IL PENSIERO DEL GIORNO


11 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Il Signore è buono con chi spera in lui, con l’anima che lo cerca » (Lam 3,25; Cf. Antifona alla Comunione).


Vangelo secondo Luca 11,1-4: Signore, insegnaci a pregare: «Non è forse anzitutto contemplando il suo Maestro orante che nel discepolo di Cristo nasce il desiderio di pregare? Può allora impararlo dal Maestro della preghiera. È contemplando ed ascoltando il Figlio che i figli apprendono a pregare il Padre» (CCC 2061). Il discepolo è colui che prega con Gesù e come Gesù, e con Gesù e come Gesù si rivolge a Dio chiamandolo Padre.


Gesù ha insegnato la preghiera del Padre nostro per ricordare all’uomo che il «combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza. Questa richiesta acquista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione finale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale» (CCC 2849). Non abbandonarci alla tentazione: una richiesta che mette a nudo l’estrema fragilità dell’uomo e rivela, allo stesso tempo, la sguaiata ferocia di Satana, ma anche tutta la sua infernale debolezza: un leone affamato che gira continuamente attorno ai credenti cercando chi divorare (1Pt 5,8), ma già abbattuto e vinto dal Cristo. Una preghiera che punta diritto al cuore di Dio, l’Arbitro che ha in mano le sorti della partita: «Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi» (Rom 16,20). Il primato nella storia «non è, infatti, quello demoniaco, ma è la signoria divina ad avere l’ultima parola e la scena finale dell’Apocalisse [capp. 21-22] ne è la raffigurazione più luminosa» (Gianfranco Ravasi).


Catechismo della Chiesa Cattolica

2773 In risposta alla domanda dei suoi discepoli («Signore, insegnaci a pregare»: Lc 11,1), Gesù consegna loro la preghiera cristiana fondamentale del «Padre nostro».

2774 «L’Orazione domenicale è veramente la sintesi di tutto il Vangelo», «la preghiera perfettissima». Essa è al centro delle Scritture.

2775 È chiamata «Orazione domenicale» perché ci viene dal Signore Gesù, maestro e modello della nostra preghiera.

2776 L’Orazione domenicale è, per eccellenza, la preghiera della Chiesa. È parte integrante delle Ore maggiori dell’Ufficio divino e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: Battesimo, Confermazione ed Eucaristia. Inserita nell’Eucaristia, manifesta il carattere « escatologico » delle proprie domande, nella speranza del Signore, «finché egli venga» (1Cor 11,26).


Signore, insegnaci a pregare…: A fronte delle sette domande di Matteo, il testo lucano contiene solo cinque petizioni. Il testo di Luca, sostanzialmente identico a quello di Matteo, è forse quello che si avvicina di più all’originale. Mancano «sia fatta la tua volontà» e «liberaci dal male». Luca omette o attenua espressioni ebraiche per rendere il testo più comprensibile ai suoi lettori. Matteo inserisce la preghiera del Padre nostro nella magnifica cornice del ‘Discorso della Montagna’ per opporre l’agire cristiano a quello degli ipocriti (Mt 6,9-13); Luca invece, presentando Gesù in preghiera, trasforma intenzionalmente il racconto in una catechesi sulla preghiera: Gesù non insegna ai suoi discepoli una preghiera, ma insegna a pregare.
Oltre a chiedere che sia santificato il nome del Padre, il discepolo deve chiedere il pane quotidiano. Quotidiano, in greco epiousios, potrebbe significare necessario oppure per il giorno dopo, ma quest’ultima interpretazione è in contrasto con altri testi scritturistici: per esempio, in Mt 6,34 viene detto da Gesù: «Non affannatevi per il domani» (Cfr. Prov 27,l [LXX]).
Il primo significato (con Origene possiamo leggere il pane necessario per l’esistenza) suggerisce l’intenzione di Gesù nell’insegnare la preghiera del Padre nostro: l’uomo deve imparare a chiedere al Padre quanto è necessario per la sua sussistenza.
Altri invece vi vedono un pane spirituale: il pane della vita, la manna celeste che Gesù mangerà in eterno con i suoi discepoli (Cf. Lc 22,30; Mt 26,29; Ap 2,17). Così soprattutto i Padri della Chiesa, ma è fuor di dubbio che Gesù pensi al pane terreno.
Luca sottolinea la ripetizione della domanda: ogni giorno perché il Padre è Colui che dona all’uomo il pane giorno dopo giorno, senza mai stancarsi. È il Dio buono che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45).
Bisogna chiedere anche il perdono dei peccati.
Matteo parla di debiti, Luca di peccati: si «passa così da un contesto piuttosto giuridico ad un contesto più storico ed esistenziale: è il riconosci­mento di essere veramente peccatori di fronte a Dio, accompagnato da una sincera domanda di perdono» (Carlo Guidelli).
I discepoli che anelano al perdono di Dio, devono perdonarsi a vicenda (Cf. Mt 5,39; 6,12; 7,2; 2Cor 2,7; Ef 4,32; Col 3,13) e devono perdonare il prossimo senza mai stancarsi: fino a settanta volte sette (Cf. Mt 18,22). Chi non vuole perdonare non può pretendere di ricevere il perdono di Dio: se «vogliamo essere giudicati benignamente, anche noi dobbiamo mostrarci benigni verso coloro che ci hanno arrecato qualche offesa. Infatti ci sarà perdonato nella misura in cui avremo perdonato loro, qualunque cattiveria ci abbiano fatto» (Giovanni Cassano).
Con l’ultima petizione il discepolo chiede di non essere abbandonato alla tentazione. Una supplica che nasce dalla consapevolezza della propria debolezza dinanzi alla prepotenza e all’astuzia di Satana, il Tentatore per antonomasia: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41).


