1 Dicembre 2025
 
Lunedì della I Settimana di Avvento
 
Is 4,2-6; Salmo Responsoriale Dal Salmo 121 (122); Mt 8,5-11
 
Colletta
Il tuo aiuto, o Padre,
ci renda perseveranti nel bene
in attesa di Cristo tuo Figlio;
quando egli verrà e busserà alla porta,
ci trovi vigilanti nella preghiera,
operosi nella carità fraterna
ed esultanti nella lode.
Egli è Dio, e vive e regna con te
 
Signore, il mio servo è in casa … - Catechismo della Chiesa Cattolica 446 Nella traduzione greca dei libri dell’Antico Testamento, il nome ineffabile sotto il quale Dio si è rivelato a Mosè, YHWH, è reso con Κύριoς («Signore»). Da allora Signore diventa il nome più abituale per indicare la stessa divinità del Dio di Israele. Il Nuovo Testamento utilizza in questo senso forte il titolo di «Signore» per il Padre, ma, ed è questa la novità, anche per Gesù riconosciuto così egli stesso come Dio.  
447 Gesù stesso attribuisce a sé, in maniera velata, tale titolo allorché discute con i farisei sul senso del salmo 110,606 ma anche in modo esplicito rivolgendosi ai suoi Apostoli. Durante la sua vita pubblica i suoi gesti di potenza sulla natura, sulle malattie, sui demoni, sulla morte e sul peccato, manifestavano la sua sovranità divina.
448 Molto spesso, nei Vangeli, alcune persone si rivolgono a Gesù chiamandolo «Signore». Questo titolo esprime il rispetto e la fiducia di coloro che si avvicinano a Gesù e da lui attendono aiuto e guarigione. Pronunciato sotto la mozione dello Spirito Santo, esprime il riconoscimento del mistero divino di Gesù. Nell’incontro con Gesù risorto, diventa espressione di adorazione: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).
Assume allora una connotazione d’amore e d’affetto che resterà peculiare della tradizione cristiana: «È il Signore!» (Gv 21,7).
449 Attribuendo a Gesù il titolo divino di Signore, le prime confessioni di fede della Chiesa affermano, fin dall’inizio, che la potenza, l’onore e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche a Gesù, perché egli è di «natura divina» (Fil 2,6) e perché il Padre ha manifestato questa signoria di Gesù risuscitandolo dai morti ed esaltandolo nella sua gloria.
450 Fin dall’inizio della storia cristiana, l’affermazione della signoria di Gesù sul mondo e sulla storia comporta anche il riconoscimento che l’uomo non deve sottomettere la propria libertà personale, in modo assoluto, ad alcun potere terreno, ma soltanto a Dio Padre e al Signore Gesù Cristo: Cesare non è «il Signore». La Chiesa «crede di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana».
451 La preghiera cristiana è contrassegnata dal titolo «Signore», sia che si tratti dell’invito alla preghiera: «Il Signore sia con voi», sia della conclusione della preghiera: «Per il nostro Signore Gesù Cristo», o anche del grido pieno di fiducia e di speranza: «Maran atha» («Il Signore viene!»), oppure «Marana tha» («Vieni, Signore!») (1Cor 16,22), «Amen, vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).
 
Prima Lettura: In quel giorno, il germoglio del Signore crescerà in onore e gloria e il frutto della terra sarà a magnificenza e ornamento per i superstiti d’Israele: Il germoglio e il frutto della terra designano sia il Messia (Ger 23,5; Is 33,15, Zc 3,8, Zc 6,12), sia il «resto» di Israele paragonato a un albero che rinasce sul suolo di Palestina. L’oracolo del profeta Isaia è un messaggio colmo di speranza: “Dopo aver denunciato la ribellione dell’alleanza e minacciato la catastrofe, il profeta si apre alla speranza: rimarrà un «resto» d’Israele; esso sarà quel germoglio di Iahvé da cui nascerà il nuovo popolo santo” (Messale dell’Assemblea Cristiana, Feriale, ELLEDICI).
 
Vangelo
Molti dall’oriente e dall’occidente verranno nel regno dei cieli.
 
Il racconto della guarigione del servo del centurione romano, ci suggerisce che il Vangelo ha superato gli angusti confini della Palestina, e ha raggiunto il cuore dei pagani: “non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.” (Col 3,11). La Chiesa per un po’ di tempo resterà chiusa nella gabbia del nazionalismo giudaico (At 11,9), poi, a motivo della continua ostilità dei giudei, comprenderà che la Buona Novella doveva essere annunciata a tutti i popoli (Mt 28,19): “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra».” (At 13,46-48). Alla testardaggine d’Israele, popolo disobbediente e ribelle (Rm 10,21), Dio risponde pazientemente con la fedeltà: quando nell’ovile di Cristo saranno entrate tutte quante le genti, allora tutto Israele sarà salvato (Rm 11,25-26). Il Vangelo è luce che illumina tutta l’umanità, la pazienza e la fedeltà di Dio aprono i cuori degli uomini alla pace e alla speranza.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 8,5-11
 
In quel tempo, entrato Gesù in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva:
«Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente». Gli disse: «Verrò e lo guarirò».
Ma il centurione rispose: «Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».
Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: «In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli».
 
Parola del Signore.
 
Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli: la Croce di Cristo ha spalancato le porte del Regno, ma per entrarvi, oltre la grazia di Dio, è fondamentale che l’uomo si impegni fino in fondo ed è necessaria la fede del centurione romano. In un mirabile discorso di Gesù, nel quale preannuncia la fine del mondo e la distruzione del Tempio di Gerusalemme, vengono messi in evidenza tre verbi-imperativi cari agli asceti, ma necessari a tutti i credenti per entrare nel regno dei cieli: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso... Vegliate in ogni momento pregando” (cfr. Lc 21,34-36). State attenti, vegliate, pregate: tre verbi-imperativi che, come frecce acute di un prode (Sal 120,4), colpiscono il nostro cuore. Possiamo pensarli anche come gradini per giungere alla perfetta comunione con l’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8). Colui che inizia il cammino sta attento a non sbagliare: “Stai lontano dall’uomo che ha il potere di uccidere e non sperimenterai il timore della morte. Se l’avvicini, stai attento a non sbagliare perché egli non ti tolga la vita sappi che cammini in mezzo ai lacci e ti muovi sui bastioni della città” (Sir 9,13). Posto attenzione a come costruisce (1Cor 3,10), veglia in ogni momento perché “il Nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (1Pt 5,8). E perché trovi la forza di non ritornare sui suoi passi, e perché sia forte contro gli assalti del Nemico, prega “con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito” (Ef 6,18). È necessario comparire davanti al Figlio dell’uomo (Lc 21,36) per entrare nel regno dei cieli, ma questo incontro va preparato giorno dopo giorno, con grande “rispetto e timore” (Fil 2,12).
 
In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! - Ortensio Da Spinetoli (Matteo): La «grande fede» del centurione richiama inevitabilmente la «poca fede» o incredulità dei giudei. Matteo ribadisce la lezione con un altro logion sulla futura conversione dei gentili e defezione dei connazionali. La venuta dall’Oriente e dall’Occidente attua un oracolo profetico. L’evangelista della chiesa dei giudei non perde di mira la comunità etnico-cristiana che, al momento in cui egli scrive, ha preso il posto della sinagoga. I magi, il centurione, la cananea (15,22-28) segnano i capisaldi del nuovo corso della storia della salvezza che trova nel solenne invio ai gentili la sua conclusione (28,8-19). L’era messianica è simboleggiata nell’immagine di un convito. Sedersi attorno alla stessa mensa significa partecipare alla medesima comunità di beni. Nella grande sala, accanto ai capostipiti del popolo israelitico, prendono posto i pagani rimasti sino allora fuori. Il paradosso di questo rovescio sta nel fatto che i gentili si siedano al banchetto escatologico con i patriarchi giudaici, mentre i discendenti di tali antenati sono messi alla porta. Accanto ad Abramo, il padre dei credenti, si trovano solo coloro che accettano Cristo, non i suoi «figli» carnali. Egli è il capostipite di un popolo nuovo che possiede la sua stessa fede. Di fronte alle conversioni dal paganesimo, il giudaismo si irrigidirà nel suo diniego fino a essere espulso dalla sala conviviale, cioè dal regno messianico. La condizione in cui verranno a trovarsi gli israeliti è la stessa in cui si trovavano i pagani prima di essere chiamati. La luce e le tenebre simboleggiano la verità e l’errore, il bene e il male, Dio e Satana. Anche il richiamo allo stridore dei denti fa pensare a una condizione di particolare disagio.
 
La fede della Chiesa - Jean Duplacy (Fede in Dizionario di Teologia Biblica): 1. La fede pasquale. - Malgrado la loro conoscenza dei misteri del regno (Mt 13,11 par.), i discepoli ebbero difficoltà a mettersi sulla via in cui, nella fede, dovevano seguire il figlio dell’uomo (16,21-23 par.). La fiducia che esclude ogni  preoccupazione ed ogni timore (Lc 12, 22-32 par.) non era loro abituale (Mc 4,35-41; Mt 16,5-12 par.). Quindi, la prova della passione (Mt 26,41) sarà per essi uno scandalo (26,33). Ciò che allora essi vedono richiede molta fede (cfr. Mc 15,31s). La fede dello stesso Pietro, senza sparire - perché Gesù aveva pregato per essa (Lc 22,32) - non ebbe il coraggio di affermarsi (22,54-62 par.). La fede dei discepoli doveva ancora fare un passo decisivo per diventare la fede della Chiesa.
Questo passo fu compiuto quando i discepoli, dopo molte esitazioni in occasione delle apparizioni di Gesù (Mt 28,17; Mc 16,11-14; Lc 24,11), credettero alla sua risurrezione. Testimoni di tutto ciò che Gesù ha detto e fatto (Atti 10, 39), essi lo proclamano «Signore e Cristo», nel quale sono compiute invisibilmente le promesse (2,33-36). Ora la loro fede è capace di giungere «fino al sangue» (cfr. Ebr 12,4). Essi chiamano i loro uditori a condividerla per beneficiare della promessa ottenendo la remissione dei loro peccati (Atti 2,38s; 10,43). La fede della Chiesa è nata.
2. La fede nella parola. - Credere significa innanzitutto accogliere questa predicazione dei testimoni, il vangelo (Atti 15,7; 1Cor 15,2), la parola (Atti 2,41; Rom 10,17; 1Piet 2,8), confessando Gesù come Signore (1Cor 12,3; Rom 10,9; cfr. 1Gv 2,22). Questo messaggio iniziale, trasmesso come una tradizione (1Cor 15,1-3), potrà arricchirsi e precisarsi in un insegnamento (1Tim 4,6; 2Tim 4,1-5): questa parola umana sarà sempre, per la fede, la parola stessa di Dio (1Tess 2, 3). Riceverla, vuol dire per il pagano abbandonare gli idoli e rivolgersi al Dio vivo e vero (1Tess 1,8ss), significa per tutti riconoscere che il Signore Gesù porta a compimento il disegno di Dio (Atti 5,14; 13,27- 37; cfr. 1Gv 2,24). Significa, ricevendo il battesimo, confessare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28,19). Questa fede, come constaterà Paolo, apre all’intelligenza «i tesori di sapienza e di scienza» che sono in Cristo (Col 2,3): la sapienza stessa di Dio rivelata dallo Spirito (1Cor 2), così diversa dalla sapienza umana (1Cor 1,17-31; cfr. Giac 2,1-5; 3,13-18; cfr. Is 29,14) e la conoscenza di Cristo e del suo amore (Fil 3, 8; Ef 3, 19; cfr. 1 Gv 3, 16).
3. La fede e la vita del battezzato. - Condotto dalla fede sino al battesimo e alla imposizione delle mani che lo fanno entrare pienamente nella Chiesa, colui che ha creduto nella parola partecipa all’insegnamento, allo spirito, alla «liturgia» di questa Chiesa (Atti 2,41-46). In essa infatti Dio realizza il suo disegno operando la salvezza di coloro che credono (2,47; 1Cor 1,18): la fede si manifesta nell’obbedienza a questo disegno (Atti 6,7; 2Tess 1,8). Si dispiega nell’attività (1Tess 1,3; Giac 1,21s) di una vita morale fedele alla legge di Cristo (Gal 6,2; Rom 8,2; Giac 1,25; 2,12); agisce per mezzo dell’amore fraterno (Gal 5,6; Giac 2,14-26). Si conserva in una fedeltà capace di affrontare la morte sull’esempio di Gesù (Ebr 12; Atti 7,55-60), in una fiducia assoluta in Colui «nel quale ha creduto» (2Tm 1,12; 4,17s). Fede nella parola, obbedienza nella fiducia, questa è la fede della Chiesa, che separa coloro i quali si perdono - l’eretico, per esempio (Tito 3,10) - da coloro che sono salvati (2Tess 1,3-10; 1Piet 2,7s; Mc 16,16).
 
