IL PENSIERO DEL GIORNO

6 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Oggi non indurite il vostro cuore, ma ascoltate la voce del Signore» (Cfr. Sal 94,8ab; Cfr. Acclamazione al Vangelo). 


Invito alla conversione continua - Basilio Caballero (La Parola per ogni giorno): Nel duro rimprovero alle città impenitenti c’è un ultimo invito alla conversione comunitaria e personali per un duplice motivo: perché il regno di Dio ha il primato assoluto e perché la semplice appartenenza al popolo israelita non garantisce l’ingresso nel regno. Questo vale anche per noi cristiani, membri battezzati della Chiesa. Sarebbe molto pericoloso non dare ascolto a Gesù oggi.
Ma c’è molta differenza tra il percepire l’urgenza della conversione come una fredda minaccia o come un invito liberatore. Nel caso della minaccia, l’imminenza del giudizio di Dio crea angoscia; nel caso dell’invito liberatore, invece, si tratta di un richiamo stimolante che genera gioia perché ci libera della zavorra che sta impedendoci di crescere come persone e come credenti.
Non crediamo che la conversione riguardi solo i grandi peccatori e i miscredenti. Anche se forse siamo cri­stiani da tutta la vita, abbiamo sempre bisogno di convertirci. L’«uomo vecchio» che portiamo dentro si op­pone costantemente all’«uomo nuovo» liberato da Cristo. Per questo la conversione a Dio e ai valori evan­gelici del suo regno è fatica continua di tutta l’esistenza, compito silenzioso di ogni giorno. Non saremo mai convertiti abbastanza, perché l’amore cristiano non arriva mai alla fine della tappa; la meta sta sempre più in là. La conversione continua è, quindi, una materia sempre pendente. Abbiamo bisogno di convertirci ogni giorno dal peccato profondo che si annida nel nostro cuore con molteplici manifestazioni: egoismo e super­bia, aggressività e violenza, menzogna e lussuria, indifferenza e classismo, doppiezza, apatia e disperazione... per diventare altruisti e generosi, umili e pacifici, sinceri e casti, servizievoli e accoglienti, solidali con gli altri e testimoni di speranza per tutti.


Vangelo secondo Luca 10,13-16: Nell’ascoltare il Vangelo sul nostro cuore scende un velo di tristezza: Gesù, che è la Verità, ci dice che v’è il rischio che gli uomini possano rigettare il Vangelo e andare incontro a un terribile castigo, e nessuno è escluso da questo rischio. Dinanzi a questa triste eventualità risuona chiara la parola di Gesù: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato”. Gesù ha affidato alla Chiesa il Vangelo, un tesoro inestimabile, la via maestra che conduce alla salvezza, e vuole che tutti gli uomini lo conoscano.


Fino agli inferi precipiterai: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 Luglio 1999): Le immagini con cui la Sacra Scrittura ci presenta l’inferno devono essere rettamente interpretate. Esse indicano la completa frustrazione e vacuità di una vita senza Dio. L’inferno sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia. Così riassume i dati della fede su questo tema il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Morire in peccato mortale senza esserne pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola ‘inferno’» (CEC 1033). La ‘dannazione’ non va perciò attribuita all’iniziativa di Dio, poiché nel suo amore misericordioso egli non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati. In realtà è la creatura che si chiude al suo amore. La ‘dannazione’ consiste proprio nella definitiva lontananza da Dio liberamente scelta dall’uomo e confermata con la morte che sigilla per sempre quell’opzione. La sentenza di Dio ratifica questo stato. 


Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me: Lumen gentium 20: I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi. Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa. Come quindi è permanente l’ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori, cosi è permanente l’ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei Vescovi. Perciò il sacro Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli quali pastori della Chiesa, e che chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato Cristo (cfr. Lc 10,16).