La preghiera del Padre nostro: Paolo VI (Udienza Generale, 23 giugno 1976): Quanto ci fa umili e quanto ci fa grandi la preghiera del Padre nostro», insegnataci dallo stesso supremo ed unico Maestro, che è il Cristo! [cfr. Matth. 23,8] quali profondità soggettive e personali essa scava dentro di noi, e quali armonie comunitarie essa esige e promuove! Vorremmo che questa regina delle preghiere diventasse per noi la preferita. E fosse tema, una volta almeno, di speciale e attenta meditazione. Esiste tutta una letteratura su questa «oratio dominica», su questa preghiera che il Signore stesso ci ha insegnato [...]. Espressione della nostra insufficienza, della nostra debolezza, della nostra colpevolezza, la preghiera del Signore può diventare la nostra forza, la nostra fiducia, la nostra speranza: «Chiedete, e vi sarà dato», dice il Signore. «Chi tra di voi al Figlio che chiede un pane darà una pietra? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano?» [Matth. 7,9-11]. Pregare dunque, pregare sempre....


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O  Dio, fonte di ogni bene,che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito effondi su di noi la tua misericordia: perdona ciò che la coscienza te e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare. Per il nostro Signore Gesù Cristo.


IL PENSIERO DEL GIORNO
  
10 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28; Cf. Acclamazione al Vangelo).


Vangelo secondo Luca 10,38-42: Marta tra le pentole, Maria ai piedi del Maestro. Anche se sant’Agostino dice che entrambi «i comportamenti sono degni di lode», in verità solo Maria viene lodata dal Signore, diventando in questo modo il tipo del vero discepolo di Gesù.