La fede è capace di indurre uno a preferire la perdita della vita che si vede, per una vita che non si vede - Agostino (Sermo Guelferb. 28, 2): Quant’è grande, quant’è meravigliosa la fede! È cosa grande la fede, ma dov’è? Vediamo a vicenda le nostre facce, la nostra figura, i nostri vestiti, distinguiamo anche con l’orecchio le nostre voci e parole; ma dov’è questa fede di cui sto parlando? Ecco, nessuno la vede, eppure questa fede, che nessuno vede qui nella casa di Dio, ha fatto venire tutta questa folla. È grande, dunque, la fede, come dice anche il Signore nel Vangelo: “Ti sia fatto secondo la tua fede”. E poi lo stesso Signore nostro Dio, lodando la fede di certuni dice: “Non bo trovato tanta fede in Israele”. Non fa meraviglia, quindi, se per la fede, che non si vede, venga disprezzata la vita, che si vede, perché si possa conquistare una vita che non si vede.
 
Il Santo del Giorno - 1 Dicembre 2025 -  San Charles de Foucauld - l’universalità di un amore che ci rende sorelle e fratelli: La testimonianza cristiana è per sua natura universale: il messaggio del Risorto è portatore di salvezza per l’intera creazione e la visione offerta dall’Apocalisse ci ricorda che tutti i popoli si ritroveranno nella Gerusalemme terrestre. Questa è la radice più viva e forte del principio di fratellanza che lega donne e uomini di ogni luogo e di ogni epoca.
Lo stesso principio guida per san Charles de Foucauld, che si presentava proprio come “fratello universale” a quanti incontrava nel Sahara tra Algeria e Marocco, dove lui aveva stabilito la sua dimora. La scelta della fraternità per de Foucauld fu l’ultima tappa di un cammino esistenziale articolato e complesso.
Nato a Strasburgo il 15 settembre 1858, in gioventù aveva vissuto un’esistenza senza un credo, gettandosi poi in una fallimentare carriera militare. Congedato con disonore, si diede alle esplorazioni geografiche in Marocco, arrivando a guadagnarsi una medaglia d’oro conferitagli dalla Società di Geografia di Parigi. Al rientro in patria visse una nuova esperienza di ricerca: l’oggetto della sua “esplorazione” fu Dio. Fu grazie al confessore della cugina l’abbé Henri Huvelin, che nel 1886 trovò ciò che cercava e da quel giorno decise di dedicarsi solo a Dio. Entrò quindi tra i monaci trappisti, ma dopo alcuni anni lasciò la comunità e si recò in Terra Santa. Ordinato prete nel 1901, nel 1905 si stabilì in Africa, nel deserto, da apostolo tra i Tuareg, accogliendo chiunque passasse da lì. Morì nel 1916, beato dal 2005, è santo dal 22 maggio 2022. (Avvenire)
 
La partecipazione a questo sacramento,
che a noi pellegrini sulla terra
rivela il senso cristiano della vita,
ci sostenga, o Signore, nel nostro cammino
e ci guidi ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.
 
 30 Novembre  2025
 
I Domenica di Avvento
 
Is 2,1-5; Salmo Responsoriale Dal Salmo 121 (122); Rm 13,11-14a; Mt 24,37-44
 
Colletta
O Dio, che per radunare tutti i popoli nel tuo regno
hai mandato il tuo Figlio nella nostra carne,
donaci uno spirito vigilante,
perché, camminando sulle tue vie di pace,
possiamo andare incontro al Signore
quando verrà nella gloria.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
EDUCAT - La parusia [1175] La Chiesa delle origini crede che il Signore Gesù, morto e risorto, ha aperto una storia di salvezza universale, cosmica. Il regno di Dio è impersonato in lui. Attendere il Regno significa attendere la “Parusia” del Signore. Con questa parola, usata comunemente per indicare la visita ufficiale di un sovrano in qualche città, i credenti designano la venuta pubblica e manifesta del Cristo glorioso. Non si tratta di un ritorno, quasi che adesso sia assente, ma del compimento e della manifestazione suprema di quella presenza che ha avuto inizio con la sua umile vicenda terrena e che continua oggi nascosta nel mistero dell’eucaristia, della Chiesa, della carità e dei poveri. La parusia è la meta della storia. Porterà la perfezione totale dell’uomo e del mondo. Dio infatti ha voluto «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10), «per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose» (Col 1,20). La nostra risurrezione è prolungamento della sua. Significativamente nei primi secoli le assemblee cristiane preferivano pregare rivolte a oriente, da dove sorgerà il sole che inaugurerà il giorno eterno. La stessa fede viene professata ai nostri giorni dal concilio Vaticano II: «Il Signore è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di tutti i cuori, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana».
[1176] Per mezzo di Cristo l’umanità viene ricondotta «al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,18). Il Padre è origine prima e termine ultimo: crea, santifica, glorifica e attrae a sé attraverso il Figlio, che eternamente è rivolto a lui nello Spirito. Il suo disegno si attua in tutto il corso della storia: creazione, diffusione dei popoli, elezione di Israele, inaugurazione del regno in Cristo, espansione di esso mediante la Chiesa in mezzo alle nazioni della terra, fino a quando la parusia del Signore Gesù coronerà queste opere meravigliose in una grande pasqua cosmica. Allora la famiglia umana, dopo tanto faticoso peregrinare, entrerà nel riposo di Dio e Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28).
[1177] La presenza nel mondo del Figlio di Dio fatto uomo, inaugurata con l’incarnazione redentrice, culminerà con la parusia, la venuta gloriosa che porterà a compimento la storia in una pasqua cosmica, in cui i morti risusciteranno e il bene trionferà definitivamente sul male.
 
