2 Novembre 2025
 
Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti
 
Is 25,6a.7-9; Salmo Responsoriale Dal Salmo 24 (25); Rm 8,14-23; Mt 25,31-46
 
Colletta
O Dio, gloria dei credenti e vita dei giusti,
che ci hai salvati con la morte
e la risurrezione del tuo Figlio,
sii misericordioso con i tuoi fedeli defunti;
a loro, che hanno creduto nel mistero
della nostra risurrezione,
dona la gioia della beatitudine eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Il mistero della morte - Gaudium et spes 18: In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine.
L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva.
Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona.
Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione vien meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla Rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta un giorno, quando l’onnipotenza e la misericordia del Salvatore restituiranno all’uomo la salvezza perduta per sua colpa. Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo ad aderire a lui con tutto il suo essere, in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, liberando l’uomo dalla morte mediante la sua morte.
Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, dandoci la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio.
22: [...] Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza.
E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.
Tale e così grande è il mistero dell’uomo, questo mistero che la Rivelazione cristiana fa brillare agli occhi dei credenti. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della vita, perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre!.
 
Prima Lettura: Dio sta preparando per Israele un tempo di prosperità, di pace e di benessere e attraverso Israele per tutti i popoli. L’immagine per esprimere tanta gioia è quella di un banchetto nuziale che sarà allestito sul monte Sion, verso cui affluiranno, alla fine dei tempi, tutte le nazioni e i beni della terra. L’annuncio di Isaia è profezia, ma anche un inno di ringraziamento che celebra l’azione provvidenziale del Signore a favore del suo popolo: Dio risiede in Gerusalemme, che per questo è chiamata santa, vive e opera con il suo popolo ed è sempre vigile per venire in suo aiuto. Perché la gioia sia piena, Isaia annunzia anche la fine di quanto si oppone alla felicità, prima di ogni altra cosa, la morte (Cf. Gen 3,19; Ap 7,17; 21,4). Un annuncio che si realizzerà perfettamente nella «pienezza del tempo», quando Dio manderà «il suo Figlio per riscattare coloro che erano sotto la Legge» (Gal 4,4-5).
 
Seconda Lettura: «La vita del cristiano è partecipazione alla vita di Cristo, Figlio di Dio per natura. Poiché anche noi siamo veri figli di Dio, sebbene per adozione, abbiamo diritto a prendere parte alla sua eredità: la vita gloriosa in cielo.
Questa vita divina in noi, iniziata col battesimo per mezzo della rigenerazione nello Spirito Santo, si sviluppa e cresce sotto la guida dello Spirito Santo, che ci rende sempre più conformi all’immagine di Cristo. La nostra filiazione adottiva è fin da ora una realtà - già possediamo le primizie dello Spirito -, ma solo alla fine dei tempi, con la risurrezione gloriosa del corpo, la nostra redenzione attingerà la sua pienezza» (Bibbia di Navarra, Lettera ai Romani, nota 8,14-30).
 
Vangelo
Venite benedetti del Padre mio.
 
Gesù verrà nella sua gloria, alla fine del mondo, come Giudice di tutti gli uomini. Gli uomini saranno giudicati per le opere di misericordia (Is 58,7; Gb 22,6s; Sir 7,32s; ecc.) non per le loro azioni eccezionali (Mt 7,22s).
Gli eletti, i misericordiosi, entreranno beati nel regno di Dio.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 25,31-46
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?
Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
 
Parola del Signore.
 
