenze superstiziose e a sincretismi, perché la verità cristiana non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere.


La morte del cristiano: Catechismo degli Adulti 1189: Il cristiano teme la morte come tutti gli uomini, come Gesù stesso. La fede non lo libera dalla condizione mortale. Tuttavia sa di non essere più solo. Obbediente all’ultima chiamata del Padre, associato a Cristo crocifisso e risorto, confortato dallo Spirito Santo, può vincere l’angoscia, a volte perfino cambiarla in gioia. Può esclamare con l’apostolo Paolo: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,54-55). Allora la morte assume il significato di un supremo atto di fiducia nella vita e di amore a Dio e a tutti gli uomini. Il morente è una persona e il morire un atto personale, non solo un fatto biologico. Esige soprattutto una compagnia amica, il sostegno dell’altrui fede, speranza e carità. L’ambiente più idoneo per morire, come per nascere, è la famiglia, non l’ospedale o l’ospizio.


Questa infatti è la volontà del Padre mio: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 ottobre 1998): Gesù lega la fede nella risurrezione alla sua stessa Persona: “Io sono la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25). In Lui, infatti, grazie al mistero della sua morte e risurrezione, si adempie la divina promessa del dono della “vita eterna”, che implica una piena vittoria sulla morte: “Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la voce [del Figlio] e ne usciranno: quanti fecero il bene, per una risurrezione di vita...” (Gv 5,28-29). “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,40). Questa promessa di Cristo si realizzerà dunque misteriosamente alla fine dei tempi, quando egli tornerà glorioso “a giudicare i vivi e i morti” (2Tm 4,1; cfr. At 10,42; 1Pt 4,5). Allora i nostri corpi mortali rivivranno per la potenza dello Spirito, che ci è stato dato come “caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione” (Ef 1,14; cfr. 2Cor 1,21-22).


La morte ci fa pazienti e sapienti...: Paolo VI (Udienza Generale, 2 Novembre 1966): Ringraziamo la nostra religione, che non solo toglie l’angosciosa paura che circonda il mistero della morte, ma ci educa altresì a guardarla con sereno realismo ed a trarne indispensabili insegnamenti per ben valutare ogni cosa del nostro transito nel tempo e per avere dei nostri Morti qualche consolante notizia. La religione fa della morte una lampada: essa rischiara quanto basta i problemi circa la sopravvivenza dell’uomo oltre la sua fine temporale, così che questa vita temporale non sia accecata dal dubbio e sconvolta dalla disperazione, ma acquisti invece il suo senso escatologico e il suo pieno significato morale; essa ci fa pazienti e sapienti a superare ogni smarrimento nel dolore, e ogni arbitraria e miope filosofia; essa ci stimola a bene vivere e ci conforta alla ricerca e all’attesa d’una futura comunione con Cristo e con le persone che ci furono care; offre insomma una visione generale della esistenza nostra e del mondo, che rinfranca lo spirito in un incomparabile equilibrio di sentimenti e di pensieri, e gli infonde un senso profondo di gratitudine e di ammirazione verso il Dio vivo, Creatore dell’universo e Padre nostro onnipotente.


Il mistero della morte - Gaudium et spes 22: In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine.
L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva.
Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona.
Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta un giorno, quando l’onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all’uomo la salvezza perduta per sua colpa. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte.
Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, dandoci la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio.


Morte e risurrezione finale - Lino Pedron: In questa vita la nostra partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo non è mai completa. Ma arriva il momento in cui questa partecipazione diventa piena e definitiva: il momento della nostra morte.
La morte come completamento della vita del cristiano, che dà la possibilità di vivere con Cristo, è mirabilmente espressa da s. Paolo: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno... Desidero di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo: sarebbe la cosa migliore” (Fil 1,23). Sant’Ignazio di Antiochia (+107) nella sua lettera ai Romani li esorta a non fare nulla per impedirgli il martirio: “Lasciate che io sia pasto delle belve, mediante le quali mi è dato di raggiungere Dio... Ora, in catene, imparo a spogliarmi di ogni desiderio... Quanto è per me più glorioso morire per Cristo Gesù che regnare su tutta la terra, fino agli estremi confini. Io cerco colui che è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto. Ecco è vicino il momento in cui sarò partorito... Lasciate che io raggiunga la pura luce. Giunto là, io sarò veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio. Chi ha Dio nel cuore comprende quello che io bramo. Le mie brame terrene sono crocifisse... Pregate per me, affinché possa raggiungere il mio intento”.
La morte, liberamente accettata, è il culmine della vita cristiana. Tutta la vita è piena di avvenimenti dolorosi che resterebbero senza spiegazione se non diventassero una concreta possibilità di unirsi alle sofferenze e alla morte di Cristo per regnare poi con lui. Le sofferenze di qualunque genere sono per noi il modo concreto per partecipare alla sofferenza di Cristo e offrire tutto, insieme con lui, al Padre per la redenzione del mondo. Diceva s. Paolo: Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa”  (Col 1,24).
L’accettazione libera delle piccole e grandi sofferenze è così per ognuno la preparazione più bella per saper accettare e offrire l’ultima grande sofferenza che è la morte.
Ma questo è solo il primo aspetto, quello negativo. Resta l’altro, il più bello, quello positivo, al quale il primo è ordinato. Come la morte fisica mi aiuta a comprendere le mie piccole “morti” quotidiane, così la risurrezione finale getta la sua luce sulla mia vita di tutti i giorni. S. Paolo ci dice: “Con lui (Cristo) siete stati insieme risuscitati... Con lui Dio ha dato vita anche a voi che eravate morti per i vostri peccati” (Col 1,12-13); “Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Gesù Cristo” (Ef 2,4-6).
Tutta la nostra vita quindi è già illuminata, non solo dalla speranza, ma anche da una certa presenza reale della vita futura.
Per il cristiano non ci sono più situazioni disperate. Tutto può essere ripreso, rinnovato: su ogni maceria si può ricominciare a costruire. A tutto c’è rimedio, anche alla morte. Bisogna giungere fino alla morte per conoscere la gioia della risurrezione.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Per il cristiano non ci sono più situazioni disperate. Tutto può essere ripreso, rinnovato: su ogni maceria si può ricominciare a costruire. A tutto c’è rimedio, anche alla morte. Bisogna giungere fino alla morte per conoscere la gioia della risurrezione.
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Ascolta, o Dio, la preghiera che la comunità dei credenti innalza a te nella fede del Signore risorto, e conferma in noi la beata speranza che insieme ai nostri fratelli defunti risorgeremo in Cristo a vita nuova. Per il nostro Signore Gesù Cristo...