Prima Lettura: Nel momento in cui il profeta Isaia pronuncia le parole ricordate dalla prima lettura, il Tempio di Gerusalemme è ancora in piedi, ma l’intima cerchia dei discepoli fedeli, ai quali Isaia si rivolge, sa che il ruolo di questo Tempio è finito e che sarà distrutto. Pur essendo un tempo di crisi, Isaia preconizza per il popolo eletto, e per l’umanità intera, un tempo di pace: il Tempio di Dio accoglierà molti popoli ai quali verrà offerto il dono della salvezza e della pace. È un oracolo ripreso implicitamente da Gesù quando afferma alla Samaritana che la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22) e da Luca quando afferma che nel nome di Gesù «saranno predicati a tutti popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (Lc 24,47). Anche l’invito venite, camminiamo nella luce del Signore sarà un tema molto caro agli autori neotestamentari.
 
Seconda Lettura: Poiché il giorno è vicino, san Paolo invita i cristiani a gettare via le opere delle tenebre (orge, ubriachezze, lussurie, impurità, litigi, gelosie ..., una lista di peccati che rappresentano il “sonno della coscienza”), e a vestire le armi della luce: amore, carità, pazienza, temperanza, gioia …
L’Apostolo, in questo brano, sviluppa la nota antitesi luce-tenebre. Da un lato c’è la luce, con le sue opere di luce, dall’altra parte c’è il buio, simbolo del male, con le sue opere tenebrose. Inoltre, san Paolo invita i cristiani a rivestirsi di Cristo e a non lasciarsi prendere dai desideri della carne (Rom 13,14). Rivestirsi di Cristo significa vivere in comunione con lui, abbandonarsi a lui ed esporsi ai raggi benefici della luce divina.
 
Vangelo
Vegliate, per essere pronti al suo arrivo.
 
Con il brano evangelico di questa I Domenica di Avvento ha inizio lo sviluppo del tema della vigilanza che si specificherà nelle parabole del servo fidato e prudente (24,45-51), delle dieci vergini (25,1-13) e dei talenti (25,13-30). Di fronte alla certezza del giudizio divino (24,30; 25,31ss) e all’incertezza del tempo (24,44; 25,13; 1Ts 5,1-6) una sola esortazione è possibile: Vegliate! (25,13; 24,42; Lc 21,34-36).
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 24,37-44
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo.
Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Parola del Signore.

Come ai tempi di Noè - Siamo nel cosiddetto discorso escatologico di Gesù, occasionato dalla domanda di uno dei discepoli: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo» (Mt 24,3).
La prima parte della domanda si riferisce alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Nella risposta, Gesù si esprime in toni apocalittici, non facili da intendere o interpretare. È ben messo in evidenza il senso dell’attesa, con un invito alla vigilanza dinanzi ad un evento certo, la venuta del Signore, le cui modalità e i tempi restano oscuri, avvolti nel mistero.
Per accentuare il bisogno della vigilanza, Gesù aveva raccontato ai suoi discepoli la parabola del fico (Mt 24,32-36). Ora, per maggiore incisività, ricorda il diluvio il quale, ai tempi di Noè, travolse uomini, donne e bambini poiché la loro malvagità era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. Come il diluvio (Cf. Gen 6-9), la venuta del Figlio dell’uomo sarà inaspettata e sorprenderà coloro che non si saranno preparati. Per i discepoli sarebbe assai pericolosa qualsiasi distrazione. Nel modo più assoluto non bisogna imitare la stoltezza dei contemporanei di Noè sorpresi e travolti dal giudizio di Dio nella loro cieca follia (Cf. Mt 24,37-39).
... come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano... Nel giudizio negativo di Gesù, non viene condannato il mangiare o il bere (bisogni primari del genere umano) o il matrimonio, ma l’insipienza di quegli uomini che non seppero tenere in alta considerazione altri valori (la comunione con Dio, la salvezza ...) per i quali valeva la pena occuparsi al pari di quelli materiali. Drogati dal soddisfare unicamente i loro primari bisogni non si accorsero che accanto alla storia umana c’era una storia parallela, quella di Dio, che doveva essere accolta anche con il digiuno, la sobrietà, la penitenza e la temperanza.
... due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via ... Nel giorno del giudizio di Dio non vi sarà alcuna discriminazione: chi sarà vigilante nell’attesa verrà portato via, cioè sarà accolto nel regno; il secondo, che non è pronto ad accogliere il Figlio dell’uomo, sarà lasciato, cioè sarà abbandonato alla sua sorte di morte e di solitudine. In situazioni apparentemente identiche si compie il discernimento di Dio e la divisione degli uomini in base al giudizio divino.
Gli uomini, quando verrà il Figlio dell’uomo, saranno impegnati nelle loro attività di ogni giorno:  la venuta del Signore «irrompe nel quotidiano. Questo ci dice che le azioni di tutti i giorni, quelle che si ritengono le più comuni, e al limite insignificanti, acquistano un senso in quanto momenti di un cammino orientato all’avvento del Signore» (Adrian Schenker - Rosario Scognamiglio).
Essere vigilanti non significa darsi all’ozio, ma semplicemente non farsi prendere la mano dalla carriera, dal successo, dal denaro per dare spazio alle cose di Dio e a quelle dello spirito.
Le occupazioni, che spesso diventano preoccupazioni, a lungo andare, appesantendo il cuore, fanno sprofondare l’uomo in un cupo sonno colpevole, il quale, in questo stato confusionale, non sentendo i passi di Dio nella sua vita, si avvia inesorabilmente verso un destino di morte e di distruzione.
... se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro ... L’immagine del Figlio dell’uomo paragonato a un ladro notturno che entra in casa per rubare rende ancora più efficace il tema della vigilanza continua.
L’immagine del ladro è usata frequentemente nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù (Cf. 1Ts 5,2; 2Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15). Il padrone di casa che non vigila potrebbe perdere tutti i suoi beni, così il cristiano addormentato può perdere tutto se stesso all’appuntamento supremo.
In contrasto «con l’apocalittica giudaica, che si prefiggeva di calcolare in anticipo il giorno del giudizio, Gesù ne afferma il carattere sconosciuto e inaspettato e perciò raccomanda la vigilanza ... L’attesa per la venuta improvvisa del Signore non costituisce per il credente un motivo di ansia o di paura. L’essenziale è esser trovati vigilanti e pronti per accogliere il Salvatore, senza lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni e dagli interessi mondani, che sono cose secondarie e contingenti» (A. Poppi).
In un’ottica tutta cristiana, la repentinità della venuta del Figlio dell’uomo ha un ruolo importante e decisivo nella vita del cristiano tanto da animarla profondamente anche negli impegni più banali.
Infatti a nutrire la vigilanza saranno le virtù teologali tanto necessarie al discepolo per conquistare il regno: la speranza certa della venuta di Gesù; la fede nella indefettibilità della parola del Maestro; la carità che bruciando il cuore lo sospinge a cercare le «cose di lassù» (Col 3,2).
 