Il giudizio finale - Felipe F. Ramos (Commento della Bibbia Liturgica): L’intenzione di Gesù nel momento in cui pronunziò questo discorso non era quella di descriverci gli avvenimenti finali in quanto tali e per se stessi. Gesù, come figlio del suo tempo, e partecipe della mentalità del suo tempo, tiene conto dei fatti e se ne serve per inculcare agli uomini la preparazione necessaria per superare felicemente la prova finale. Allo stesso tempo, egli mira a mettere in evidenza il significato centrale della sua persona. Gli uomini saranno giudicati in base al loro atteggiamento di fronte a lui.
Il Figlio dell’uomo si presenta con i suoi angeli che lo accompagnano e lo servono. Nell’Antico Testamento (Zc 14,5) e nell’apocalittica giudaica, Dio si presenta con i suoi santi, cioè con i suoi angeli. Dunque Gesù si presenta nell’atto di compiere in sé le profezie antiche e, allo stesso tempo, con la dignità e l’autorità con cui lo faceva Dio nell’Antico Testamento. Lo stesso trono di gloria su cui si assiderà è il simbolo del suo potere divino. Gli angeli sono ricordati in ragione della loro funzione: riunire davanti al Figlio dell’uomo tutti i popoli, senza stabilire alcuna distinzione fra giudei e gentili, come usavano fare i teologi del tempo di Gesù.
L’assemblea universale dei popoli suppone necessariamente la risurrezione dei morti. I buoni sono messi a destra e i cattivi a sinistra. La destra e la sinistra stanno a indicare proverbialmente la fortuna e la disgrazia; quindi questa disposizione suppone che il giudizio sia già stato compiuto.
Per conseguenza, subito dopo, è pronunziata la sentenza del giudice e sono esposte le ragioni che l’hanno motivata. Il Figlio dell’uomo si rivela come re e invita quelli della destra a entrare in possesso del regno preparato per essi fin dall’inizio del mondo. Questa preparazione, però, non dev’essere intesa come una previa destinazione al regno. I motivi allegati, che giustificano l’accoglienza nel regno del Figlio dell’uomo, sono enumerati subito dopo, e si riducono tutti a opere di carità compiute in favore dei «fratelli più piccoli» di Gesù (v. 40).
I sei modi di manifestare l’amore al prossimo si trovano, quasi con identica corrispondenza, nell’Antico Testamento (Is 58,7; Gb 22,6-7; 31,17.19.21). Questi motivi sono presentati come la caratteristica autentica della vera pietà verso Dio. Nella letteratura giudaica, si trovano motivi molto simili: vestire gli ignudi, ospitare i forestieri o i pellegrini e visitare gli infermi. Gesù, nella motivazione determinante dell’ultima sorte, allude quindi all’insegnamento dell’Antico Testamento e del giudaismo, ma supera l’antico nel senso seguente: le opere di carità ricordate sono una manifestazione del precetto fondamentale dell’amore, e non semplici opere benefiche compiute senza spirito di benevolenza.
D’altra parte, l’insegnamento di Gesù esclude lo spirito di calcolo con cui quelle opere erano compiute nel giudaismo. Dio restava obbligato. Si compivano perché Dio non potesse fare a meno di premiarle. In altre parole, le opere ricordate non erano compiute per Dio, ma contro Dio, per legargli le mani e obbligarlo a premiare i suoi devoti. Un travisamento della vera religione.
La sentenza definitiva è dunque fondata sui motivi di servizio caritativo al prossimo bisognoso. Questo non va contro la predicazione di Gesù sulla necessità della conversione, sulla fede, sui comandamenti, sul precetto dell’amore, sulla purezza del cuore, sull’umiltà, sulla filiazione divina, sulla rinunzia, sulla necessità di portare la croce ...? L’enumerazione che Gesù fa in questa occasione non è esclusiva, ma complementare: vuole mettere in evidenza l’importanza preponderante che ha, per lui, il precetto dell’amore manifestato appunto in queste opere. Non esclude il resto, e anzi, lo suppone.
Le opere di carità ricordate hanno il merito di essere state compiute in onore di Gesù. Tanto quelli di destra come quelli di sinistra restano sorpresi davanti alla dichiarazione del giudice e si rivolgono a lui, esprimendo la loro meraviglia. In questo modo, si espone chiaramente un principio che abbatte molte barriere: le opere compiute per amore sono liberate da ogni genere di limiti che condizioni il loro valore. Sono premiate le opere compiute per amore del prossimo bisognoso.
Gesù si rivolge a tutti indistintamente, dimostrando così che, anche fuori dell’ambito visibile dei suoi discepoli, della sua Chiesa, vi può essere un vero regno e un vero «cristianesimo». La sentenza pronunziata per quelli che si trovano alla sua sinistra sta a indicare la separazione eterna da Cristo e, per conseguenza, dalla vita, senza che le sue parole facciano supporre una predestinazione alla condanna. La loro mancanza di amore, cosa personale, ha determinato la loro destinazione alle pene senza fine. La parole di Gesù parlano della fissazione definitiva della sorte degli uomini in quel momento supremo.
 