Ebbene, nel giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi. E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! - Mario Galizzi (Vangelo secondo Luca): Come interpretare questi versetti? Non perdendo di vista il contesto né la struttura del brano. Essi, infatti, come dimostrano i versetti 12 e 16, continuano il discorso di Gesù ai suoi discepoli, mentre i versetti 13-15 danno l’esperienza di Gesù. L’esperienza del discepolo deve sempre richiamarsi all’esperienza di Gesù, e per essi, come lo è stato o lo è per lui, può essere un’esperienza di rifiuto.
Ora, se noi interpretiamo questa loro esperienza nella luce di quanto si è letto in 9,51-56, secondo cui Gesù rimprovera Giacomo e Giovanni che vogliono vendicarsi del rifiuto subito, siamo anche nel clima giusto per interpretare questi versetti. Gesù ha appena detto di reagire con mitezza al rifiuto, cercando di fare capire agli abitanti di quella città l’urgenza di convertirsi di fronte all’avvicinarsi del regno di Dio (10,11). Ora dice ai suoi discepoli a quale triste situazione si espongono coloro che li rifiutano: ad essere trattati più severamente di Sodoma (Mt 10,15 aggiunge anche Gomorra) in quel giorno. L’espressione è una frase già fatta per indicare il giudizio. Non è necessario aggiungere questo termine, anche se Matteo lo fa e Luca lo esplicita subito dopo. Si noti però che si dice in quel giorno, cioè non adesso. Al rifiuto non segue immediatamente il castigo, la condanna. Dio è paziente, Dio continua a offrire tempo ai peccatori per convertirsi (Rm 2,4; 2Pt 3,9). Il tempo della storia è il tempo della pazienza di Dio.
E questo vale anche per Corazin, Betsaida, Cafarnao, le tre città situate a nord del lago di Tiberiade, le più evangelizzate da Gesù, dove egli più ha compiuto prodigi, dove più è stato circondato dalle folle. Eppure, la maggioranza degli abitanti di quelle città non l’hanno accolto. Gesù li ha messi di fronte alla possibilità di salvarsi e ora si accorge che corrono il pericolo di condannarsi. Per questo, quale profeta, lancia i suoi «Guai». Non sono «Guai» di condanna, ma, come li abbiamo interpretati in 6,24-26, sono un pressante avvertimento, e non l’ultimo, a ritornare sui propri passi e a riflettere sulla parola ascoltata. È sempre questo il senso che i «Guai» hanno nei profeti (vedi per esempio Is cc. 5.28.29). E questo senso è più esplicito in Matteo dove il contesto presenta Gesù che sta parlando a coloro che lo rifiutano. Qui in Luca le sue parole richiamano ai discepoli la sua esperienza, che certo fu assai dolorosa e colma di tristezza e sofferenza. Gesù soffre di fronte al rifiuto e lo contempleremo lamentarsi su Gerusalemme e piangere (13,34-35; 19,41-44). Qui dice che se tutti quei prodigi si fossero com­piuti a Tiro e Sidone, gli abitanti di quelle città già da lungo tempo si sarebbero seduti coperti di sacco e cenere per fare penitenza. Quando Luca scrive queste parole, può constatare che davvero ciò è avvenuto a Tiro e Sidone, dove c’erano numerose comunità cristiane (At 21,3-4; 27,3).
Il brano si conclude risottolineando le due note, positiva e negativa, di cui si è parlato: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me; chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato». Lasciamo il negativo, guardiamo il positivo: Gesù sente i suoi discepoli intimamente uniti a lui, e uniti al Padre. Tale è per Gesù la dignità dei discepoli.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Il tempo della storia è il tempo della pazienza di Dio.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna. Per il nostro Signore... 

IL PENSIERO DEL GIORNO

5 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15; Cfr. Acclamazione al Vangelo).


Vangelo secondo Luca 10,1-12: Gesù è venuto a portare la pace destinandola a tutti gli uomini. Lo fa intendere anche col numero dei missionari inviati ad annunciare la Parola: secondo i Giudei, i popoli della terra erano settantadue e presumibilmente l’evangelista Luca vuol prefigurare la missione universale alla quale sarà inviata la Chiesa. La missione ha le note della massima sollecitudine svolgendosi «sotto il segno di un’urgenza escatologica: si deve annunziare che il Regno è vicino; non è consentito attardarsi per via negli interminabili saluti caratteristici degli Orientali. È scoccata ormai l’ora della mietitura: tradizionale immagine del “Giorno di Jahvé”, l’intervento definitivo Dio, salvifico e giudiziale al tempo stesso» (V. Fusco).


La messe è abbondante...: Paolo VI (Regina Coeli, 12 aprile 1970): La Chiesa ci ricorda oggi che è problema di capitale importanza e, per certi aspetti, è problema che riguarda tutti. Perché, senza Sacerdoti, e senza Religiosi e Religiose, come può la Chiesa compiere la sua missione? Il Signore ha voluto che la sua parola e la sua redenzione avesse apostoli, ministri, testimoni, che ne diffondessero e ne perpetuassero il felice annuncio. Il Signore ha voluto salvare gli uomini mediante gli uomini. Se viene a mancare questo ministero che cosa sarà del Vangelo, che cosa sarà della salvezza del mondo? Non tutti certo sono chiamati a questo ministero, ma tutti sono interessati a che esso ci sia; e tutti perciò sono obbligati a favorirne la continuazione e la perfezione, almeno pregando il Signore (come Egli stesso ci ha insegnato) perché «mandi operai nella sua messe» (Matth. 9,37) «La messe è molta, Egli ha detto riferendosi all’umanità bisognosa d’essere evangelizzata, ma gli operai sono pochi». Questo è problema gravissimo oggi nella Chiesa: le vocazioni sono poche; il loro numero è assai inferiore al bisogno, mentre il bisogno cresce. La vita moderna non offre facili condizioni per una vocazione; si sa, si vede; mentre essa, con la sua cultura, avrebbe tanto da dare e, con la sua fame di Cristo, avrebbe tanto da ricevere, in ordine a coloro che consacrano totalmente la loro vita al regno di Dio. Bisogna dunque pregare per le vocazioni. Unica attrattiva ch’esse offrono oggi è il sacrificio, cioè l’amore che si dà, la Croce. Bisogna pregare affinché anime generose, giovani specialmente, ne sentano il fascino misterioso e potente.