Giuseppe Barbaglio (Parusia Schede Bibliche Pastorali) - Avvento: Giorno del nostro incontro con il Signore: Diversamente dalla tradizione apocalittica giudaica, preoccupata degli aspetti cosmici della realtà finale, l’apostolo Paolo concentra la sua attenzione sul rapporto personale tra Cristo e il cristiano. Si potrebbe dire che interpreta in chiave interpersonale la fede escatologica: decisivo sarà il nostro incontro con il Signore.
Esso significa, innanzitutto, la nostra definitiva e totale redenzione.
Nell’ultimo giorno Cristo verrà come salvatore, per porre il sigillo alla sua azione salvifica su quanti hanno creduto e sperato (Lc. 21,28; Ef. 4,30).
L’incontro sarà trasformante per noi: il Signore ci assimilerà a sé; l’immagine di Dio splenderà dentro di noi: «Carissimi, ora siamo figli di Dio, e non è ancora manifesto quello che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è» (1Gv. 3,2).
Il processo di trasformazione è già in corso al presente.
L’apostolo Paolo ci dice che sotto l’azione del Signore veniamo cambiati nella immagine della sua gloria divina (2Cor. 3,18). La fine segnerà la conclusione di questa assimilazione.
La stessa tensione tra ciò che possediamo già e quello che speriamo di ricevere alla fine appare anche per la nostra figliolanza divina. Già siamo figli di Dio, ma non è ancora stato rivelato quello che saremo, ci dice san Giovanni (1Gv. 3,2).
Nello Spirito santo possiamo dire con verità a Dio: «Abba! Padre» (Rom. 8,15; Gal. 4,6).
Siamo figli, ma la piena rivelazione di questo nostro essere sarà fatta nel giorno del Signore, quando l’eredità di figli ci sarà donata: «E se figli, anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati» (Rom. 8,17).
I redenti, gli assimilati, i figli saranno riuniti attorno a Cristo nella sua venuta finale. Saranno vicini a Lui. Gli compariranno davanti. Andranno incontro a Lui che viene. Il tempo della lontananza e dell’assenza è passato.
Qualche cenno si trova nel discorso apocalittico riportato dai sinottici: «E invierà i suoi angeli con tromba sonante, e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli» (Mt. 24,31).
Ma soprattutto nelle lettere paoline il giorno del Signore e la sua venuta gloriosa appaiono nella luce di un incontro personale tra Cristo e i suoi.
L’immagine suggestiva è l’uscita processionale dei cittadini incontro all’imperatore che viene a visitare la città: «E quindi noi, i vivi, i rimasti, saremo rapiti insieme con loro tra nuvole, incontro al Signore nell’aria» (1Tess. 4,17).
La conclusione dell’incontro consiste nello stare per sempre con il Signore: «E così saremo sempre con il Signore!» (1Tess. 4,17).
Questa è la formula riassuntiva della dottrina paolina riguardante le realtà ultime.
La conclusione dell’esistenza cristiana sta nell’unione indistruttibile con il Signore, nell’eterna comunione di vita con Cristo (1Tess. 5,10). Davanti a questa prospettiva l’apostolo brucia dal desiderio di morire per raggiungere il Signore ed essere insieme con Cristo (Fil. 1,23), e di abitare presso il Signore (2Cor. 5,8).
Il destino ultimo del cristiano consiste nell’inalienabile comunione con il suo Signore. Senza l’angustia della possibilità della rottura.
Nel pacifico e sereno possesso di Cristo. Nel clima di un’intima familia­rità e di una gioia pura, espresse dall’immagine della partecipazione al banchetto celeste, di cui quello eucaristico è segno: «Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt. 26,29).
 