Il cristiano dinanzi alla morte - Pierre Grelot (Dizionario di Teologia Biblica): 1. Morire con Cristo. - Cristo, prendendo la nostra natura, non ha soltanto assunto la nostra morte per farsi partecipe della nostra condizione di peccatori. Capo della nuova umanità, nuovo Adamo (1 Cor 15, 45; Rom 5, 14), egli ci conteneva tutti in sé quando è morto sulla croce. Per tale fatto, nella sua morte, «tutti sono morti» in certo modo (2 Cor 5, 14). Tuttavia bisogna che questa morte diventi una realtà effettiva per ciascuno di essi. Questo è il senso del battesimo, la cui efficacia sacramentale ci unisce a Cristo in croce: «battezzati nella morte di Cristo», siamo «sepolti con lui nella morte», «configurati alla sua morte» (Rom 6, 3 ss; Fil 3, 10).
Ormai siamo dei morti, la cui vita è nascosta in Dio con Cristo (Col 3, 3). Morte misteriosa, che è l’aspetto negativo della grazia di salvezza. Infatti, ciò a cui in tal modo moriamo, è tutto l’ordine delle cose per mezzo del quale il regno della morte si manifestava quaggiù: moriamo al peccato (Rom 6, 11), all’uomo vecchio (6, 6), alla carne (1 Piet 3, 18), al Corpo (Rom 6, 6; 8, 10), alla legge (Gal 2, 19), a tutti gli elementi del mondo (Col 2, 20).
2. Dalla morte alla vita. - Questa morte con Cristo è quindi, in realtà, una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato, proprio allora eravamo morti (Col 2, 13; cfr. Apoc 3, 1). Ora siamo dei vivi, «risorti da morte» (Rom 6, 13) e «liberati dalle opere morte» (Ebr 6, 1; 9, 14). Come ha detto Cristo: chi ascolta la sua parola, passa dalla morte alla vita (Gv 5, 24); chi crede in lui, non ha nulla da temere dalla morte: quand’anche fosse morto, vivrà (Gv 11, 25). Tale è la posta della fede.
Viceversa, colui che non crede, morrà nei suoi peccati (Gv 8, 21. 24), il profumo di Cristo diventa per lui odore di morte (2 Cor 2, 16). Il dramma dell’umanità alle prese con la morte si svolge così nella vita di ciascuno; dalla nostra scelta dinanzi a Cristo ed al vangelo dipende per noi la sua conclusione: per gli uni, la vita eterna perché, dice Gesù, «chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte» (Gv 8, 51); per gli altri, l’orrore della «seconda morte» (Apoc 2, 11; 20, 14; 21, 8).
3. Morire ogni giorno. - Tuttavia la nostra unione alla morte di Cristo, realizzata sacramentalmente nel battesimo, dev’essere ancora attualizzata nella nostra vita di tutti i giorni. Questo è il senso dell’ascesi, mediante la quale «mortifichiamo», cioè: «facciamo morire» in noi le opere del corpo (Rom 8, 13), le nostre membra terrene con le loro passioni (Col 3, 5). Questo è pure il senso di tutto ciò che manifesta in noi la potenza della morte naturale; infatti la morte ha mutato senso dopo che Cristo ne ha fatto uno strumento di salvezza. Se l’apostolo di Cristo, nella sua debolezza, appare agli uomini come un morente (2 Cor 6, 9), se è continuamente in pericolo di morte (Fil 1, 20; 2 Cor 1, 9 s; 11, 23), se «muore ogni giorno» (1 Cor 15, 31), ciò non costituisce più un segno di sconfitta: egli porta in sé la mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesù si manifesti pure nel suo corpo; è consegnato alla morte a motivo di Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata nella sua carne mortale; quando la morte compie la sua opera in lui, la vita opera nei fedeli (2 Cor 4, 10 ss). Questa morte quotidiana attualizza quindi quella di Gesù e ne prolunga la fecondità nel suo corpo che è la Chiesa.
4. Dinanzi alla morte corporale. - Nella stessa prospettiva la morte corporale assume per il cristiano un nuovo senso. Non è più soltanto un destino inevitabile al quale ci si rassegna, un decreto divino che si accetta, una condanna in cui si incorre per effetto del peccato. Il cristiano «muore per il Signore» come aveva vissuto per lui (Rom 14, 7 s; cfr. Fil 1, 20). E se muore martire di Cristo, versando il suo sangue in testimonianza, la sua morte è una libagione che ha valore di sacrificio agli occhi di Dio (Fil 2, 17; 1 Tim 4, 6). Questa morte, mediante la quale egli «glorifica Dio» (Gv 21, 19), gli merita la corona di vita (Apoc 2, 10; 12, 11). Da necessità angosciosa essa è quindi diventata oggetto di beatitudine: «Beati coloro che muoiono nel Signore! Si riposino ormai dalle loro fatiche!» (Apoc 14, 13). La morte dei giusti è un ingresso nella pace (Sap 3, 3), nel riposo eterno, nella luce senza fine. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis! La speranza di immortalità e di risurrezione che si faceva strada nel VT ha trovato ora, nel mistero di Cristo, la sua salda base. Infatti, non soltanto l’unione alla sua morte ci fa vivere attualmente di una vita nuova, ma ci dà la sicurezza che «colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la vita ai nostri corpi mortali» (Rom 8, 11). Allora, con la risurrezione, entreremo in un mondo nuovo dove «non ci sarà più morte» (Apoc 21, 4); o meglio, per gli eletti risorti con Cristo, non ci sarà «seconda morte» (Apoc 20, 6; cfr. 2, 11): questa sarà riservata ai reprobi, al demonio, alla morte, all’Ade (Apoc 21, 8; cfr. 20, 10. 14). Perciò, per il cristiano, morire è in definitiva un guadagno, perché Cristo è la sua vita (Fil 1, 21). La condizione presente, che lo lega al suo corpo mortale, è per lui opprimente: preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor 5, 8); ha fretta di indossare la veste di gloria dei risorti, affinché ciò che c’è in lui di mortale sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. 1 Cor 15, 51-53). Desidera andarsene per essere con Cristo (Fil 1, 23).
 