Pregate dunque...: Pio XI (Lettera Enciclica AD CATHOLICI SACERDOTII): ... quantunque debba sempre tenersi ben ferma la verità che il numero da sé non deve essere la principale preoccupazione di chi lavora per la formazione del clero, tutti però devono sforzarsi che si moltiplichino i validi e strenui operai della vigna del Signore, tanto più che i bisogni morali della società anziché diminuire vanno crescendo. E tra tutti i mezzi per sì nobile scopo, il più facile insieme e il più efficace è anche il più universalmente accessibile a tutti e quindi tutti devono assiduamente usarlo, cioè la preghiera, secondo il comando di Gesù Cristo stesso: “La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi; pregate adunque il Padrone della messe, che mandi operai alla sua messe”. E quale preghiera può essere più gradita al Cuore Santissimo del Redentore? Quale preghiera può sperare d’essere esaudita più prontamente e più abbondantemente di questa, che è sì conforme alle ardenti aspirazioni di quel Cuore divino? “Chiedete, e vi sarà dato”; chiedete dei buoni e santi sacerdoti e il Signore non li negherà alla sua Chiesa, come sempre ne ha concessi attraverso i secoli, anche in tempi che meno sembravano propizi al fiorire di vocazioni sacerdotali, anzi proprio allora in maggior copia, come attesta anche solo l’agiografia cattolica del secolo XIX, così ricca di nomi gloriosi dell’uno e dell’altro clero; fra i quali brillano come astri di prima grandezza quei tre veri giganti di santità, esercitata in tre campi così diversi, che Noi stessi avemmo la consolazione di cingere dell’aureola dei Santi: San Giovanni Maria Vianney, San Giuseppe Benedetto Cottolengo e San Giovanni Bosco.


Pastores dabo vobis 30

La povertà evangelica

Della povertà evangelica i Padri sinodali hanno dato una descrizione quanto mai concisa e profonda, presentandola come «sottomissione di tutti i beni al Bene supremo di Dio e del suo Regno». In realtà, solo chi contempla e vive il mistero di Dio quale unico e sommo Bene, quale vera e definitiva Ricchezza, può capire e realizzare la povertà, che non è certamente disprezzo e rifiuto dei beni materiali, ma è uso grato e cordiale di questi beni ed insieme lieta rinuncia ad essi con grande libertà interiore, ossia in ordine a Dio e ai suoi disegni.
La povertà del sacerdote, in forza della sua configurazione sacramentale a Cristo Capo e Pastore, assume precise connotazioni «pastorali», sulle quali, riprendendo e sviluppando l’insegnamento conciliare, si sono soffermati i Padri sinodali. Scrivono tra l'altro: «I sacerdoti, sull’esempio di Cristo che da ricco come era si è fatto povero per nostro amore, devono considerare i poveri e più deboli come loro affidati in una maniera speciale e devono essere capaci di testimoniare la povertà con una vita semplice e austera, essendo già abituati a rinunciare generosamente alle cose superflue».
È vero che «l’operaio è degno della sua mercede» e che «il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo», ma è altrettanto vero che questo diritto dell’apostolo non può assolutamente confondersi con qualsiasi pretesa di piegare il servizio del Vangelo e della Chiesa ai vantaggi e agli interessi che ne possono derivare. Solo la povertà assicura al sacerdote la sua disponibilità ad essere mandato là dove la sua opera è più utile ed urgente, anche con sacrificio personale. È condizione e premessa indispensabile alla docilità dell'apostolo allo Spirito, che lo rende pronto ad «andare», senza zavorre e senza legami, seguendo solo la volontà del Maestro.
Personalmente inserito nella vita della comunità e responsabile di essa, il sacerdote deve offrire anche la testimonianza di una totale «trasparenza» nell’amministrazione dei beni della comunità stessa, che egli non tratterà mai come fossero un patrimonio proprio, ma come cosa di cui deve rendere conto a Dio e ai fratelli, soprattutto ai poveri. La coscienza poi di appartenere all’unico presbiterio spingerà il sacerdote ad impegnarsi per favorire sia una più equa distribuzione dei beni tra i confratelli, sia un certo uso in comune dei beni.
La libertà interiore, che la povertà evangelica custodisce e alimenta, abilita il prete a stare accanto ai più deboli, a farsi solidale con i loro sforzi per l’instaurazione d’una società più giusta, ad essere più sensibile e più capace di comprensione e di discernimento dei fenomeni riguardanti l’aspetto economico e sociale della vita, a promuovere la scelta preferenziale dei poveri: questa, senza escludere nessuno dall’annuncio e dal dono della salvezza, sa chinarsi sui piccoli, sui peccatori, sugli emarginati di ogni specie, secondo il modello dato da Gesù nello svolgimento del suo ministero profetico e sacerdotale.
Né va dimenticato il significato profetico della povertà sacerdotale, particolarmente urgente nelle società opulente e consumiste: «Il sacerdote veramente povero è di certo un segno concreto della separazione, della rinuncia e non della sottomissione alla tirannia del mondo contemporaneo che ripone ogni sua fiducia nel denaro e nella sicurezza materiale».
Gesù Cristo, che sulla croce conduce a perfezione la sua carità pastorale con un'abissale spogliazione esteriore e interiore, è il modello e la fonte delle virtù di obbedienza, castità e povertà, che il sacerdote è chiamato a vivere come espressione del suo amore pastorale per i fratelli. Secondo quanto Paolo scrive ai cristiani di Filippi, il sacerdote deve avere gli «stessi sentimenti» di Gesù, spogliandosi del proprio «io», per trovare, nella carità obbediente, casta e povera, la via maestra dell’unione con Dio e dell’unità con i fratelli.