Maria ha scelto la parte migliore - Questo racconto è esclusivo di Luca. Il villaggio è Betania dove abitavano le sorelle Marta e Maria con il fratello Lazzaro. È una località della Giudea, attualmente parte della Cisgiordania, molto vicina a Gerusalemme. La casa dei tre fratelli era sempre aperta al Maestro (Mt 26,6-13; Mc 14.3-9; Lc 10,38-42; Gv 11,1-46; 12,1-8), ma, soprattutto, era aperto il loro cuore, una cara intimità frutto di una sincera amicizia. Le due sorelle si ritrovano con gli stessi tratti di carattere nel racconto della risurrezione del fratello Lazzaro (Cf. Gv 11,1-46).
Ad accogliere Gesù è Marta la quale, facendo onore al suo nome che significa «padrona», si affretta ad infilarsi in cucina tra le stoviglie per accogliere con una magnifica ospitalità il divino Ospite. Maria invece si accoccola ai piedi del Maestro per ascoltare la sua parola.
Il mettersi ai piedi di Gesù Maestro è l’atteggiamento del discepolo, ma non bisogna trascurare il fatto che Maria è una donna. Per capire la portata rivoluzionaria del gesto basta ricordare il posto che la donna occupava nella società contemporanea ai fatti evangelici. Praticamente, il più basso.
In Gv 4,27 i discepoli si meravigliano che Gesù stia parlando con una donna. Lo scandalo non viene dal fatto che quella donna era una samaritana di facili costumi, ma semplicemente donna e perciò stesso non degna di considerazione. In tribunale non veniva accettata la testimonianza della donna ed era esclusa dalla vita cultuale e liturgica. Nel tempio e nella sinagoga vi erano ambiti esclusivamente destinati alle donne, per cui erano separate fisicamente dagli uomini. Così in casa in quanto non mangiavano con gli uomini, ma in sale appartate. Potevano essere ripudiate per futili motivi. Non partecipavano alle discussioni in pubblico, non potevano uscire, se non per lavorare nei campi o per prendere l’acqua; dovevano portare il velo.
Nell’ambiente rabbinico circolava l’opinione secondo cui, piuttosto che consegnare la Torà ad una donna, era meglio bruciarla.
Gesù in questa occasione, ma non soltanto in questa circostanza, sta sovvertendo un modo di pensare, una convenzione sociale del suo tempo.
Gesù è un uomo libero da pregiudizi o idee preconcette e anche per tale questione agisce con grande libertà. Accetta di essere ospitato da donne e va oltre, accettando di avere anche un seguito femminile per il soddisfacimento dei comuni bisogni logistici (Cf. Lc 8,1-3).
Anche in quest’occasione, in casa di Marta e Maria, Gesù «va oltre, ammettendo una di esse come uditrice della parola. La formula nell’opera lucana indica l’annuncio del messaggio specifico di Gesù: Lc 5,2; At 13,7.44; 19,10. Tra Maria e Gesù non è dunque in corso una conversazione qualsiasi, tanto per intrattenere l’ospite in attesa che il pranzo sia servito. Le posizioni fisiche stesse dei due personaggi dicono che qui Gesù è ritratto come il Maestro che insegna e Maria come la discepola che ascolta [...]. Maria è ammessa anche lei nel gruppo dei discepoli senza inferiorità alcuna» (G. Corti).
La reazione di Marta, dille dunque che mi aiuti, e la risposta di Gesù, Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta, ha dato la stura a un’infinità di risposte. Johannes Eckhart loda la reazione di Marta in quanto in lei era insorto il sospetto «che la cara Maria, sedesse là più per il piacevole sentire che non per il profitto spirituale. E per questo motivo Marta disse: “Signore, comandale di alzarsi!”, perché temeva che Maria si attestasse in questo piacere e non procedesse oltre».
Chi vede una difesa a spada tratta della vita contemplativa; chi invece cerca di conciliare il servizio con 1’ascolto: «Infatti la parte migliore, che non sarà tolta, è che il cuore sia pronto non solo a contemplare, ma anche a servire il prossimo» (San Bernardo da Chiaravalle). Chi va oltre, tanto da vedere in Marta colei che ha ricevuto la parola tra le spine: Marta è colei che «ascolta la parola, ma le molte preoccupazioni la soffocano, sì che essa non dà frutto. Maria invece è colei che ha ricevuto la parola in un terreno fertile, ascolta e dà frutto. L’episodio descrive la preoccupazione di Luca che vede nella sua comunità un eccesso di impegno sociale a scapito dell’ascolto della parola. L’invito di Gesù è a ridimensionare quel servizio, pur necessario, sull’essenziale» (Cesare Marcheselli).
I capi della primitiva comunità cristiana andranno per le vie di Maria e così al servizio delle mense (diaconia, il verbo che troviamo in Lc 10,40 e Atti 6,2) preferiranno la predicazione e la preghiera. Quando alcuni ellenisti si lamenteranno perché le loro vedove erano trascurate «nella assistenza quotidiana» (Atti 6,1), la risposta di Pietro non si farà attendere: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate tra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo quest’incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola» (Atti 6,2-4).
Nella risposta di Pietro vi è un salutare insegnamento: l’eccessivo impegno sociale spegne l’annunzio e rarefà la preghiera. Le comunità cristiane di ogni tempo trovano la vera loro identità nel cercare «anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33), nell’occuparsi «delle cose del Padre» (Lc 2,49) e nel vivere «non di solo pane [...], ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Al di là delle tante interpretazioni, possiamo cogliere nelle parole di Gesù il desiderio di far conoscere a Marta il confine tra quello che è buono e non passa e quello che, pur essendo buono, è effimero.
A motivo dell’esigenza e dell’urgenza dell’ora in cui il credente vive, Maria ha scelto la parte migliore, per cui l’unica cosa di cui c’è bisogno è quella di ascoltare la parola, per accoglierla con docilità e metterla in pratica (Cf. Gc 1,22).


Marta e Maria: Benedetto XVI (Angelus, 18 luglio 2010): Marta e Maria sono due sorelle; hanno anche un fratello, Lazzaro, che però in questo caso non compare. Gesù passa per il loro villaggio e  - dice il testo - Marta lo ospitò (cfr. Lc 10,38). Questo particolare lascia intendere che, delle due, Marta è la più anziana, quella che governa la casa. Infatti, dopo che Gesù si è accomodato, Maria si mette a sedere ai suoi piedi e lo ascolta, mentre Marta è tutta presa dai molti servizi, dovuti certamente all’Ospite eccezionale. Ci sembra di vedere la scena: una sorella che si muove indaffarata, e l’altra come rapita dalla presenza del Maestro e dalle sue parole. Dopo un po’ Marta, evidentemente risentita, non resiste più e protesta, sentendosi anche in diritto di criticare Gesù: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Marta vorrebbe addirittura insegnare al Maestro! Invece Gesù, con grande calma, risponde: “Marta, Marta - e questo nome ripetuto esprime l’affetto -, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10,41-42). La parola di Cristo è chiarissima: nessun disprezzo per la vita attiva, né tanto meno per la generosa ospitalità; ma un richiamo netto al fatto che l’unica cosa veramente necessaria è un’altra: ascoltare la Parola del Signore; e il Signore in quel momento è lì, presente nella Persona di Gesù! Tutto il resto passerà e ci sarà tolto, ma la Parola di Dio è eterna e dà senso al nostro agire quotidiano.

 L’errore di Marta è l’errore di molti uomini e non solo contemporanei. Un mondo disposto ad ammirare unicamente l’uomo faber immerso in una vita attiva, fatta esclusivamente di opere concrete, ha trasformato il cristianesimo in una religione quasi solo al femminile: per cui, la preghiera è il rifugio di chi non sa o non vuole impegnarsi nel mondo; dell’inetto che non sa comprendere le grandi cause sociali e politiche e lottare per esse; o di chi non sa comprendere che il primo impegno è la promozione umana. Oggi «si fa un gran parlare di impegno nel mondo, di impegno nel sociale, di ‘promozione umana’. E sta bene... Ma dobbiamo oggi asserire che più necessario di tutto, di ogni altro impegno, è amare Dio, quindi onorarlo, servirlo e poi farlo amare, farlo onorare, farlo servire... Attenzione dunque ad un cristianesimo fatto tutto e solo orizzontale! Attenzione all’attivismo che tarpa le ali ai voli dello spirito, alla preghiera, alla contemplazione! Il rimprovero di Gesù a Marta è per tutti questi travisamenti della vocazione cristiana. Può essere per noi...» (Andrea Gemma). Potrebbe essere per noi..., ma qui ci vorrebbe un serio e onesto esame di coscienza.

Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Tutto il resto passerà e ci sarà tolto, ma la Parola di Dio è eterna e dà senso al nostro agire quotidiano.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.

Preghiamo con la Chiesa: O  Dio, fonte di ogni bene,che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito effondi su di noi la tua misericordia:perdona ciò che la coscienza te e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare. Per il nostro Signore Gesù Cristo.


IL PENSIERO DEL GIORNO

 9 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Vi do un comandamento nuovo, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34; Cf. Acclamazione al Vangelo).


Vangelo secondo Luca 10,25-37: I personaggi del racconto evangelico appartengono a due mondi contrapposti, «l’un contro l’altro armato» (Alessandro Manzoni): da una parte il Samaritano, lo straniero ed eretico (Cf. Gv 8,48; Lc 9,53), dal quale non si attenderebbe normalmente che odio e dall’altra il sacerdote e il levita, coloro che in Israele sono maggiormente tenuti a osservare la legge della carità. Quest’ultimi sono convinti di amare Dio anche se lasciano morire per strada chi ha avuto la disavventura di incappare nei briganti: non si accorgono che è una pura scempiaggine credere di amare Dio disprezzando il prossimo. La religione che separa totalmente il religioso dal profano, che ha cura del rito senza integrarlo con la morale, che non assomma il culto con la carità, è praticamente una religione atea con pericolosi propensioni al fanatismo e all’idolatria.


Un uomo scendeva... - Solo Luca parla di questo episodio. Il «dottore della Legge» che si «alza» per mettere alla prova Gesù è un esperto della Legge e trascinare intenzionalmente il giovane maestro di Nazaret in questioni riguardanti la Legge era come spingerlo sulle sabbie mobili. La domanda posta a Gesù, - che devo fare per ereditare la vita eterna? -, era di vitale importanza per ogni ebreo e la preoccupazione del dottore della Legge non è sul piano teorico, ma pratico (Cf. Lc 18,18). Non era facile districarsi in una selva di precetti e trovarvi la via che conduceva alla vita eterna. Basti pensare che il numero dei precetti della Torà era ben 613, di cui 248 precetti positivi e 365 precetti negativi.
Alla domanda del leguleio, Gesù risponde a sua volta con una domanda in modo che sia lo stesso interlocutore a dare la risposta. Quando il dottore della Legge cita la sacra Scrittura, e precisamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza... » (Dt 6,5) e la legge parallela «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18), Gesù gli dice che ha risposto correttamente e lo invita a comportarsi di conseguenza.
Il monito fa’ questo (tu fa’ così) è ripetuto anche alla fine della parabola per sottolineare l’importanza della pratica di vita di cui certamente difettava il borioso dottore della Legge, il quale volendosi giustificare chiede a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
La risposta per l’interlocutore era in verità già scontata. In linea di massima, il prossimo, per un Giudeo, era il connazionale o lo straniero che dimorava in Israele (Cf. Lev 19,33-34). Più tardi saranno considerati prossimo i pagani convertiti.
Da questa lista certamente erano esclusi i nemici e sopra tutto i Samaritani. Secondo Rinaldo Fabris, al tempo di Gesù erano state aggiunte altre restrizioni, «per cui praticamente il prossimo era il membro della setta o del gruppo religioso [farisei, esseni, zeloti, ecc.]. È su questo sfondo che deve essere trascritto il racconto magistrale di Gesù».
Gesù, a questo punto, perché sia più chiara la sua esortazione, narra la parabola dell’uomo incappato nei briganti. Di proposito gli attori del racconto sono un sacerdote, un levita e un Samaritano. I primi due, consci di essere gli «eletti» rappresentanti religiosi dell’ebraismo, appartengono al popolo d’Israele; il Samaritano invece a un popolo considerato dai Giudei eretico, pagano. Un’antica ferita che si perdeva nella notte dei tempi quando Sargon re degli Assiri, nel 721 a.C., aveva conquistato il regno del Nord deportando i suoi abitanti e al loro posto erano state trasferite genti di altre nazioni (Cf. 2Re 17) che si erano amalgamate con i pochi rimasti in patria. Anche in campo religioso si era creato un sincretismo che aveva spinto i Giudei scampati all’esilio, e che erano ritornati nella loro terra, a considerare i Samaritani come popolo misto.
Gesù nel raccontare la parabola, di proposito, opera uno spostamento di accento, dall’oggetto al soggetto. Mentre il dottore della Legge aveva chiesto chi doveva essere oggetto del suo amore, Gesù fa vedere il soggetto, chi è colui che ama veramente; al dottore della Legge che chiedeva chi fosse il prossimo da amare, Gesù gli insegna come lui avrebbe dovuto diventare prossimo. Praticamente, Gesù chiede al dottore della legge di rientrare in se stesso e di verificare in che modo egli si pone nei confronti degli altri, quali relazioni costruisce con gli altri. Al termine della parabola, il saccente custode della Legge scopre il senso dell’insegnamento di Gesù: come il Samaritano deve avere il coraggio di farsi prossimo di chi nell’immediato ha bisogno del suo aiuto senza stare a sofisticare in questioni di lana caprina. Una bella lezione per chi era abituato a «filtrare il moscerino» (Mt 23,24). Non va poi dimenticato il senso cristologico della parabola: il buon Samaritano è Gesù che nell’amare l’umanità rivela e realizza l’infinito amore del Padre per tutti gli uomini. In questa ottica l’amore verso il prossimo, che con la parabola viene comandato a tutti i discepoli, deve essere interpretato come continuazione dell’amore di Gesù, come insegnano le sue stesse parole: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 15,34).