Giuseppe Rocca (Seguendo Gesù con Matteo) - Sempre pronti all’incontro con Gesù che viene: Come il lettore avrà notato, la liturgia di oggi, prima domenica di Avvento, nella lettura evangelica ci presenta lo stesso tema che abbiamo incontrato nella penultima domenica dell’anno C appena lasciato: il nostro incontro con Gesù, quando ritornerà alla fine della storia. Allora era nella versione di Luca, oggi invece è nella versione di Matteo, l’evangelista che seguiremo durante tutto quest’anno. Questo argomento, ogni anno, all’inizio ci viene presentato per formulare i buoni propositi che ci devono ispirare lungo il cammino ed invece, alla fine, per esaminarci fino a che punto siamo stati coerenti con tali propositi.
Si potrà anche notare che lo stesso argomento, nei due evangelisti, ci viene presentato con due sfumature diverse. L’anno passato, in Luca, il discorso sembrava rivolto particolarmente a coloro i quali, presi da un’attesa febbrile del ritorno di Gesù, ritenuto imminente, trascuravano il dovere del lavoro quotidiano. Oggi invece, in Matteo, sembra rivolgersi a tutte quelle persone le quali o hanno perduto la fede, e quindi non l’attendono più, oppure, pur credendo ancora in lui, l’attendono con una fede debole, addormentata, priva di un serio impegno.
Allora noi comprendiamo l’insegnamento del Vangelo di oggi. Esso vuole dirci due cose fondamentali: prima di tutto assicurarci che il Signore verrà e lo vuole ricordare a tutti, anche a quelli che per caso si fossero smarriti. Ed oggi purtroppo sono tanti i cristiani che non credono più nel ritorno di Gesù, o per lo meno, non credono più con quella fede viva che Gesù si aspetta.
Il Signore verrà, ritornerà immancabilmente. Di conseguenza ecco il secondo punto: il dovere della vigilanza e di essere sempre preparati, perché, se è vero che Gesù verrà (e potrebbe venire da un momento all’altro) la logica vuole che noi prendiamo la nostra vocazione cristiana molto seriamente, evitando la leggerezza e la superficialità, senza rimandare al domani quello che potremmo fare oggi.
Adesso viene da chiederci: come fare per essere sempre preparati a questo incontro con Gesù? La liturgia di oggi ci risponde con quel bellissimo brano della lettera di san Paolo ai Romani che abbiamo appena ascoltata prima del Vangelo: «È ormai tempo di svegliarci dal sonno ... La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13, 11-14).
La notte, qui, sta ad indicare la mentalità del mondo pagano, caratterizzata dall’errore, dall’ignoranza di Cristo, dall’incoscienza e dalla schiavitù del peccato. L’apostolo usa l’immagine della notte perché è di notte che ci si abbandona più facilmente alle dissolutezze.
Il giorno, invece, sta ad indicare Gesù. Gesù è il giorno perché è la pienezza della luce, della verità e dell’amore. Gesù è venuto a donarci il vero senso della vita, la vera gioia, la vera libertà.
I cristiani, ai quali si rivolge san Paolo, dovrebbero aver lasciato dietro le spalle una volta per sempre il mondo del peccato, dovrebbero aver tagliato definitivamente con tutte le radici del peccato. Ormai essi sono nel giorno e dovrebbero vivere quindi come si conviene nel giorno. Ora nel giorno non si dorme, nel giorno si lavora, si affrontano le difficoltà e si cammina per arrivare alla meta.
Ebbene la stessa cosa dovrebbe avvenire anche per noi. Forse noi non dobbiamo lasciare dietro le spalle una vita di peccato, tuttavia queste parole di san Paolo dovrebbero risuonare anche in noi come un appello ad abbandonare ogni forma di mediocrità, di compromessi, di mezze misure, di pigrizia spirituale, in quanto non si addicono in alcun modo al tempo in cui noi ci troviamo. Vivendo nel tempo di Gesù, noi dovremmo tagliare con tutti quei residui di peccato che portiamo dentro di noi e rivestirci di lui, secondo la bellissima espressione di san Paolo, che racchiude tutto un programma di vita; dovremmo sforzarci giorno per giorno di crescere in Gesù, di assimilare i suoi sentimenti, di vivere una vita tutta quanta ispirata e permeata dell’amore che lui ci ha insegnato. E questa la grazia che la liturgia di oggi ci invita a chiedere a Gesù nella santa comunione.
 
Nell’ora che non immaginate - Vivere nell’attesa - Anonimo (Opera incompleta su Matteo, omelia 51): Perché la data della morte ci è celata? Chiaramente questo ci viene fatto, affinché facciamo sempre del bene, visto che possiamo aspettarci di morire in ogni momento. La data del secondo avvento di Cristo è sottratta al mondo per lo stesso motivo, cioè affinché ogni generazione viva nell’ attesa del ritorno di Cristo. Per questo, quando i suoi discepoli gli chiesero: Signore, restituirai il regno ad Israele in questo tempo?, Gesù rispose: Non vi compete di conoscere i tempi e le stagioni che il Padre ha stabilito con la sua autorità (At 1, 6-7). Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Il padrone di casa rappresenta l’anima umana, il ladro è il diavolo, la casa è il corpo, le porte sono la bocca e le orecchie, e le finestre sono gli occhi. Come il ladro che riesce a entrare attraverso le porte e le finestre per saccheggiare il padrone di casa, così anche il diavolo trova facile accesso all’ anima dell’uomo attraverso la bocca, le orecchie e gli occhi per farlo prigioniero. [...] Se dunque vuoi essere sicuro, metti un catenaccio alla tua porta, cioè metti la legge del timore di Dio nella tua bocca.
 