La vita eterna che cos’è? - Spe salvi 10: Abbiamo finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi del cristianesimo; è stato però anche sempre evidente che non discorriamo solo del passato; l’intera riflessione interessa il vivere e morire dell’uomo in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora.
Tuttavia dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi «performativa» – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è ormai soltanto «informazione» che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più recenti.
Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva l’accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la domanda: «Che cosa chiedi alla Chiesa?» Risposta: «La fede». «E che cosa ti dona la fede?» «La vita eterna». Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna». Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: «È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto. L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia». Già prima Ambrogio aveva detto: «Non dev’essere pianta la morte, perché è causa di salvezza ...».
11. Qualunque cosa sant’Ambrogio intendesse dire precisamente con queste parole – è vero che l’eliminazione della morte o anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l’umanità in una condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un beneficio. Ovviamente c’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva. Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità».
Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere.
«C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza» (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti.
 
Preghiera sulla tomba del fratello più giovane - Gregorio Nazianzeno, Oratio in mort. Caesar., 7, 24: O Signore e creatore di ogni cosa, e soprattutto della nostra creta! O Dio degli uomini tuoi, o padre e guida, padrone della vita e della morte, custode e benefattore delle nostre anime! Tu che fai tutto e a suo tempo tutto muti col tuo Verbo creatore come ritieni bene nella profondità della tua saggezza del tuo governo, accogli ora Cesario, primizia del nostro pellegrinaggio a te! Che l’ultimo nato sia stato il primo, lo rimettiamo ai tuoi disegni, da cui tutto è retto; e anche noi accogli a suo tempo, dopo averci guidato in questa carne fino a quando sarà bene; ed accoglici preparati nel tuo timore, e non turbati; fa’ che non ci ritiriamo indietro l’ultimo giorno e a forza veniamo strappati da quaggiù, come quelli che amano il mondo e la carne; ma che, con animo pronto, ci affrettiamo per la vita di lassù, immortale e beata, che è in Cristo Gesù, Signore nostro.
 
Il Santo del Giorno - 2 Novembre 2025: San Vittorino, Vescovo e Martire: San Vittorino, celebre esegeta, fu vescovo nell’Alta Pannonia, precisamente presso Poetavium, poi Pettau, odierna Ptuj in Slovenia. Poche sono le notizie tramandate sul suo conto. I pochi frammenti si devono a casuali riferimenti nelle opere di san Girolamo, Optato di Milevis e Cassiodoro. Da questi emerge che Vittorino, dopo essere stato retore, divenne vescovo di Pettau e scrisse commentari relativi all’Antico e Nuovo Testamento. Girolamo giudicò l’operato del santo vescovo assai qualificante, sebbene gravi l’ipotesi della sua adesione all’eresia del milleranismo che a qual tempo dilagava in quelle zone. Essa sosteneva che Cristo sarebbe ritornato sulla terra per regnarvi mille anni. Vittorino pare essere morto martire della fede durante la violenta persecuzione scoppiata al termine del regno dell’imperatore Diocleziano, verso l’anno 303. Il suo culto sopravvisse ai travagli che nel corso dei secoli colpirono la zona dove esercitò il suo ministero e, per un certo periodo, venne erroneamente indicato come primo vescovo di Poitiers. (Avvenire)
 
Nutriti dal sacramento del tuo Figlio unigenito
che, immolato per noi, è risorto nella gloria,
ti preghiamo umilmente, o Padre, per i tuoi fedeli defunti,
perché, purificati dai misteri pasquali,
partecipino alla gloria della risurrezione futura.
Per Cristo nostro Signore.