La parabola del buon Samaritano: Deus caritas est 15: La parabola del buon Samaritano (cfr. Lc 10,25-37) conduce soprattutto a due importanti chiarificazioni. Mentre il concetto di «prossimo» era riferito, fino ad allora, essenzialmente ai connazionali e agli stranieri che si erano stanziati nella terra d’Israele e quindi alla comunità solidale di un paese e di un popolo, adesso questo limite viene abolito. Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora. Rimane compito della Chiesa interpretare sempre di nuovo questo collegamento tra lontananza e vicinanza in vista della vita pratica dei suoi membri. Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio finale (cfr. Mt 25,31-46), in cui l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio.


Amare... sempre amare: Evangelium vitae 41: Con la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive del comandamento circa l’inviolabilità della vita. Esse erano già presenti nell’Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la vedova, l’orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della nascita (cfr. Es 21,22; 22,20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello (familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi carico dell’estraneo, fino all’amare il nemico. L’estraneo non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (Mt 5,38-48; Lc 6,27-35) e a “fargli del bene” (Lc 6,27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e senso di gratuità (Lc 6,34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,44-45; Lc 6,28.6,35).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
****  Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O  Dio, fonte di ogni bene,che esaudisci le preghiere del tuo popolo al di là di ogni desiderio e di ogni merito effondi su di noi la tua misericordia:perdona ciò che la coscienza te e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare. Per il nostro Signore Gesù Cristo.


IL PENSIERO DEL GIORNO


8 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Io ho scelto voi perché andiate e portiate frutto e  il vostro frutto rimanga» (Cfr. Gv 15,16; Acclamazione al Vangelo).

Vangelo secondo Matteo 21,33-43: La parabola dei contadini omicidi arriva senza difficoltà al cuore di chi ascolta. Il padrone della vigna è il Padre, i servi sono i profeti e il figlio prediletto, cacciato fuori dalla vigna e ucciso da coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, è Gesù. Alla ostinazione e alla malvagità del suo popolo, il padrone della vigna risponderà facendo uccidere i vignaioli e affidando ad altri la vigna. Il regno di Dio andrà a coloro che avranno creduto, i quali consegneranno a suo tempo al padrone del campo i frutti. Per convalidare questo annuncio, Gesù evoca il testo del salmo 117 attribuendolo a se stesso. L’immagine della pietra, scartata dai costruttori e scelta da Dio come testata d’angolo, sta ad indicare che ciò che è disprezzato dagli uomini, per il Signore diviene fondamento di salvezza.