Il Santo del Giorno - 30 Novembre 2025 - Sant’Andrea, Apostolo: Andrea, dal bel nome greco (Andreas = Virile), appare un uomo generoso, pronto, aperto, entusiasta. Era figlio di Giona di Betsaida (Mt 16,17), fratello minore di Pietro. Fu discepolo di Giovanni Battista, presso il quale conobbe l’apostolo Giovanni, e con lui seguì per primo Gesù, al quale condusse il fratello Pietro (Gv 1,35-42). I suoi interventi nel gruppo degli apostoli sono pochi ma significativi. Davanti alla folla affamata, Andrea indica a Gesù un fanciullo provvisto di cinque pani d’orzo e di due pesci (Gv 6,9), quasi per invitarlo a rinnovare dei prodigi. Alla scuola di Giovanni Battista, Andrea conobbe l’essenismo e fu fortemente colpito dalla speranza messianica: è lui, infatti, che pose la domanda alla quale Cristo rispose con il suo discorso escatologico (Mc 13,3-37). Infine, Andrea si è dimostrato particolarmente aperto di fronte al problema missionario: infatti, assieme a Filippo, e nelle forme prescritte dal giudaismo, si fece garante delle buone disposizioni dei pagani che volevano avvicinare Gesù (Gv 12,20-22). Alcune tradizioni, che non possiamo controllare, riferiscono che Andrea svolse il suo ministero apostolico in Grecia e in Asia minore. Secondo queste tradizioni, egli morì martire a Patrasso, sopra una croce formata ad X, detta appunto «croce di sant’Andrea». (Fonte: www.maranatha.it)
 
La partecipazione a questo sacramento,
che a noi pellegrini sulla terra
rivela il senso cristiano della vita,
ci sostenga, o Signore, nel nostro cammino
e ci guidi ai beni eterni.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
29 Novembre 2025
 
Sabato XXXIV Settimana T. O.
 
Dn 7,15-27; Salmo Cant. Dn 3,82-87; Lc 21,34-36

 Colletta
Ridesta, o Signore, la volontà dei tuoi fedeli,
perché, collaborando con impegno alla tua opera di salvezza,
ottengano in misura sempre più abbondante
i doni della tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Cooperazione alla redenzione - Lumen gentium 61. La beata Vergine, predestinata fino dall’eternità, all’interno del disegno d’incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio, per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra l’alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, coll’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia.
Funzione salvifica subordinata 62. E questa maternità di Maria nell’economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell’Annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti anche dopo la sua assunzione in cielo non ha interrotto questa funzione salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata. Per questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, Mediatrice. Ciò però va inteso in modo che nulla sia detratto o aggiunto alla dignità e alla efficacia di Cristo, unico Mediatore .
Nessuna creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo incarnato e redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e come l’unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l’unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata da un’unica fonte. La Chiesa non dubita di riconoscere questa funzione subordinata a Maria, non cessa di farne l’esperienza e di raccomandarla al cuore dei fedeli, perché, sostenuti da questa materna protezione, aderiscano più intimamente al Mediatore e Salvatore.
 
I Lettura: La quarta bestia o il quarto regno raffigura la triste figura di Antioco IV persecutore del popolo d’Israele. Ai “santi” d’Israele sotto il giogo della persecuzione, Daniele rivolge una parola di speranza, chiede loro di resistere perché il tempo della prova sarà breve, durerà un tempo, tempi e metà di un tempo.
Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno.
Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno.
Il potere è di Dio non degli uomini, egli è il signore della storia e alla sua potenza nessuno può opporsi e resistere.
 
Vangelo
Vegliate, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere.
 
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo: con queste parole Gesù vuole inculcare nei credenti un atteggiamento di vigile responsabilità, aliena dal fanatismo apocalittico: il cristiano non progetta il futuro del mondo almanaccando su sedicenti profezie o appellandosi a fantastici calendari. Il credente, in attesa della venuta del Figlio dell’uomo, getta via le opere delle tenebre e indossa le armi della luce. Si comporta onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Si riveste invece del Signore Gesù Cristo e non si lascia prendere dai desideri della carne (cfr. Rm 13,12-14). In altre parole la tensione escatologica della comunità cristiana, che attende il Signore, non è una fuga dagli impegni terreni, ma un costruire giorno dopo giorno la sua casa eterna, e quella del mondo, nella situazione presente.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 21,34-36
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
 
Parola del Signore.
 
Carlo Ghidelli (Luca): 34-36: State bene attenti che i vostri cuori...: anche la «piccola apocalisse» (17,22-37) conteneva un forte, martellante invito alla vigilanza; qui, oltre al pericolo di essere trovati impreparati, si sottolinea quello di lasciarsi travolgere nella crapula, nella ubriachezza e nelle preoccupazioni della vita (cfr 8,14). Dato che questi vv., praticamente, non hanno paralleli metteremo in evidenza il loro carattere squisitamente lucano.
- State bene attenti: è un motivo che ricorre più volte in questi vv., ma anche altrove (cfr 12,1; 17,3). Questa vigilanza implica esame critico del tempo nel quale si vive, presenza critica nel tessuto sociale nel quale si opera, discernimento critico delle proposte di salvezza che vengono da altre sponde.
- Vi è, poi, il richiamo alla rinuncia: per prepararsi all’incontro con il Signore occorre tenersi in un atteggiamento di purezza interiore ed esteriore, senza indulgere alle seduzioni del Maligno e del mondo.
- Troviamo ancora il binomio vegliate e pregate (v. 36) che sottende un duplice tema caro a Lc (cfr 18,1): la vigilanza permetterà di trovare il tempo per la preghiera, d’altro canto l’assiduità alla preghiera ci tiene sempre più vigili.
- Vi è, infine, l’accenno alla forza necessaria per sfuggire a tutto quello che sta per accadere (è detto, implicitamente, che essa è dono di Dio), ma anche e soprattutto per comparire (oppure: per stare sicuri) dinanzi al Figlio dell’uomo. È dunque evidente il carattere parenetico di questi ultimi vv. A questo proposito B. Rigaux scrive giustamente: « Qui la parenesi è diretta, escatologica e messianica ».
 