Papa Francesco (Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni 2017)

Gesù si affianca al nostro cammino

Dinanzi alle domande che emergono dal cuore dell’uomo e alle sfide che si levano dalla realtà, possiamo provare una sensazione di smarrimento e avvertire un deficit di energie e di speranza. C’è il rischio che la missione cristiana appaia come una mera utopia irrealizzabile o, comunque, una realtà che supera le nostre forze. Ma se contempliamo Gesù Risorto, che cammina accanto ai discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-15), la nostra fiducia può essere ravvivata; in questa scena evangelica, abbiamo una vera e propria “liturgia della strada”, che precede quella della Parola e del Pane spezzato e ci comunica che, in ogni nostro passo, Gesù è accanto a noi! I due discepoli, feriti dallo scandalo della Croce, stanno ritornando a casa percorrendo la via della sconfitta: portano nel cuore una speranza infranta e un sogno che non si è realizzato. In loro la tristezza ha preso il posto della gioia del Vangelo. Che cosa fa Gesù? Non li giudica, percorre la loro stessa strada e, invece di innalzare un muro, apre una nuova breccia. Lentamente trasforma il loro scoraggiamento, fa ardere il loro cuore e apre i loro occhi, annunciando la Parola e spezzando il Pane. Allo stesso modo, il cristiano non porta da solo l’impegno della missione, ma sperimenta, anche nelle fatiche e nelle incomprensioni, «che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario» (Esort. ap. Evangelii gaudium 266).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
**** Il cristiano non porta da solo l’impegno della missione, ma sperimenta, anche nelle fatiche e nelle incomprensioni, «che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui».
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua a effondere su di noi la tua grazia, perché, camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna. Per il nostro Signore...


IL PENSIERO DEL GIORNO

4 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno» (Cfr. Mc 11,25).


Vangelo secondo Matteo (11,25-30): Nel brano evangelico si possono mettere in evidenza almeno tre temi. Il primo è quello dei piccoli, i quali proprio per la loro umiltà riescono a cogliere il mistero del Cristo. Il secondo tema è la rivelazione della divinità di Gesù: il Figlio conosce il Padre con la medesima conoscenza con cui il Padre conosce il Figlio. Il terzo tema è quello del giogo di Gesù che è dolce e sopportabile a differenza di quello imposto dai Farisei, insopportabile perché reso pesante da minuziose norme di fatto impraticabili.


Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra... - L’espressione Signore del cielo e della terra, evoca l’azione creatrice di Dio (Cf. Gen 1,1). Il motivo della lode sta nel fatto che il Padre ha «nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Le cose nascoste «non si riferiscono a ciò che precede; si devono intendere invece dei “misteri del regno” in generale [Mt 13,11], rivelati ai “piccoli”, i discepoli [Cf. Mt 10,42], ma tenuti nascosti ai “sapienti”, i farisei e i loro dottori» (Bibbia di Gerusalemme).
Molti anni dopo Paolo ricorderà queste parole di Gesù ai cristiani di Corinto: «Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1Cor 1,26-29).
... nessuno conosce il Figlio... La rivelazione della mutua conoscenza tra il Padre e il Figlio pone decisamente il brano evangelico in relazione «con alcuni passi della letteratura sapienziale riguardanti la sophia. Solo il Padre conosce il Figlio, come solo Dio la sapienza [Gb 28,12-27; Bar 3,32]. Solo il Figlio conosce il Padre, così come solo la sapienza conosce Dio [Sap 8,4; 9,1-18]. Gesù fa conoscere la rivelazione nascosta, come la sapienza rivela i segreti divini [Sap 9,1-18; 10,10] e invita a prendere il suo giogo su di sé, proprio come la sapienza [Prov 1,20-23; 8,1-36]» (Il Nuovo Testamento, Vangeli e Atti degli Apostoli).
... nessuno conosce il Padre se non il Figlio... Gesù è l’unico rivelatore dei misteri divini, in quanto il Padre ne ha comunicato a lui, il Figlio, la conoscenza intera. Da questa affermazione si evince che Gesù è uguale al Padre nella natura e nella scienza, è Dio come il Padre, di cui è il Figlio Unico.
Venite a me... Gesù nell’offrire ai suoi discepoli il suo giogo dolce fa emergere la «nuova giustizia» evangelica in netta contrapposizione con la giustizia farisaica fatta di leggi e precetti meramente umani (Mt 15,9); una giustizia ipocrita, ma strisciante da sempre in tutte le religioni. Il ristoro che Gesù dona a coloro che sono stanchi e oppressi, in ogni caso, non esime chi si mette seriamente al suo seguito di accogliere, senza tentennamenti, le condizioni che la sequela esige: rinnegare se stessi e portare la croce dietro di lui, ogni giorno, senza infingimenti o accomodamenti: «Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”» (Lc 9,23). È la croce che diventa, per il Cristo come per il suo discepolo, motivo discriminante della vera sapienza, quella sapienza che agli occhi del mondo è considerata sempre stoltezza o scandalo (1Cor 1,17-31). Un carico, la croce di Cristo, che non soverchia le forze umane, non annienta l’uomo nelle sue aspettative, non lo umilia nella sua dignità di creatura, anzi lo esalta, lo promuove, lo avvia, «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2Cor 3,18) ad un traguardo di felicità e di beatitudine eterna. La croce va quindi piantata al centro del cuore e della vita del credente.
Invece, molti, anche cristiani, tendono a porre al centro di tutta la loro vita, spesso disordinata, le loro scelte, non sempre in sintonia con la morale; o avvinti dai loro gusti e programmi, tentano di far ruotare attorno a questo centro anche l’intero messaggio evangelico, accettandolo in parte o corrompendolo o assoggettandolo ai propri capricci; da qui la necessità capricciosa di imporre alla Bibbia, distinguo, precetti o nuove leggi, frutto della tradizione umana; paletti issati come muri di protezione per contenere la devastante e benefica azione esplosiva della Parola di Dio (Cf. Mc 7,8-9).
Gesù è mite e umile di cuore: è la via maestra per tutti i discepoli, è la via dell’annichilimento (Cf. Fil 2,5ss), dell’incarnarsi nel tempo, nella storia, nel quotidiano dei fratelli, non come maestri arroganti o petulanti, ma come servi (Cf. 1Cor 9,22).


Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita - G. B., Mitezza in Schede Bibliche Pastorali, Volume Quinto, Ed. Dehoniane - Anzitutto è doveroso analizzare la beatitudine matteana: «Beati i miti (hóipraéìs), perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Il riferimento al salmo 37,11 [...], la mancanza di questa beatitudine nella versione di Luca, la constatazione che essa costituisce un doppione con la prima beatitudine («Beati i poveri in spirito») inducono a credere che si tratti di un passo redazionale, non privo di legittimazione storica. Matteo ha collocato la mitezza nell’elenco delle condizioni necessarie per poter entrare nel regno dei cieli.
Di grande rilievo è poi il passo di Gal 5,22-23 in cui la bontà e la mitezza sono presentate come frutto dello Spirito. Non siamo dunque di fronte, come nel mondo greco, a comportamenti etici e nobili e virtuosi in cui la persona eccelle, ma al risultato dell’animazione dello Spirito. Essere «buoni» e «miti» è grazia, dono: natu­ralmente grazia che responsabilizza e impegna. Ecco le parole dell’apostolo: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé».
Inoltre 1Cor 13,4 connette così strettamente l’agape con la mitezza da attribuire al dinamismo dell’agape la specificazione della mitezza: «La carità è paziente, è benigna la carità». Si noti che per l’apostolo l’agape non è una virtù tra le altre, ma il principio fontale, il dinamismo soprannaturale che abilita il soggetto ad agire in maniera coerente, nel nostro caso in maniera mansueta.
In questo profondo e vasto orizzonte si devono interpretare le numerose e molteplici esortazioni alla bontà e alla mitezza presenti nel Nuovo Testamento.
Le realtà implicate dello Spirito e dell’agape escludono che sia un discorso puramente moralistico. In Col 3,12 l’autore indica questi comportamenti come doverosi per l’esistenza della comunità cristiana: «Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza» (Cf. anche il passo parallelo di Ef 4,2, che però collega l’esortazione con il motivo della vocazione cristiana). In Gal 6,1 l’apostolo afferma che l’ammonizione fraterna nella chiesa deve avvenire «con dolcezza». Fil 4,5 esorta all’affabilità.
Tra le doti spirituali e morali necessarie ai ministri della comunità, le lettere pastorali elencano anche la benevolenza, la mitezza: «(l’episcopo) sia benevolo e non litigioso» (1Tm 3,3); «Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti» (2Tm 2,25); Timoteo è esortato, come uomo di Dio, a tendere alla mitezza (2Tm 6,11) e Tito a farsi efficace maestro dei credenti perché questi siano mansueti e dimostrino ogni dolcezza con tutti (Tt 3,2).
Gc 1,21 sollecita ad accogliere «con docilità (en praytétì) la parola che è stata seminata» in loro. La stessa lettera afferma che la mitezza e la sapienza superiore sono strettamente connesse (3,13; 3,17).
Ancora una volta emerge che gli autori del Nuovo Testamento restano racchiusi in prospettive puramente moralistiche.
La 1Pt fa obbligo ai domestici di stare sottomessi ai padroni, non solo a quelli miti, ma pure a coloro che sono difficili (2,18). La mitezza poi per lo stesso scritto è preziosa dote dell’anima incorruttibile (3,4). Infine l’autore della 1Pt sollecita i credenti a farsi testimoni autentici della speranza da essi vissuta, ma senza alterigia «con dolcezza» (metà praytètos) (3,15-16).


San Francesco d’Assisi: Benedetto XVI (Angelus, 17 giugno 2007): Otto secoli or sono, difficilmente la città di Assisi avrebbe potuto immaginare il ruolo che la Provvidenza le assegnava, un ruolo che la rende oggi una città così rinomata nel mondo, un vero “luogo dell’anima”. A darle questo carattere fu l’evento che qui accadde, e che le impresse un segno indelebile. Mi riferisco alla conversione del giovane Francesco, che dopo venticinque anni di vita mediocre e sognatrice, improntata alla ricerca di gioie e successi mondani, si aprì alla grazia, rientrò in se stesso e gradualmente riconobbe in Cristo l’ideale della sua vita [...]. Francesco d’Assisi è un grande educatore della nostra fede e della nostra lode. Innamorandosi di Gesù Cristo egli incontrò il volto di Dio-Amore, ne divenne appassionato cantore, come vero “giullare di Dio”. Alla luce delle Beatitudini evangeliche si comprende la mitezza con cui egli seppe vivere i rapporti con gli altri, presentandosi a tutti in umiltà e facendosi testimone e operatore di pace.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** [San Francesco] Innamorandosi di Gesù Cristo egli incontrò il volto di Dio-Amore, ne divenne appassionato cantore, come vero “giullare di Dio”.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che in san Francesco d’Assisi, povero e umile, hai offerto alla tua Chiesa una viva immagine del Cristo, concedi anche a noi di seguire il tuo Figlio nella via del Vangelo e di unirci a te in carità e letizia. Per il nostro Signore Gesù Cristo...


IL PENSIERO DEL GIORNO

3 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45; Cf. Canto al Vangelo).