Presero il figlio, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero - La parabola dei contadini omicidi si divide in tre parti: vv. 33-34, il padrone della vigna manda i servi a ritirare il raccolto; vv. 38-41 i contadini maltrattano i servi, alcuni li uccidono; infine uccidono pure il figlio del padrone; vv. 42-46, Gesù spiega il senso della parabola, suscitando l’ira dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo.
L’immagine della vigna era familiare agli israeliti come figura di realtà spirituali. Allo stesso tempo, al linguaggio popolare suggeriva delle sentenze (Cf. Gdc 8,2; Ger 31,29) e ispirava ai profeti e agli scrittori biblici numerosissime metafore. Nell’Antico Testamento, la vigna appare talvolta come il simbolo della fertilità (Cf. Sal 128,3; Ez 19,10) e spesso designa il popolo d’Israele (Cf. Is 3,4; 5,1-7; Ger 2,21; 12,10; Ez 15,1; 17,6-10; 19,10-14; Os 10,1). Per esempio nel linguaggio del Cantico dei Cantici o dei Profeti, Israele è la vigna di Dio, l’opera del Signore, la gioia del suo cuore. Sempre nel libro sacro, il castigo di Dio è spesso rappresentato sotto l’aspetto della distruzione di una vigna (Cf. Os 2,14; Is 7,23; 32,10; Ger 8,13), mentre il suo perdono è talora contrassegnato dalla ricostruzione di una vigna fiorente (Cf. Gl 2,22; Mal 3,11). Questo canovaccio non è comunque mantenuto nel Nuovo Testamento.
Se nel cantico della vigna (Cf. Is 5,1-7) la casa d’Israele, a motivo della sua ingratitudine e della sua infedeltà, sarà ridotta a un deserto e abbandonata al suo miserevole destino; nella parabola dei contadini omicidi la vigna non sarà distrutta, ma sarà data ad altri che la faranno fruttificare. È una sorta di rigenerazione, un messaggio di speranza. Il testimòne dell’alleanza passerà alla Chiesa: essa in Cristo, suo Capo, sarà il nuovo Israele che consegnerà a Dio i frutti a suo tempo.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi..., chiara allusione ai profeti mandati da Dio ad Israele. Il raccolto, invece sta ad indicare le opere buone rivendicate dal Signore Dio. L’invio del figlio è l’ultimo tentativo che avrà un esito drammatico. La decisione di uccidere l’erede è in sintonia con la legge ebraica, la quale, nel caso in cui un proselito ebraico moriva, permetteva ai suoi fittavoli di reclamare le sue terre. Ma qui «viene denunciato non tanto un furto di prodotti quanto piuttosto la usurpazione dei diritti di Dio e la pretesa di prendere il suo posto; sta per ripetersi il peccato dei progenitori» (Bruno Barisan).
Alla fine del racconto, i farisei non si accorgono di essere gli accusati (Cf. 2Sam 12,5-7) e rispondendo alla domanda di Gesù, si autodenunciano trasgressori e meritevoli del castigo. La sentenza non tarda ad arrivare: Io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.
Questo affidamento però non suggerisce un’idea di appropriazione; infatti, la vigna viene soltanto affidata alla Chiesa ed essa dovrà dare i frutti a tempo debito. È un dono che non porta il marchio della infallibilità; quindi, rimane possibile, anche per la Chiesa, la probabilità di un ripudio.
L’affermazione può sembrare temeraria, ma «ha il vantaggio di provocare una precisazione. La Chiesa è per sua natura santa perché corpo e sposa di Cristo e animata dallo Spirito Santo. Non potrà mai essere ripudiata perché è indefettibile [Mt 16,18]. Dio non può ripudiare suo Figlio di cui la Chiesa è corpo. Però se non c’è il pericolo del ripudio collettivo, rimane sempre quello del rigetto individuale, tanto più grave quanto maggiori sono i sussidi a disposizione di ognuno» (Vincenzo Raffa).
È la minaccia del Padre di resecare ogni tralcio che in Cristo non porta frutto: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,1-2). Allora la parabola richiama il «bisogno di riacquistare il senso che la Chiesa è anzitutto dono di Dio e che noi stessi lo siamo, che in essa egli ha stabilito con noi un rapporto di amore e di fiducia e che ci domanda il contraccambio di tale rapporto come primo frutto» (Bruno Barisan).


 ... darà in affitto la vigna ad altri contadini - I contadini omicidi saranno puniti, ma “la morte del Figlio aprirà una nuova tappa del disegno di Dio: affidata a vignaioli fedeli, la vigna darà finalmente il suo frutto” (M. F. Lacan). Il testimòne è così passato alla Chiesa e sarà essa a dare i frutti a Dio, in quanto «podere o campo di Dio. In quel campo cresce l’antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle genti. Essa è stata piantata dal celeste Agricoltore come vigna scelta. Cristo è la vera Vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui e senza di lui nulla possiamo fare» (CCC 755).
La Chiesa edificata da Gesù sopra la roccia di Pietro, custodirà e confermerà la fede dei suoi membri: «Cristo, “Pietra viva”, assicura alla sua Chiesa fondata su Pietro la vittoria sulle potenze di morte. Pietro, a causa della fede da lui confessata, resterà la roccia incrollabile della Chiesa. Avrà la missione di custodire la fede nella sua integrità e di confermare i suoi fratelli» (CCC 552).
E perché questa missione sia indefettibile, la Chiesa deve conservare con grande attenzione la fede che ha ricevuto in dono, credervi in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predicare la verità della fede, insegnarla e trasmetterla con voce unanime, come se avesse una sola bocca (CCC 173).
In pratica, essa deve trasmettere e confessare fedelmente «la sua unica fede, ricevuta da un solo Signore, trasmessa mediante un solo Battesimo, radicata nella convinzione che tutti gli uomini non hanno che un solo Dio e Padre» (CCC 172).
Custodire, trasmettere, confessare sono le peculiarità irrinunciabili della Sposa di Cristo (CCC 796).
In particolare custodirà fedelmente la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte.
Conserverà con cura la memoria delle Parole di Cristo e trasmetterà di generazione in generazione la confessione di fede degli Apostoli (CCC 171).
Ma avrà anche il compito di insegnare il linguaggio della fede: «Come una madre che insegna ai suoi figli a parlare, e con ciò stesso a comprendere e a comunicare, la Chiesa, nostra Madre, ci insegna il linguaggio della fede per introdurci nell’intelligenza della fede e nella vita» (CCC 171).
Fedeltà fino al martirio. È inimmaginabile che la Chiesa, la cui vocazione è quella di essere in questo mondo il sacramento della salvezza, il segno e lo strumento della comunione di Dio e degli uomini (CCC 780), tradisca il suo Fondatore, sia ingrata o sia incapace di produrre quei frutti che il divino Agricoltore esige affinché il suo regno sia sempre più dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento (CCC 782).
Ma perché non si resti in una riflessione astratta, è bene ricordare che la parola Chiesa indica la comunità dell’universalità dei credenti.
«Nel linguaggio cristiano, il termine “Chiesa” designa l’assemblea liturgica, ma anche la comunità locale o tutta la comunità universale dei credenti. Di fatto questi tre significati sono inseparabili. La “Chiesa” è il popolo che Dio raduna nel mondo intero. Essa esiste nelle comunità locali e si realizza come assemblea liturgica, soprattutto eucaristica. Essa vive della Parola e del Corpo di Cristo, divenendo così essa stessa Corpo di Cristo» (CCC 752).
Quindi è una fedeltà che interpella tutto il popolo di Dio e in particolare ciascuno di Dio.
Una fedeltà esatta senza mezzi termini dal padrone della vigna e la parabola dei contadini omicidi (Mt 21,22-43) lo esplicita in modo chiaro. Non «basta un’adesione intellettuale al Vangelo, ma bisogna “far frutti” per non essere esclusi dal regno come i capi giudei... L’evangelista attualizza la parabola in senso parenetico, rivolgendo un severo  monito ai cristiani delle sue comunità, che potevano ripetere l’errore degli ebrei, staccandosi da Cristo» (A. Poppi). Un giorno, se infedeli, quando ci capiterà di bussare alla porta del Regno di Dio e incominceremo a dire «Signore, signore, aprici!», Lui, il padrone della vigna, risponderà: «In verità io vi dico: non vi conosco» (Mt 25,12). E non servirà protestare, quella porta resterà chiusa per sempre.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Quando verrà il padrone della vigna farà morire miseramente quei malvagi, e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa:  Padre giusto e misericordioso,che vegli incessantemente sulla tua Chiesa, non abbandonare la vigna che la tua destra ha piantato continua a coltivarla e ad arricchirla di scelti germogli, perché innestata in Cristo, vera vite, porti frutti abbondanti di vita eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

7 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Rallegratevi che i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20).

Vangelo secondo Luca 10,17-24: I settantadue tornarono pieni di gioia: gli inviati tornano pieni di gioia per avere esperimentato la potenza del Nome di Gesù. Ma il Maestro smorza un po’ la loro contentezza. Possono soltanto rallegrarsi per il fatto che i loro nomi «sono scritti nei cieli». Come ricorda san Paolo, la croce, e soltanto la croce, è la ricompensa e la forza del discepolo. Invece di aggrapparsi alla gratificazione del loro lavoro apostolico, i cristiani, «abbandonandosi al Padre come il Cristo nel momento supremo della croce [cfr. Lc 23,46; Atti 7,59], restano saldi nella edificazione della Chiesa che il Cristo opera proprio attraverso la loro stessa tribolazione» (Maria Ignazia Danieli). E se questo è l’unico metodo che Cristo usa per edificare la sua Chiesa allora si può comprendere perché scarseggiano gli operai per il suo regno.


I settantadue tornarono pieni di gioia … Un perenne invito alla gioia: Evangelii gaudium 5: Il Vangelo, dove risplende gloriosa la Croce di Cristo, invita con insistenza alla gioia. Bastano alcuni esempi: «Rallegrati» è il saluto dell’angelo a Maria (Lc 1,28). La visita di Maria a Elisabetta fa sì che Giovanni salti di gioia nel grembo di sua madre (cfr Lc1,41). Nel suo canto Maria proclama: «Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,47). Quando Gesù inizia il suo ministero, Giovanni esclama: «Ora questa mia gioia è piena» (Gv 3,29). Gesù stesso «esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Il suo messaggio è fonte di gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La nostra gioia cristiana scaturisce dalla fonte del suo cuore traboccante. Egli promette ai discepoli: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). E insiste: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22). In seguito essi, vedendolo risorto, «gioirono» (Gv 20,20). Il libro degli Atti degli Apostoli narra che nella prima comunità «prendevano cibo con letizia» (2,46). Dove i discepoli passavano «vi fu grande gioia» (8,8), ed essi, in mezzo alla persecuzione, «erano pieni di gioia» (13,52). Un eunuco, appena battezzato, «pieno di gioia seguiva la sua strada» (8,39), e il carceriere «fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per aver creduto in Dio» (16,34). Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia?

Evangelii gaudium 21: La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria. La sperimentano i settantadue discepoli, che tornano dalla missione pieni di gioia (cfr Lc 10,17). La vive Gesù, che esulta di gioia nello Spirito Santo e loda il Padre perché la sua rivelazione raggiunge i poveri e i più piccoli (cfr Lc 10,21). La sentono pieni di ammirazione i primi che si convertono nell’ascoltare la predicazione degli Apostoli «ciascuno nella propria lingua» (At 2,6) a Pentecoste. Questa gioia è un segno che il Vangelo è stato annunciato e sta dando frutto. Ma ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre. Il Signore dice: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38). Quando la semente è stata seminata in un luogo, non si trattiene più là per spiegare meglio o per fare segni ulteriori, bensì lo Spirito lo conduce a partire verso altri villaggi.