Vegliate in ogni momento pregando - Bruno Maggioni (Il racconto di Luca): Vigilare - stando a questo testo di Luca (ma si potrebbe arricchire il discorso con altri passi) - significa non avere il cuore «appesantito». Vigilanza è dunque libertà, disponibilità, acutezza, prontezza di discernimento. Il ritorno del Figlio dell’uomo non sarà preceduto da segni premonitori prevedibili e rassicuranti: giungerà all’improvviso. Ciò che conta dunque è stare attenti a non lasciarsi sorprendere. C’è invece il rischio che gli uomini, distratti dalla vita, non appiano scorgere il momento propizio per la salvezza. Luca parla di «dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita». È questione di disordini morali e di sregolatezza, ma non soltanto. Gli affanni della vita sembrano essere qualcosa di più normale (il testo parallelo di 17,27 dice ancora più chiaramente: mangiavano, bevevano, si posavano). È la vita, semplicemente, che può appesantire il cuore, se non si rimane vigilanti, in preghiera (21,36).
Il discorso escatologico di Luca dice anche altro.
Per esempio: «I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (21,33). Per questo bisogna attenersi alle sue parole in ogni tempo, senza lasciarsi distrarre da curiosità e fantasiose rivelazioni. parola di Gesù è solida ed è ferma come la Parola di Dio. Vigilare è anche vivere di questa certezza, senza cercare conoscenze altrove.
La conclusione è che il ritorno improvviso del Signore non permette di programmare né l’imminenza né il ritardo. Così viene sottolineata la continuità della vigilanza e della preghiera (ed in ogni momento).
Il verbo «vigilare» (agrupnein), che Luca introduce soltanto nella frase conclusiva, non significa - almeno in prima battuta - un’azione, un fare qualcosa, ma uno stato, una modalità di essere. Vigilare non fissa il momento del passaggio dal sonno alla veglia, ma piuttosto la condizione che ne segue: l’essere desto.
 
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo: Lumen gentium 48: Siccome poi non conosciamo il giorno né l’ora, bisogna che, seguendo l’avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente, per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita terrena (cfr. Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove «ci sarà pianto e stridore dei denti» (Mt 22,13 e 25,30). Prima infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo « davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di male» (2Cor 5,10), e alla fine del mondo «usciranno dalla tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha operato il male a risurrezione di condanna» (Gv 5,29;  cfr. Mt 25,46).

 L’ubriachezza indebolisce l’anima e il corpo - Origene (Omelie sul Levitico 7, 1): Guardate che non siano gravati i vostri cuori nell’ubriachezza, nella crapula e nelle sollecitudini del mondo, e su di voi venga improvvisa la morte.
Avete udito l’editto dell’eterno re e appreso la fine lamentabile dell’ubriachezza e della crapula. Se un medico esperto e sapiente vi ammonisse con queste stesse parole e dicesse per esempio: Badate bene che nessuno sorbisca troppo smoderatamente del succo di questa o di quella erba: se lo farà gli capiterà la morte istantanea; non dubito che ciascuno, in considerazione della propria salute, osserverebbe i precetti del medico che ammonisce in anticipo. Or dunque il Signore, medico insieme delle anime e dei corpi, comanda di evitare l’erba della ubriachezza e della crapula, e parimenti quella delle sollecitudini del secolo come succhi mortiferi da cui guardarsi. E non so se qualcuno di noi non si esaurisca in queste cose, per non dire che non ne sia ferito.
Dunque l’ubriachezza di vino è perniciosa in ogni caso, giacché è la sola che rende debole, insieme al corpo, anche l’anima. Negli altri casi può accadere, secondo l’ Apostolo, che mentre il corpo è ammalato, tanto più potente (2Cor 12,10) sia lo spirito, e mentre l’uomo esteriore si corrompe, si rinnovi quello interiore (2Cor 4,16). Invece nella malattia dell’ubriachezza si corrompono sia il corpo che l’anima, sono parimenti viziati sia lo spirito che la carne. Tutte le membra sono deboli: piedi, mani, rammollita la lingua; le tenebre velano gli occhi, la smemoratezza la mente, così che l’uomo non si sa e non si sente tale. Dunque in primo luogo l’ubriachezza del corpo comporta una siffatta sconvenienza.

Il Santo del Giorno - 29 Novembre 2025 - San Francesco Antonio Fasani. Padre e apostolo per la Capitanata, testimone di speranza per gli ultimi - Fare della propria terra un “giardino della Parola”, dove è l’amore di Dio a sostenere i rapporti tra le persone ed è la speranza cristiana a indicare l’orizzonte a chi ha responsabilità di governo. Questa missione universale di tutti i battezzati fu vissuta in maniera particolare da san Francesco Antonio Fasani, che è ricordato proprio per aver amato la propria terra, la Capitanata, e averla girata in lungo e in largo per portare la Parola di Dio e un seme di speranza agli ultimi. Nato il 6 agosto 1681 a Lucera, Fasani era entrato tra i Minori Conventuali nella sua città natale e aveva compiuto il noviziato a Monte Sant’Angelo sul Gargano dove emise la professione il 23 agosto 1696. Inviato ad Assisi nel 1703, fu ordinato sacerdote due anni dopo per poi spostarsi a Roma nel collegio di San Bonaventura. Nel 1707 rientrò a Lucera e venne eletto ministro provinciale, dedicandosi a un intenso apostolato in tutta la Capitanata. Curava in maniera particolare la devozione alla Vergine e teneva un “registro” dei poveri per poter assisterli meglio nelle loro necessità. Un’attenzione particolare, inoltre, la riservava anche all’accompagnamento dei condannati a morte nelle loro ultime ore di vita. Morì il 29 novembre 1742 e ancora oggi la sua tomba, nella chiesa di San Francesco a Lucera, è meta di pellegrinaggio de tanti devoti. È stato proclamato beato il 15 aprile 1951 da Pio XII ed è stato canonizzato da Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986. (Avvenire)

 Dio onnipotente,
che ci dai la gioia di partecipare ai divini misteri,
non permettere che ci separiamo mai da te,
fonte di ogni bene.
Per Cristo nostro Signore.