Vangelo secondo Luca (9,51-56): Se Gesù andrà a Gerusalemme inevitabilmente l’odio dei Farisei si abbatterà su di lui, e lo uccideranno, i discepoli lo sanno e vogliono fermarlo, ma Gesù, come nota l’evangelista Luca, prende la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme. Non sarà l’amore e la benevolenza dei suoi discepoli a fermarlo, e nemmeno l’ostilità dei samaritani, o l’odio dei Farisei, l’obbedienza al Padre e l’urgenza del Vangelo hanno il primato assoluto nella sua vita. Rimproverando lo zelo violento dei discepoli che volevano incenerire il villaggio di samaritani inospitali, Gesù fa intendere a chiare lettere che per la sua Chiesa non ci sono nemici e tanto meno persone da distruggere.

Gesù è diretto a Gerusalemme, la città santa, dove si deve compiere il suo destino di dolore e di gloria. L’espressione “i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto” ricorda anche i giorni della passione, morte e resurrezione. La frase prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, in greco letteralmente suona “egli indurì il volto per andare a Gerusalemme”, un modo di dire semitico (cfr. Ger 21,10; Ez 6,2; 21,2) con cui l’evangelista Luca vuole sottolineare la risolutezza di Gesù nell’affrontare il suo destino di morte che lo attende a Gerusalemme: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50). La stessa espressione la troviamo in Isaia 50,7 quando si sottolinea la missione del Servo sofferente: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso». Il percorso più rapido che dalla Galilea porta a Gerusalemme prevede l’attraversamento della regione dei Samaritani, i quali, sempre molto mal disposti verso i Giudei (cfr. Gv 4,9), si rifiutano di accogliere Gesù. Da qui l’inimmaginabile reazione degli apostoli Giacomo e Giovanni. La richiesta dei «figli del tuono» (Mc 3,17) cavalca l’onda di un messianismo terreno e ricorda 2Re 1,10-12 in cui Elia, per due volte, chiama il fuoco dal cielo per incenerire i suoi nemici. La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto dura: si voltò e li rimproverò. Il verbo che Luca usa è “epitimao” che significa, letteralmente, “vincere con un comando, minacciare”, usato da Gesù negli esorcismi. In questo modo il senso della richiesta e del rimprovero si fanno più chiari. In sostanza, come Satana, Giacomo e Giovanni propongono a Gesù un messianismo trionfalistico che sottende il rifiuto della croce. A questa proposta Gesù si oppone con forza. È lo stesso rimprovero che aveva mosso a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23). Alla luce della proposta dei figli di Zebedeo, l’insegnamento di Gesù suona come monito anche per noi, spesso tanto bellicosi a tal punto da voler incendiare il mondo intero.

Vangelo secondo Luca (9,51-56): Mario Galizzi (Vangelo secondo Luca): Questo episodio è temporalmente staccato dal precedente, ma non tematicamente: i discepoli continuano a non apparire in sintonia con Gesù, in particolare Giovanni, nominato nei due casi (9,49.55). Il motivo del contrasto è dato dalle relazioni con i samaritani, che non vogliono accogliere Gesù. Si noti: non i discepoli, ma Gesù. Alcuni messaggeri l'avevano preceduto per preparare il suo arrivo, più letteralmente: per preparare per lui, forse un posto dove passare la notte, ma è più probabile che dovessero disporre la gente a incontrarsi con Gesù e ad ascoltare il suo messaggio, come apparirà con più chiarezza in 10,1. Ma i samaritani, appena seppero che stava andando verso Gerusalemme, lo rifiutarono. Il contrasto Giudei-Samaritani era davvero insanabile.
Ora, ecco quello che avviene. I discepoli, in particolare Giacomo e Giovanni, si sentono offesi, solidali con Gesù rifiutato. Ma i loro sentimenti non sono quelli di Gesù, la loro reazione è diametralmente opposta.
Quando Gesù inviò i Dodici in missione, perciò anche Giacomo e Giovanni, disse loro: «Se non vi accogliessero, partendo dalla loro città, scuotete la polvere che si è attaccata ai vostri piedi» (9,5), un gesto che mette chi rifiuta di fronte alle proprie responsabilità. Ebbene, Giacomo e Giovanni non ubbidiscono a Gesù, ma si sentono investiti dallo stesso furore di Elia, che fece scendere il fuoco dal cielo sui soldati del re Acazia, che non lo aveva consultato in un momento difficile (2Re 1). Gesù non aveva dato loro questo potere. Essi, invece, lo vogliono, lo chiedono: «Vuoi che diciamo (noi non tu) al fuoco di scendere dal cielo e di distruggerli?» (al­cuni antichi manoscritti aggiungono: come fece anche Elia?).
Gesù non è d'accordo. Il testo dice che li rimproverò. Il commento più bello a questo atteggiamento mite di Gesù si trova in alcuni antichi manoscritti, secondo i quali Gesù rispose loro: «Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell'uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle». Autentico o no questo detto di Gesù, ci offre certamente il suo profondo sentire: Gesù nel momento della prova e del rifiuto si appella sempre alle sue scelte di fondo che guidano la sua missione; egli si sente salvatore, il suo tempo è tempo di salvezza e non di condanna. Per questo, come già ha fatto a Gerasa dove fu rifiutato (8,37) e come ha insegnato ai suoi discepoli (9,5), si avviarono verso un altro villaggio.
Sant'Ambrogio commenta: «Giova di più la clemenza... egli non si adira contro coloro che, senza nessun riguardo, lo respingono. Egli vuole così dimostrare che la virtù perfetta non ha alcun desiderio di vendetta, che non c'è alcun posto per la collera laddove c'è la pienezza della carità».

Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme: Catechismo della Chiesa Cattolica 557: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Con questa decisione, indicava che saliva a Gerusalemme pronto a morire. A tre riprese aveva annunziato la sua passione e la sua risurrezione. Dirigendosi verso Gerusalemme dice: «Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33).

Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi: Catechismo della Chiesa Cattolica 2262: Nel discorso della montagna il Signore richiama il precetto: «Non uccidere» (Mt 5,21); vi aggiunge la proibizione dell’ira, dell’odio, della vendetta. Ancora di più: Cristo chiede al suo discepolo di porgere l’altra guancia, di amare i propri nemici. Egli stesso non si è difeso e ha ingiunto a Pietro di rimettere la spada nel fodero.

La pace: Catechismo della Chiesa Cattolica 2302: Richiamando il comandamento: «Non uccidere» (Mt 5,21), nostro Signore chiede la pace del cuore e denuncia l’immoralità dell’ira omicida e dell’odio. L’ira è un desiderio di vendetta. «Desiderare la vendetta per il male di chi va punito è illecito»; ma è lodevole imporre una riparazione «al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia». Se l’ira si spinge fino al proposito di uccidere il prossimo o di ferirlo in modo brutale, si oppone gravemente alla carità; è un peccato mortale. Il Signore dice: «Chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,22).

L’odio: Catechismo della Chiesa Cattolica 2303: L’odio volontario è contrario alla carità. L’odio del prossimo è un peccato quando l’uomo vuole deliberatamente per lui il male. L’odio del prossimo è un peccato grave quando deliberatamente si desidera per lui un grave danno. «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste...» (Mt 5,44-45).

Si voltò e li rimproverò: Nostra Aetate 2: La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni [non cristiane]. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** L’odio volontario è contrario alla carità.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono continua a effondere su di noi la tua grazia, perché camminando verso i beni da te promessi, diventiamo partecipi della felicità eterna.


IL PENSIERO DEL GIORNO


2 Ottobre 2017


Oggi Gesù ci dice: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

Mt 18,1-5.10: Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?: Gesù risponde che il criterio sono i piccoli! I discepoli devono diventare bambini. Invece di crescere verso l’alto, devono crescere verso il basso, la vera grandezza del discepolo si costruisce sul trono dell’umiltà. Questi piccoli non devono essere disprezzati, in quanto i loro angeli in cielo difendono davanti a Dio la loro causa e chiedono che Egli intervenga a riparare le offese fatte loro.


L’esistenza degli angeli, una verità di fede: Catechismo della Chiesa Cattolica 328.330.336: L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione...  In quanto creature puramente spirituali, essi hanno intelligenza e volontà: sono creature personali e immortali. Superano in perfezione tutte le creature visibili. Lo testimonia il fulgore della loro gloria... Dal suo inizio fino all’ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. «Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita». Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio.


Gli angeli nella vita della Chiesa: Catechismo della Chiesa Cattolica 334-336: Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell’aiuto misterioso e potente degli angeli. Nella liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza (così nell’In paradisum deducant te angeli... – In paradiso ti accompagnino gli angeli – nella liturgia dei defunti, o ancora nell’«Inno dei cherubini» della liturgia bizantina ), e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi). Dal suo inizio fino all’ora della morte la vita umana è circondata dalla loro protezione e dalla loro intercessione. «Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita».  Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio.


Il ministero degli Angeli in favore degli uomini: Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 6 Agosto 1986): Tra i libri del Nuovo Testamento, sono specialmente gli Atti degli apostoli che ci fanno conoscere alcuni fatti che attestano la sollecitudine degli angeli per l’uomo e per la sua salvezza. Così, quando l’angelo di Dio libera gli apostoli dalla prigione (cfr. At 5,18-20) e prima di tutto Pietro, che era minacciato di morte dalla mano di Erode (cfr. At 12,5-10). O quando guida l’attività di Pietro nei riguardi del centurione Cornelio, il primo pagano convertito (cfr. At 10,3-8; 11,12-16), e analogamente l’attività del diacono Filippo lungo la via da Gerusalemme a Gaza (cfr. At 8,26-29). Da questi pochi fatti citati a titolo esemplificativo, si comprende come nella coscienza della Chiesa abbia potuto formarsi la persuasione sul ministero affidato agli Angeli in favore degli uomini. Perciò la Chiesa confessa la sua fede negli angeli custodi, venerandoli nella liturgia con una festa apposita, e raccomandando il ricorso alla loro protezione con una preghiera frequente, come nell’invocazione dell’“Angelo di Dio”. Questa preghiera sembra fare tesoro delle belle parole di san Basilio: “Ogni fedele ha accanto a sé un angelo come tutore e pastore, per portarlo alla vita” (Adversus Eunomium, III,1; si veda anche san Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 11, a. 3).