Giovanni Paolo II (Rosarium Virginis Mariae )

Ricordare Cristo con Maria

13. Il contemplare di Maria è innanzitutto un ricordare. Occorre tuttavia intendere questa parola nel senso biblico della memoria (zakar), che attualizza le opere compiute da Dio nella storia della salvezza. La Bibbia è narrazione di eventi salvifici, che hanno il loro culmine in Cristo stesso. Questi eventi non sono soltanto un ‘ieri’; sono anche l’‘oggi’ della salvezza. Questa attualizzazione si realizza in particolare nella Liturgia: ciò che Dio ha compiuto secoli or sono non riguarda soltanto i testimoni diretti degli eventi, ma raggiunge con il suo dono di grazia l’uomo di ogni tempo. Ciò vale, in certo modo, anche di ogni altro devoto approccio a quegli eventi: «farne memoria», in atteggiamento di fede e di amore, significa aprirsi alla grazia che Cristo ci ha ottenuto con i suoi misteri di vita, morte e risurrezione. 
Per questo, mentre va ribadito con il Concilio Vaticano II che la Liturgia, quale esercizio dell’ufficio sacerdotale di Cristo e culto pubblico, è «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua forza», occorre anche ricordare che la vita spirituale «non si esaurisce nella partecipazione alla sola sacra Liturgia. Il cristiano chiamato alla preghiera in comune, nondimeno deve anche entrare nella sua camera per pregare il Padre nel segreto (cfr Mt 6,6); anzi, deve pregare incessantemente come insegna l’Apostolo (cfr 1Ts 5,17)». Il Rosario si pone, con una sua specificità, in questo variegato scenario della preghiera ‘incessante’, e se la Liturgia, azione di Cristo e della Chiesa, è azione salvifica per eccellenza, il Rosario, quale meditazione su Cristo con Maria, è contemplazione salutare. L’immergersi infatti, di mistero in mistero, nella vita del Redentore, fa sì che quanto Egli ha operato e la Liturgia attualizza venga profondamente assimilato e plasmi l’esistenza. 

Imparare Cristo da Maria

14. Cristo è il Maestro per eccellenza, il rivelatore e la rivelazione. Non si tratta solo di imparare le cose che Egli ha insegnato, ma di ‘imparare Lui’. Ma quale maestra, in questo, più esperta di Maria? Se sul versante divino è lo Spirito il Maestro interiore che ci porta alla piena verità di Cristo (cfr Gv 14,26; 15,26; 16,13), tra gli esseri umani, nessuno meglio di Lei conosce Cristo, nessuno come la Madre può introdurci a una conoscenza profonda del suo mistero.
Il primo dei ‘segni’ compiuto da Gesù - la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana - ci mostra Maria appunto nella veste di maestra, mentre esorta i servi a eseguire le disposizioni di Cristo (cfr Gv 2,5). E possiamo immaginare che tale funzione Ella abbia svolto per i discepoli dopo l’Ascensione di Gesù, quando rimase con loro ad attendere lo Spirito Santo e li confortò nella prima missione. Il passare con Maria attraverso le scene del Rosario è come mettersi alla ‘scuola’ di Maria per leggere Cristo, per penetrarne i segreti, per capirne il messaggio.
Una scuola, quella di Maria, tanto più efficace, se si pensa che Ella la svolge ottenendoci in abbondanza i doni dello Spirito Santo e insieme proponendoci l’esempio di quella «peregrinazione della fede», nella quale è maestra incomparabile. Di fronte a ogni mistero del Figlio, Ella ci invita, come nella sua Annunciazione, a porre con umiltà gli interrogativi che aprono alla luce, per concludere sempre con l’obbedienza della fede: «Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). 


Paolo VI (Marialis cultus)

Rosario, lode incessante a Cristo

46 Preghiera evangelica, incentrata nel mistero dell’Incarnazione redentrice, il Rosario è, dunque, preghiera di orientamento nettamente cristologico. Infatti, il suo elemento caratteristico - la ripetizione litanica del Rallegrati, Maria - diviene anch’esso lode incessante a Cristo, termine ultimo dell’annuncio dell’Angelo e del saluto della madre del Battista: Benedetto il frutto del tuo seno (Lc 1,42). Diremo di più: la ripetizione dell’Ave, Maria costituisce l’ordito, sul quale si sviluppa la contemplazione dei misteri: il Gesù che ogni Ave, Maria richiama, è quello stesso che la successione dei misteri ci propone, di volta in volta, Figlio di Dio e della Vergine, nato in una grotta di Betlemme; presentato dalla madre al tempio; giovinetto pieno di zelo per le cose del Padre suo; Redentore agonizzante nell’orto; flagellato e coronato di spine; carico della croce e morente sul Calvario; risorto da morte e asceso alla gloria del Padre, per effondere il dono dello Spirito. È noto che, appunto per favorire la contemplazione e far corrispondere la mente alla voce, si usava un tempo - e la consuetudine si è conservata in varie regioni - aggiungere al nome di Gesù, in ogni «Ave Maria», una clausola che richiamasse il mistero enunciato.   


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre; tu, che all’annunzio dell’angelo ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce, con l’intercessione della Beata Vergine Maria, guidaci alla gloria della risurrezione. Per il nostro Signore...