Il nostro Angelo custode: Mons. Salvatore Gristina, Vescovo (Omelia, 2 Ottobre 2009): La celebrazione odierna onora i Santi Angeli Custodi che il Padre, nella sua misteriosa provvidenza, manda dal cielo a nostra custodia e protezione (cfr. Colletta). Essi hanno il compito di sorreggerci sempre nel cammino della vita. Così il nostro esodo verso la gioia eterna, cioè lo svolgimento della nostra esistenza, come quello del popolo ebraico verso il luogo che Dio gli aveva preparato, è custodito dall’assistenza che i Santi Angeli riservano a ciascuno di noi e all’intera comunità cristiana. Nella prima lettura (Es 23,20-23) sono stati sottolineati gli atteggiamenti con cui dobbiamo onorare i Santi Angeli: rispetto della loro presenza, ascolto della loro voce, docilità alle loro indicazioni. I nostri genitori, i sacerdoti della nostra fanciullezza ci hanno iniziato alla devozione verso l’Angelo Custode che abbiamo tante volte invocato con grande fiducia: “Angelo di Dio, che sei il mio custode: illumina, custodisci, reggi e governa me che ti sono affidato dalla pietà celeste. Amen”. La devozione all’Angelo custode non è qualcosa di puerile. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla degli Angeli e ne sottolinea il rapporto con Cristo e la missione che svolgono nei riguardi della Chiesa e di ogni singolo fedele (cfr. nn. 325-336). Sono particolarmente chiare, al riguardo, due affermazioni: “… la vita della Chiesa beneficia dell’aiuto misterioso e potente degli angeli”; “Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita” (S. Basilio di Cesarea).

Gli angeli ci dicono...: Mons. Cesare Nosiglia, Vescovo (Omelia 2 Ottobre 2012): [...] gli angeli ci dicono che dobbiamo essere umili e docili e fidarci della provvidenza di Dio, se vogliamo veramente avere la speranza di combinare qualcosa di buono e di riuscito. Dio ha cura di ciascuna sua creatura e se ne occupa giorno per giorno: gli angeli ne sono la più viva testimonianza su cui si può contare. Certo, molto dipende dalla nostra buona volontà, dal nostro impegno e determinazione, coraggio e perseveranza, ma il tutto va sempre inserito in una prospettiva più ampia, che vede Dio come protagonista della nostra vita e non solo spettatore. Senza Dio, l’uomo non sa dove andare e alla fine sbaglia sovente strada: gli angeli ci garantiscono che possiamo contare sulla presenza amorevole e dolce, materna e paterna di Dio, che vive accanto a noi e ci guida sulla via del nostro vero bene-essere e bene-avere. È quanto con sicurezza proclama il salmo 90 di questa Messa, Salmo che appartiene a quelli della fiducia e della confidenza che il giusto deve avere verso Dio, suo rifugio e fortezza, liberatore fedele e alla fine custode del tesoro della vita che ci ha donato.


Gli angeli e Cristo - M. Galopin e P. Grelot (Dizionario Teologia Biblica): Il mondo angelico trova posto nel pensiero di Gesù. Gli evangelisti parlano talvolta dei suoi rapporti intimi con gli angeli [Mt 4,11; Lc 22,43]; Gesù menziona gli angeli come esseri reali ed attivi. Pur vegliando sugli uomini, essi vedono la faccia del Padre [Mt 18,10]. La loro vita sfugge alle esigenze cui è soggetta la condizione terrestre [cfr. Mt 22,30 par.]. Benché ignorino la data del giudizio finale, che è un segreto del Padre solo [Mt 24,36 par.], ne saranno gli esecutori [Mt 13,39.49; 24,31]. Fin d’ora essi partecipano alla gioia di Dio quando i peccatori si convertono [Lc 15,10]. Tutti questi elementi sono conformi alla dottrina tradizionale. Gesù inoltre precisa la loro situazione in rapporto al figlio dell’uomo, la figura misteriosa che lo definisce, specialmente nella sua gloria futura: gli angeli lo accompagneranno nel giorno della sua parusia [Mt 25,31]; saliranno e discenderanno su di lui [Gv 1,51], come un tempo sulla scala di Giacobbe [Gen 28,10]; egli li manderà per radunare gli eletti [Mt 24,31par.] e scartare i dannati dal regno [Mt 13,41s]. Fin dal tempo della passione Gesù avrebbe potuto richiedere l’intervento degli angeli che sono al suo servizio [Mt. 26,53]. Il pensiero cristiano primitivo non farà dunque altro che prolungare le parole di Gesù quando affermerà che gli angeli gli sono inferiori. Abbassato al di sotto di essi per la sua incarnazione [Ebr. 2,7], egli non di meno meritava la loro adorazione nella sua qualità di Figlio di Dio [Ebr 1,6s; cfr. Sal 97,7]. Dopo al risurrezione è chiaro che Dio glieli ha sottomessi [Ef 1,20 s), essendo stati creati in lui, da lui e per lui [Col 1,16]. Essi riconoscono attualmente la sua sovranità (cfr. Ap 5,11s; 7,11s), e formeranno la sua scorta nell’ultimo giorno (2Ts 1,7; Ap 14,14-16; cfr. 1Ts 4,16). Così il mondo angelico si subordina a Cristo, di cui ha contemplato il mistero (1 Tm 3,16; cfr. 1Pt. 1,12).


Siamo arrivati al termine. Possiamo mettere in evidenza:
*** Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
Questa parola cosa ti suggerisce?
Ora nel silenzio, nell’intimità del nostro cuore, possiamo interrogarci su quanto il Signore ha voluto suggerirci. Se confidiamo nel suo aiuto, potremo dare una risposta sincera ed esauriente.


Preghiamo con la Chiesa: O Dio, che nella tua misteriosa provvidenza mandi dal cielo i tuoi Angeli a nostra custodia e protezione, fa’ che nel cammino della vita siamo sempre sorretti dal loro aiuto per essere uniti con loro nella gioia eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo...