14 Ottobre 2025
 
Martedì XXVIII Settimana T. O.
 
Rm 1,16-25; Salmo Responsoriale Dal Salmo 18 (19); Lc 11,37-41
 
Colletta
Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, o Signore,
perché, sorretti dal tuo paterno aiuto,
non ci stanchiamo mai di operare il bene.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Allora il Signore gli disse … - Giovanni Paolo II (Udienza Generale 19 Aprile 1989): Gesù Cristo è il Signore, perché possiede la pienezza del potere “nei cieli e sulla terra”. È il potere regale “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione ... Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi” (Ef 1, 20-22).
Nello stesso tempo è l’autorità sacerdotale di cui parla ampiamente la lettera agli Ebrei, facendo riferimento al Salmo 110 [109], 4: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Eb 5, 6). Questo eterno sacerdozio di Cristo comporta il potere di santificazione sicché Cristo “diviene causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5, 9). “Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore” (Eb 7, 25). Anche nella lettera ai Romani leggiamo che Cristo “sta alla destra del Padre e intercede per noi” (8,34). E infine, san Giovanni ci rassicura: “Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto” (1 Gv 2, 1).
Come Signore, Cristo è il capo della Chiesa, che è il suo corpo. È l’idea centrale di san Paolo nel grande affresco cosmico-storico-soteriologico, con cui descrive il contenuto dell’eterno disegno di Dio nei primi capitoli delle lettere agli Efesini e ai Colossesi: “Tutto ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1, 22). “Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza” (Col 1, 19): in lui nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2, 9).
Gli Atti dicono che Cristo “si è acquistata” la Chiesa “con il suo sangue” (At 20, 28; cf.1 Cor 6, 20). Anche Gesù, quando, andando al Padre, diceva ai discepoli: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20) in realtà annunciava il mistero di questo Corpo che da lui attinge continuamente le energie vivificanti della Redenzione. E la Redenzione continua a operare come effetto della glorificazione di Cristo.
 
Prima Lettura: I primi versetti della Lettera ai Romani mettono a fuoco il tema fondamentale di tutta l’epistola: la giustizia salvifica di Dio, che si manifesta nel Vangelo, potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. Condizione indispensabile per coloro che credono è quindi la fede: Il giusto per fede vivrà. La ragione, la sapienza umana, ha invece ottenebrato la mente e il cuore dell’uomo facendolo precipitare nelle limacciose acque putride delle più avvilenti degradazioni dell’intelligenza, con cui avrebbe potuto conoscere Dio, Essere supremo, onnipotente ed eterno. A motivo del suo peccato l’uomo si pone dinanzi a Dio come oggetto della sua ira, anzi la sua depravazione morale è da considerarsi come una conseguenza del castigo divino.
 
Vangelo
Date in elemosina, ed ecco, per voi tutto sarà puro.
 
Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo: Gesù contestando le esteriorità religiose, come le abluzioni prima dei pasti e la distinzione tra cibi puri e impuri, vuole insegnare ai suoi discepoli che niente è profano, se non le azioni cattive che provengono dal cuore malvagio: «Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo» (Mc 7,20). Ma bisogna stare attenti che questa libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello. (1Cor 8,9-13).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11,37-41
 
In quel tempo, mentre Gesù stava parlando, un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo.
Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro».
 
Parola del Signore.
 
Roberto Osculati (L’evangelo di Luca): Ancora una volta Gesù è invitato ad un banchetto in casa di un fariseo, ma non si lava le mani prima di cominciare il pasto e suscita la meraviglia del devoto. Il maestro approfitta per criticare un lindore esterno delle stoviglie, mentre il cibo contenutovi è frutto di rapine e malvagità, dal momento che l’apparente pietà è accompagnata da una ricchezza ingiusta ed egoista. Essa sarebbe liberata da questa ombra oscura se venisse usata per il soccorso dei poveri. Inoltre lo scrupolo per le forme esteriori fa sì che si paghi la decima dovuta ai sacerdoti anche sulle minuzie, ma che si dimentichi l’esercizio della giustizia verso i poveri e della fedeltà alla parola divina. Esibizioni devote ed omaggi pubblici sono caratteri di una religione che assomiglia piuttosto ad un luogo di putrefazione tenuto nascosto. A queste critiche sono accomunati gli esperti della legge, che impongono agli altri pesi enormi, ma essi stessi non vogliono neppure sfiorarli, edificano monumenti ai profeti uccisi e si dichiarano così eredi dei loro assassini, fingono di possedere la scienza del regno, ma non vi entrano e sono di ostacolo agli altri.
La religione dei presunti devoti è come un prodotto che corrompe la purezza della parola di Dio, distoglie dalla sua vera osservanza, crea una maschera di pietà. È imminente però il tempo in cui tutti i pensieri nascosti saranno portati alia luce, il vero volto di ognuno apparirà senza ambiguità ed inganni e bisognerà guardarsi con cura da una religione ipocrita. La conoscenza di se stessi, ottenuta attraverso un ascolto sincero della parola, il mutamento dei propri criteri di giudizio, l’azione sincera e coerente dovranno essere le caratteristiche del vero discepolo, liberato da ogni sotterfugio devoto.
San Beda considerava queste critiche attuali anche per le autorità cristiane del suo tempo e soggiungeva: “Guai a noi miserabili, ai quali sono passati i vizi dei farisei. Rivaleggiando con arroganza a motivo di una carica, non abbiamo avuto timore di gravare ulteriormente di colpe il breve ed incerto percorso della nostra vita, durante il quale avremmo dovuto piangere umilmente i peccati (Beda Esposizione sull’evangelo di Luca IV,XI).
 
Date in elemosina quel che c’è dentro - Riccardo Ripoli: Quanta falsità c’è fra le persone. Tutti disponibili a grandi sorrisi, a belle formalità, a saluti con l’inchino, ma poi siamo pieni di ipocrisia. Siamo pronti a sventolare la bandiera dell’amore fraterno, ma dentro pensiamo di ributtare in mare gli immigrati. Siamo pronti a urlare contro la pedofilia, ma non siamo disponibili ad accogliere un bambino vittima di abusi nella nostra casa. Siamo pronti a indignarci dinanzi alle liti familiari che terminano in tragedia, ma ci guardiamo bene dal porgere una spalla su cui piangere alla vicina di casa. Gesù ci chiede di dare in elemosina ciò che abbiamo dentro, ci chiede di donare noi stessi, di dare agli altri quello che siamo realmente, con i nostri pregi e i nostri difetti, senza maschere, senza veli. Abbiamo nel cuore il desiderio di aiutare il nostro prossimo? E allora facciamo, senza tanti se o tanti ma, direttamente o attraverso un’associazione, ma non troviamo alibi che non sappiamo come fare, dove andare, a chi chiedere. Avete nel cuore un tale egoismo da tenere il vostro prossimo lontano dalla porta di casa? Allora manifestatelo senza paura di essere giudicato, perché solo così aprirete il cuore anche alla correzione fraterna. Ma se terrete il bene dentro voi senza manifestarlo, sarà come avere tanto denaro e tenerlo chiuso in banca per tutta la vita per paura di spenderlo e sarà come essere poveri. Se invece terrete il male nel vostro animo, questo vi farà marcire dal di dentro.
 
Il pericolo permanente dell’ipocrisia - Roberto Tufariello (Ipocrisia in Schede Bibliche Pastorali Vol. IV): L’accusa di ipocrisia, nel NT, equivale alla denuncia di una frattura tra l’esterno e l’interno, di una disarmonia tra il cuore e le labbra; tale frattura o disarmonia non si riduce solo al vizio della simulazione, ma corrisponde a un conflitto che si svolge nell’intimo della persona e che si conclude con un rifiuto decisivo in materia di fede. In questo senso s. Paolo considera «ipocrisia» il fatto che Pietro e i giudeo-cristiani non abbiano voluto sedere a tavola con i cristiani venuti dal paganesimo. Questo contegno infatti, facendo sembrare che la legge sia ancora in vigore, è un allontanamento dalla verità del vangelo, la verità della salvezza mediante la fede (Gal 2,11-14). C’è in Pietro un conflitto tra l’interno e l’esterno, e ne scaturisce un comportamento che, secondo Paolo, è una finzione che si oppone alla verità, Il comportamento dei cristiani deve concordare con la loro coscienza illuminata ( Gal 2,16).
L’episodio inoltre dimostra che se i farisei sono stati l’esempio tipico dell’ipocrisia, questa però è un pericolo permanente anche per i cristiani. Già la tradizione sinottici la estendeva alla folla l’accusa di ipocrisia (Lc 12,56; 13,15), e Giovanni intendeva designare col termine di «giudei» gli increduli di tutti i tempi, ciechi e ipocriti come i capi religiosi di Israele. In particolare, il vangelo di Matteo, con i frequenti richiami all’ipocrisia, vuol mettere in guardia la comunità cristiana da questo comportamento che consiste nel cercare l’approvazione degli uomini e non quella di Dio.
Anche s. Pietro raccomanda ai fedeli di vivere nella semplicità, come neonati, sapendo che l’ipocrisia costituirà per essi una pericolosa tentazione (1Pt 2,1-3).
Per tutta la comunità dei credenti valgono le ammonizioni che l’apostolo Paolo rivolge ai suoi connazionali, i quali possiedono la conoscenza della volontà divina sono orgogliosi della legge e pretendono di esserne maestri press gli altri; ma, non praticando quanto conoscono, cadono nell’ipocrisia: «Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l’adulterio, sei adultero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?» (Rm 2,21-23). Si tratta di una chiara dissociazione tra il dire e il fare, tra le proprie proclamazioni e la prassi.
 
Gesù insegna la vera purificazione: Che cosa ha detto il Salvatore? Egli li ha rimproverati a ragione, dicendo: Ora voi farisei pulite la parte esterna del calice e del piatto, ma questo in è in voi pieno di saccheggio e di malvagità. Sarebbe stato facile per il Signore usare altre parole nella prospettiva di istruire l ottuso fariseo, ma ha trovato unoccasione. Collega il proprio insegnamento a quanto era stato prima davanti ai loro occhi. Visto che era il momento di mangiare e di sedere al tavolo, egli prende come semplice paragone il calice e il piatto. Mostra che coloro che servono Dio con sincerità devono essere puri e puliti, e non solo dalle impurità del corpo ma anche da ciò che è nascosto dentro la mente. Gli utensili che servono il tavolo devono essere puliti tanto dalle impurità esterne quanto da quelle interne. Egli dice che colui che ha fatto lesterno ha fatto anche linterno. Questo significa che colui che ha creato il corpo ha creato anche lanima. Dal momento che questi sono entrambi opera del solo Dio, amante della virtù, la loro purificazione deve essere analoga” (Cirillo d’Alessandria, Commento a Luca, omelia 83).
 
Il Santo del Giorno - 14 Ottobre 2025 -Fabio Arduino: Santa Angadrisma Badessa: Santa Angadrisma visse nel VII secolo nella diocesi di Thérouanne, nella Francia settentrionale. La sua educazione subì il positivo influsso del vescovo Sant’Omero e del cugino San Lamberto di Lione, in quel periodo monaco a Fontanelle. Da essi sostenuta nella vocazione alla vita religiosa, dovette però contrastare l’opposizione di suo padre, che l’aveva promessa in sposa ad un giovane signore, il futuro vescovo di Rouen Sant’Ansberto.
Onde evitare le indesiderate nozze, Angadrisma pregò di poter divenire fisicamente meno attraente, ma la sua preghiera ebbe efetti persino esagerati e si ammalò di lebbra. Ciò le permise almeno di essere libera di ricevere l’abito religioso per mano di Sant’Audoeno. Ma da quel giorno la malattia scomparve miracolosamente di colpo.
La sua vita monacale fu a dir poco esemplare ed in seguito divenne badessa di un convento nei pressi di Beauvais. Parecchi miracoli furono attribuiti alla sua intercessione quando era ancora in vita, tra i quali l’estinzione di un incendio che minacciava il monastero contrastandolo cn l’esposizione delle reliquie del fondatore, Sant’Ebrulfo.
Angadrisma morì più che ottantenne nel 695 circa. Invocata subito come santa, fu annoverata tra i patroni di Beauvais ed invocata contro gli incendi, la siccità e le pubbliche calamità. Ripetutamente traslate a causa della distruzione del convento e poi della Rivoluzione Francese, le sue reliquie riposano oggi nella cattedrale.
 
Ti supplichiamo, o Padre d’infinita grandezza:
come ci nutri del Corpo e Sangue del tuo Figlio,
così rendici partecipi della natura divina.
Per Cristo nostro Signore.
 
 13 Ottobre 2025
 
Lunedì XXVIII Settimana T. O.
 
Rm 1,1-7; Salmo Responsoriale Dal Salmo 97 (98); Lc 11,29-32
 
Colletta
Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, o Signore,
perché, sorretti dal tuo paterno aiuto,
non ci stanchiamo mai di operare il bene.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
La fede come ascolto e visione - Lumen fidei 29: Proprio perché la conoscenza della fede è legata all’alleanza di un Dio fedele, che intreccia un rapporto di amore con l’uomo e gli rivolge la Parola, essa è presentata dalla Bibbia come un ascolto, è associata al senso dell’udito. San Paolo userà una formula diventata classica: fides ex auditu, «la fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). La conoscenza associata alla parola è sempre conoscenza personale, che riconosce la voce, si apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. Perciò san Paolo ha parlato dell’“obbedienza della fede” (cfr Rm 1,5; 16,26). La fede è, inoltre, conoscenza legata al trascorrere del tempo, di cui la parola ha bisogno per pronunciarsi: è conoscenza che s’impara solo in un cammino di sequela. L’ascolto aiuta a raffigurare bene il nesso tra conoscenza e amore.
Per quanto concerne la conoscenza della verità, l’ascolto è stato a volte contrapposto alla visione, che sarebbe propria della cultura greca. La luce, se da una parte offre la contemplazione del tutto, cui l’uomo ha sempre aspirato, dall’altra non sembra lasciar spazio alla libertà, perché discende dal cielo e arriva direttamente all’occhio, senza chiedere che l’occhio risponda. Essa, inoltre, sembrerebbe invitare a una contemplazione statica, separata dal tempo concreto in cui l’uomo gode e soffre. Secondo questa concezione, l’approccio biblico alla conoscenza si opporrebbe a quello greco, che, nella ricerca di una comprensione completa del reale, ha collegato la conoscenza alla visione.
È invece chiaro che questa pretesa opposizione non corrisponde al dato biblico. L’Antico Testamento ha combinato ambedue i tipi di conoscenza, perché all’ascolto della Parola di Dio si unisce il desiderio di vedere il suo volto. In questo modo si è potuto sviluppare un dialogo con la cultura ellenistica, dialogo che appartiene al cuore della Scrittura. L’udito attesta la chiamata personale e l’obbedienza, e anche il fatto che la verità si rivela nel tempo; la vista offre la visione piena dell’intero percorso e permette di situarsi nel grande progetto di Dio; senza tale visione disporremmo solo di frammenti isolati di un tutto sconosciuto.
 
Prima Lettura: José Maria González-Ruiz : La fede è un impulso liberatore: Paolo si presenta alla comunità di Roma con quel «timore e trepidazione» con cui si era presentato alla comunità di Corinto (1Cor 2,3). In primo luogo, egli è «servo di Gesù Cristo». L’insistenza paolina, condivisa dal secondo vangelo, sull’unicità della sovranità di Cristo si applica in modo speciale all’ambito interno della Chiesa: qui tutti sono «servi di Gesù Cristo»; i responsabili o dirigenti della comunità non dovranno mai osare sacrilegamente presentarsi come «sostituti» o «surrogati» di Gesù, che è sempre presente nella Chiesa a partire dal momento della sua risurrezione.
Paolo afferma che, da parte di Dio, non vi è discriminazione, poiché egli si rivela a ogni uomo e a tutti gli uomini. Questo vuol dire che «gli ambiti chiusi della rivelazione divina» (giudaismo e cristianesimo) non possono pretendere d’avere il monopolio della presenza di Dio, che sorpassa qualsiasi istituzione ecclesiale.
Paolo è stato aggregato agli apostoli, «prescelto per annunziare il vangelo di Dio». La sua chiamata alla corresponsabilità viene sempre dall’alto: non è mai una autorità rivale con lo stesso Gesù. Effettivamente, «Gesù, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti».
L’antitesi «carne-Spirito» non si riferisce, come nell’antropologia greca, a due parti dell’uomo, corpo e anima, ma a due situazioni di tutto l’uomo: «carne» è l’esistenza frustrata da uno sbocco totale nella morte, e «spirito» è l’esistenza umana riabilitata o in via di riabilitazione dalla morte. Cristo adottò la situazione-carne per terminare, con la sua risurrezione, nella situazione-spirito. Dal momento della risurrezione, non fu costituito «Figlio di Dio» semplicemente, poiché lo era dall’eternità, ma «Figlio di Dio nel potere», cioè vincitore effettivo della morte nello stesso seno dell’esistenza umana frustrata.
Paolo, in virtù della sua missione apostolica, partecipa di questi « poteri del Risuscitato », e quindi offre la fede ai gentili. E la fede è un atteggiamento che trascina tutto l’uomo a « sottomettersi a Dio » come salvatore della sua indigenza. La fede è un impulso totalmente liberatore e autoliberatore.
 
Vangelo
Non sarà dato alcun segno a questa generazione, se non il segno di Giona.
 
I farisei avevano chiesto a Gesù un segno, cioè un miracolo che esprimesse e giustificasse la sua autorità. Gesù non soddisfa la loro richiesta, ma risponde ricordando due fatti  registrati nella sacra Scrittura: la conversione dei Niniviti, e il viaggio della Regina di Saba che da terre lontane giunge a Gerusalemme per ascoltare le parole sapienti di Salomone. Ora, nella pienezza del tempo, vi è uno più grande di  Giona, e  nel giorno del Giudizio gli abitanti di Ninive, conosciuti per la loro sanguinaria violenza, saranno  i giudici di Israele. Un capovolgimento paradossale: i Niniviti che erano ciechi aprirono con docilità gli occhi dell’anima alla predicazione di Giona e vennero restituiti alla Luce, i farisei che affermavano di vedere restarono nel buio della loro cecità e si fissarono nel loro peccato (Gv 9,).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11,29-32
 
In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire:
«Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione.
Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone. Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona».
 
Parola del Signore.
 
Il segno di Giona - Rosanna Virgili: Il discorso sul segno è la risposta che Gesù dà al gruppo della folla che gli chiedeva n segno dal cielo (cf v. 16). Gesù non vuole che nessuno si sottragga alla responsabilità di capire, valutare e scegliere, con la propria intelligenza e la propria facoltà di giudizio, in merito a lui; non concede la facile delega di un segno eclatante che sollevi la folla dall’impegno della fede. «Non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona» (v. 29), cioè l’annuncio della necessità di convertirsi nel momento attuale. Chi segue Gesù deve ascoltare e riflettere, usare sapienza verso una parola di sapienza (cf v. 49). La parola di lui è già il più grande “segno” della sua identità. A proposito di ciò grande è ancora la lezione dei niniviti: essi trovarono la salvezza per la loro città, proprio perché ascoltarono la parola di Giona. Questa fu la loro sapienza, portatrice di vita. La regina del Sud, con cui si identifica la regina di Saba, è un altro esempio di intelligenza e saggezza: pur essendo ella stessa un simbolo della sapienza dell’Oriente, ella volle conoscere il re Salomone per ammirarne la sapienza, proclamando beati coloro che erano nel suo regno (cf 1Re 10,1-13). Gesù ben più sapiente di Salomone e, quindi, la stessa regina di Saba sorgerà ad accusare la generazione presente per la sua incapacità di riconoscere il vero “segno” e di cambiare la sua mente (metanoéo, v. 32). Gesù non indulge al gioco ozioso del miracolismo, ma è sapienza (= Salomone) e profezia (Giona). Questo Gesù è il segno che essi devono “riconoscere” e che li espone al giudizio di Dio.
 
Segni nella vita di Gesù - Paul Ternant (Dizionario di Teologia Biblica): Fedele alla promessa divina di un rinnovamento delle antiche meraviglie (Mt 11,4s; Is 35,5s; 26,19), Gesù moltiplica i miracoli che, pur accreditandone la parola, rientrano nello stesso tempo nei segni avvenimenti salvifici e nella mimica profetica (cfr. Mc 8,23ss): sono soprattutto questi miracoli, uniti alla sua autorità personale e a tutta la sua attività, a costituire «i segni dei tempi» (Mt 16,3), cioè gli indizi dell’inizio dell’era messianica. Ma all’opposto di Israele nel deserto (Es 17,2.7; Num 14,22), egli si rifiuta di tentare Dio, esigendo da lui dei segni a proprio vantaggio (Mt 4,7; Deut 6,16), e di soddisfare quelli che, avidi di prodigi spettacolari, gli domandano un segno per tentarlo (Mt 16,1ss). Così i Sinottici, eco della sua riservatezza, evitano a proposito dei miracoli di usare la parola «segni», a cui ricorrono i suoi avversari (Mt 12,38 par.; Lc 23, 8). Certo Dio, fornisce dei segni dell’avvento della salvezza ai poveri, come Maria (Lc 1,36ss), o i pastori (2,12). Però non può offrire ai Giudei i segni che essi si aspettano: ciò significherebbe pervertire la sua missione. Questi ciechi dovrebbero cominciare a prestare attenzione al «segno di Giona» secondo Lc 11,29-32, cioè alla predicazione di penitenza di Gesù. Sarebbero allora in grado di decifrare i «segni dei tempi», senza pretenderne altri per convenienza, e sarebbero preparati a ricevere la testimonianza del più decisivo di essi, il «segno di Giona» secondo Mt 12, 40, cioè la risurrezione di Cristo. Ogni riserbo concernente l’uso della parola semèion scompare nella narrazione giovannea (salvo Gv 4,48), sia negli Atti Che nelle lettere. Per Giovanni, la visione dei segni avrebbe dovuto indurre i contemporanei di Gesù a credere in lui (Gv 12,37-38): questi segni rendevano manifesta la sua gloria (Gv 2,11) a uomini provati (Gv 6,6), come Jahve aveva manifestato la propria (Num 14,22), imponendo al popolo la prova del deserto (Deut 8,2). Essi li preparavano così a vedere (Gv 19,37 ; Zac 12, 10), grazie alla fede, il segno del Trafitto elevato sulla Croce fonte di vita (12,33), che realizza la figura del serpente guaritore eretta da Mosè su uno «stendardo» (Num 21,8: ebr. nes; gr. semèion; Gv 3,14), per la salvezza del popolo dell’esodo. Ai cristiani convertiti da questo sguardo di fede (cfr. Gv 20,29) e raffigurati dai Greci che chiesero di vedere Gesù (Gv 12,21.32s), il sangue e l’acqua che sgorgano dal Trafitto (Gv 19,34) appaiono allora i simboli della vita dello Spirito e della realtà del sacrificio che ce ne apre l’accesso grazie ai sacramenti del battesimo, della penitenza, dell’eucaristia. E di questi gesti salvifici del Risorto, vero tempio da cui scaturisce l’acqua viva (Gv 2,19; 7,37ss; 19,34; cfr. Zac 14,8; Ez 47,1s), i segni anteriori di Gesù (Gv 5,14; 6; 9; 13,1-10) appariranno a loro volta le prefigurazioni.
 
Nicola di Lira (Postilla super Lucam, XI): La Regina dell’Austro sorgerà: la Regina dell’Austro rappresenta l’anima razionale, che, se governa bene le forze inferiori secondo il dettame della legge di natura, è detta Regina. E se fa questo col fervore della carità, è giustamente chiamata Regina dell’Austro, perché l’Austro simboleggia proprio il calore della carità. E questa Regina viene al vero Salomone: Gesù Cristo, offrendogli, per mezzo della devozione, l’oro della sapienza, le gemme delle virtù e gli aromi dell’onore, usandoli tutti per la gloria di Dio.
 
Il Santo del Giorno - 13 Ottobre 2025 - San Teofilo di Antiochia Vescovo. E noi abbiamo occhi e cuore per cogliere il vero amore?: Sappiamo percepire l’amore che ci circonda, l’amore di chi ci è accanto? E l’amore di Dio? Abbiamo cuore e occhi pronti ad accogliere la sua presenza? Perché Dio si mostra «a coloro che possono vederlo, quando hanno aperti gli occhi dell’anima e tutti hanno i loro bravi occhi», anche se «qualcuno li ha velati, incapaci di vedere la luce del sole». È questo l’insegnamento, antico quanto prezioso, di san Teofilo di Antiochia. Il vescovo vissuto nel secondo secolo indica la via per trovare Dio e, in particolare nei «Libri ad Autolico», ripercorre la fitta trama di «cercatori della verità» del sapere antico, fino a culminare nell’annuncio del Dio di Gesù Cristo. Si tratta di una via che ognuno può percorrere nella propria anima per raggiungere una meta, appunto, che va solo scoperta con gli occhi giusti e che esiste anche se noi non siamo capaci di vederla. Formatosi alla scuola dei pensatori classici, Teofilo era nato nella regione tra il Tigri e l’Eufrate in una famiglia non cristiana; convertitosi al cristianesimo dopo aver studiato le Scritture, divenne vescovo di Antiochia forse nel 169. Per vedere Dio, scriveva nella lettera indirizzata all’amico pagano, bisogna curare gli occhi dell’anima, troppo spesso oscurati dai peccati. E la cura è Dio stesso, che «per mezzo del Verbo e della sapienza guarisce e dà la vita». (Avvenire)
 
Ti supplichiamo, o Padre d’infinita grandezza:
come ci nutri del Corpo e Sangue del tuo Figlio,
così rendici partecipi della natura divina.
Per Cristo nostro Signore.
 
12 Ottobre 2025
 
XXVIII Domenica T. O.
 
2Re 5,14-17; Salmo Responsoriale Dal Salmo 97; 2Tm 2,8,13; Lc 17,11-19
 
Colletta
O Dio, che nel tuo Figlio
liberi l’uomo dal male che lo opprime
e gli mostri la via della salvezza,
donaci la salute del corpo e il vigore dello spirito,
affinché, rinnovati dall’incontro con la tua parola,
possiamo renderti gloria con la nostra vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Omelia 13 Ottobre 2019)
 
«La tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). È il punto di arrivo del Vangelo odierno, che ci mostra il cammino della fede. In questo percorso di fede vediamo tre tappe, segnalate dai lebbrosi guariti, i quali invocano, camminano e ringraziano.
Anzitutto, invocare. I lebbrosi si trovavano in una condizione terribile, non solo per la malattia che, diffusa ancora oggi, va combattuta con tutti gli sforzi, ma per l’esclusione sociale. Al tempo di Gesù erano ritenuti immondi e in quanto tali dovevano stare isolati, in disparte (cfr Lv 13,46). Vediamo infatti che, quando vanno da Gesù, “si fermano a distanza” (cfr Lc 17,12). Però, anche se la loro condizione li mette da parte, invocano Gesù, dice il Vangelo, «ad alta voce» (v. 13). Non si lasciano paralizzare dalle esclusioni degli uomini e gridano a Dio, che non esclude nessuno. Ecco come si accorciano le distanze, come ci si rialza dalla solitudine: non chiudendosi in sé stessi e nei propri rimpianti, non pensando ai giudizi degli altri, ma invocando il Signore, perché il Signore ascolta il grido di chi è solo.
Come quei lebbrosi, anche noi abbiamo bisogno di guarigione, tutti. Abbiamo bisogno di essere risanati dalla sfiducia in noi stessi, nella vita, nel futuro; da molte paure; dai vizi di cui siamo schiavi; da tante chiusure, dipendenze e attaccamenti: al gioco, ai soldi, alla televisione, al cellulare, al giudizio degli altri. Il Signore libera e guarisce il cuore, se lo invochiamo, se gli diciamo: “Signore, io credo che puoi risanarmi; guariscimi dalle mie chiusure, liberami dal male e dalla paura, Gesù”. I lebbrosi sono i primi, in questo Vangelo, a invocare il nome di Gesù. Poi lo faranno anche un cieco e un malfattore sulla croce: gente bisognosa invoca il nome di Gesù, che significa Dio salva. Chiamano Dio per nome, in modo diretto, spontaneo. Chiamare per nome è segno di confidenza, e al Signore piace. La fede cresce così, con l’invocazione fiduciosa, portando a Gesù quel che siamo, a cuore aperto, senza nascondere le nostre miserie. Invochiamo con fiducia ogni giorno il nome di Gesù: Dio salva. Ripetiamolo: è pregare, dire “Gesù” è pregare. La preghiera è la porta della fede, la preghiera è la medicina del cuore.
La seconda parola è camminare. È la seconda tappa. Nel breve Vangelo di oggi compaiono una decina di verbi di movimento. Ma a colpire è soprattutto il fatto che i lebbrosi non vengono guariti quando stanno fermi davanti a Gesù, ma dopo, mentre camminano: «Mentre essi andavano furono purificati», dice il Vangelo (v. 14). Vengono guariti andando a Gerusalemme, cioè mentre affrontano un cammino in salita. È nel cammino della vita che si viene purificati, un cammino che è spesso in salita, perché conduce verso l’alto. La fede richiede un cammino, un’uscita, fa miracoli se usciamo dalle nostre certezze accomodanti, se lasciamo i nostri porti rassicuranti, i nostri nidi confortevoli. La fede aumenta col dono e cresce col rischio. La fede procede quando andiamo avanti equipaggiati di fiducia in Dio. La fede si fa strada attraverso passi umili e concreti, come umili e concreti furono il cammino dei lebbrosi e il bagno nel fiume Giordano di Naaman (cfr 2 Re 5,14-17). È così anche per noi: avanziamo nella fede con l’amore umile e concreto, con la pazienza quotidiana, invocando Gesù e andando avanti.
C’è un altro aspetto interessante nel cammino dei lebbrosi: si muovono insieme. «Andavano» e «furono purificati», dice il Vangelo (v. 14), sempre al plurale: la fede è anche camminare insieme, mai da soli. Però, una volta guariti, nove vanno per conto loro e solo uno torna a ringraziare. Gesù allora esprime tutta la sua amarezza: «E gli altri dove sono?» (v. 17). Sembra quasi che chieda conto degli altri nove all’unico che è tornato. È vero, è compito nostro – di noi che siamo qui a “fare Eucaristia”, cioè a ringraziare –, è compito nostro prenderci cura di chi ha smesso di camminare, di chi ha perso la strada: siamo custodi dei fratelli lontani, tutti noi! Siamo intercessori per loro, siamo responsabili per loro, chiamati cioè a rispondere di loro, a prenderli a cuore. Vuoi crescere nella fede? Tu, che sei oggi qui, vuoi crescere nella fede? Prenditi cura di un fratello lontano, di una sorella lontana.
Invocare, camminare e ringraziare: è l’ultima tappa. Solo a quello che ringrazia Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato» (v. 19). Non è solo sano, è anche salvo. Questo ci dice che il punto di arrivo non è la salute, non è lo stare bene, ma l’incontro con Gesù. La salvezza non è bere un bicchiere d’acqua per stare in forma, è andare alla sorgente, che è Gesù. Solo Lui libera dal male, e guarisce il cuore, solo l’incontro con Lui salva, rende la vita piena e bella. Quando s’incontra Gesù nasce spontaneo il “grazie”, perché si scopre la cosa più importante della vita: non ricevere una grazia o risolvere un guaio, ma abbracciare il Signore della vita. E questa è la cosa più importante della vita: abbracciare il Signore della vita.
 
Prima Lettura: Il tono che l’autore sacro dà al brano è apologetico: Iahvè è l’unico vero Dio, il quale ha rapporti unici di elezione con Israele. Ma risalta anche la rottura di una concezione particolaristica di Dio: l’amore e la misericordia di Iahvè si espandono su tutte le creature fino ad abbracciare anche i pagani. La conversione di Naaman il Siro è siglata e confermata da un impegno preciso, quello di osservare il primo comandamento nel culto esclusivo di Dio (Cf. Es 19,5; 34,14; Dt 5,9).
 
Seconda Lettura - Bibbia per la formazione cristiana: Continua il commiato e il testamento.
Timòteo è un anello dell’interminabile catena di testimoni che annunciano il vangelo.
L’ha ricevuto dagli apostoli in forma pubblica e ufficiale e ora lo deve trasmettere senza contaminazioni. È una esigenza del suo servizio. Soltanto così la tradizione cristiana sarà degna di fede e potrà nutrire la vita dei credenti.
Nei vv. 11-13 del secondo capitolo viene probabilmente ripreso un altro frammento di inno battesimale sul Cristo risorto, di cui viene ricordata l’origine davidica.
Chi vive ciò che medita e medita sul mistero di Gesù, rispecchia nella sua vita Gesù. Timòteo dovrà essere un «memoriale», cioè un ricordo vivente della risurrezione del Signore. Quanti lo vedranno vivere e agire capiranno che Gesù risorto trasforma l’esistenza dell’uomo e la colma di luce, di pace e di gioia.
Anch’essi potranno così raggiungere la salvezza che il Signore offre loro.
L’esortazione di Paolo non potrebbe proporci un programma più affascinante e grandioso.
 
Vangelo
Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero.
 
Benedetto XVI (Angelus 14 Ottobre 2007)
 
Il Vangelo di questa domenica presenta Gesù che guarisce dieci lebbrosi, dei quali solo uno, samaritano e dunque straniero, torna a ringraziarlo (cfr Lc 17, 11-19). A lui il Signore dice: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17, 19). Questa pagina evangelica ci invita ad una duplice riflessione. Innanzitutto fa pensare a due gradi di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo; l’altro, più profondo, tocca l’intimo della persona, quello che la Bibbia chiama il “cuore”, e da lì si irradia a tutta l’esistenza. La guarigione completa e radicale è la “salvezza”. Lo stesso linguaggio comune, distinguendo tra “salute” e “salvezza”, ci aiuta a capire che la salvezza è ben più della salute: è infatti una vita nuova, piena, definitiva. Inoltre, qui Gesù, come in altre circostanze, pronuncia l’espressione: “La tua fede ti ha salvato”. È la fede che salva l’uomo, ristabilendolo nella sua relazione profonda con Dio, con se stesso e con gli altri; e la fede si esprime nella riconoscenza. Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora l’aprirsi dell’uomo alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: “grazie”!
Gesù guarisce dieci malati di lebbra, infermità allora considerata una “impurità contagiosa” che esigeva una purificazione rituale (cfr Lv 14, 1-37). In verità, la lebbra che realmente deturpa l’uomo e la società è il peccato; sono l’orgoglio e l’egoismo che generano nell’animo umano indifferenza, odio e violenza. Questa lebbra dello spirito, che sfigura il volto dell’umanità, nessuno può guarirla se non Dio, che è Amore. Aprendo il cuore a Dio, la persona che si converte viene sanata interiormente dal male.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,11-19
 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
 
Parola del Signore.
 
La tua fede ti ha salvato!
 
La guarigione dei dieci lebbrosi, oltre a mettere in evidenza il comportamento esemplare di un non ebreo (vedi la Parabola del buon Samaritano: Lc 10,29-37), afferma anche il carattere universale della salvezza. Il racconto è molto simile a quello di Lc 5,12-16, dove Gesù, per la prima volta, si trovò dinanzi a uno di quei paria esclusi dal consorzio umano. La lebbra, in quanto ritenuta conseguenza del peccato, era considerata un castigo di Dio e solo lui poteva donare la guarigione.
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversa la Samaria e la Galilea. Questa annotazione topografica, molto generica e dal valore teologico, serve a Luca per indicare che Gesù si trovava in un territorio a popolazione mista.
I dieci lebbrosi si fermano a distanza così come prevedevano le rigidissime leggi che regolavano la loro vita: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,45-46; Cf. Lv 13,9-17). Dei dieci lebbrosi, nove erano Giudei e uno Samaritano. È notorio che i Giudei odiavano i Samaritani (Sir 50,25-26; Gv 4,9; 8,48; Mt 10,5; Lc 9,52-55; 10,33; 7,16), eppure ora, accomunati dalla lebbra, sono soci solidali di un stesso destino di dolore.
Gesù maestro, unico caso in cui epistata (maestro), frequente nel vangelo di Luca, si trovi sulla bocca di qualcuno che non è discepolo di Gesù.
Gesù non impone le mani sui lebbrosi, non proferisce parola, ma li invita a presentarsi ai sacerdoti, così come prescriveva la legge di Mosè.
Ed è in questo viaggio, gravido di speranza, che i dieci si ritrovano sanati.
I nove Ebrei continuano il loro cammino senza preoccuparsi di ringraziare il loro benefattore: nella loro arroganza ritengono la guarigione come un premio meritato per la loro condotta. Il Samaritano ritorna sui suoi passi «lodando Dio a gran voce», come i pastori (Cf. Lc 2,20), il paralitico (Cf. Lc 5,25), la donna curva (Cf. Lc 13,13), il cieco (Cf. Lc 18,43), il centurione (Cf. Lc 23,47), lo storpio guarito da Pietro e Giovanni (Cf. At 3,9). La lode è la «forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI È, a prescindere da ciò che fa. È una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria» (CCC 2639).
In questa cornice di gioia e di gratitudine il Samaritano, guarito nella carne, grazie alla sua fede, ottiene «anche la salvezza spirituale, che costituiva il dono più importante nell’incontro con Gesù, l’inviato del Padre per la proclamazione e l’inaugurazione del regno» (Angelico Poppi).
Gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero? Gesù ancora una volta deve ammettere, con tanta amarezza, che purtroppo la vera fede ha radici fuori dai confini d’Israele. Nel Vangelo di Luca, la maggior disponibilità degli stranieri ad accogliere il Regno (il centurione romano, Naaman il Siro, il lebbroso samaritano) è preludio della salvezza universale che la Chiesa, nel nome di Cristo, avrebbe portato a tutte le nazioni.
La tua fede ti ha salvato: il dono gratuito della salvezza trova campo fecondo di rigogliosa crescita solo in un cuore pieno di fede.
 
Pierre Grelot (Dizionario di Teologia Biblica)
 
Lebbra
 
Nella stessa categoria della lebbra propriamente detta (nega’, parola che significa anzitutto «piaga, colpo»), la Bibbia raggruppa sotto nomi diversi parecchie affezioni cutanee particolarmente contagiose, e persino la muffa delle vesti e dei muri (Lev 13, 47 ...; 14, 33 ...).
 
1. La lebbra, impurità e castigo divino. - Per la legge, la lebbra è una impurità contagiosa; perciò il lebbroso è escluso dalla comunità sino alla sua guarigione ed alla sua purificazione rituale, che esige un sacrificio per il peccato (Lev 13 - 14). Questa lebbra è la «piaga» per eccellenza con cui Dio colpisce (naga’) i peccatori. Israele ne è minacciato (Deut 28, 27. 35). Gli Egiziani ne sono colpiti (Es 9, 9 ss), e così pure Maria (Num 12, 10-15) ed Ozia (2 Cron 26, 19-23). Essa è quindi, per principio, un segno del peccato. Tuttavia, se il servo sofferente è colpito (naga’; Vg: leprosum) da Dio, per modo che ci si scosta da lui come da un lebbroso, si è perché, quantunque innocente, egli porta i peccati degli uomini che saranno guariti in virtù delle sue piaghe (Is 53, 3-12; cfr. Sal 73, 14)
 
2. La guarigione dei lebbrosi. - Può essere naturale, ma anche avvenire per miracolo, come quella di Naaman nelle acque del Giordano (2 Re 5), segno della benevolenza divina e della potenza profetica. Gesù, quando guarisce i lebbrosi (Mt 8, 1-4 par.; Lc 17, 11-19), trionfa della piaga per eccellenza; ne guarisce gli uomini di cui prende su di sé le malattie (Mt 8, 17).
Purificando i lebbrosi e reinserendoli nella comunità, egli abolisce con un atto miracoloso la separazione tra il puro e l’impuro. Se prescrive ancora le offerte legali, lo fa a titolo di testimonianza: i sacerdoti constateranno in tal modo il suo rispetto della legge e nello stesso tempo il suo potere miracoloso. Unita alle altre guarigioni, quella dei lebbrosi è quindi un segno che egli è proprio «colui che deve venire» (Mt 11, 5 par.). Anche i Dodici, mandati da lui in missione, ricevono l’ordine ed il potere di mostrare con questo segno che il regno di Dio è giunto (Mt 10, 8).
 
Bruno Ramazzotti e Giuseppe Barbaglio (Salvezza in Schede Bibliche Vol. VII)
 
Salvezza
 
La salvezza: terminologia e sguardo d’insieme - Nell’Antico Testamento ebraico, l’idea di salvezza è solitamente significata con la voce yasa’ e derivati. Questo termine ricorre un centinaio di volte - di cui la maggior parte nei salmi - con JHWH come soggetto, e ha il valore fondamentale di «essere ampio, spazioso», di «muoversi senza impedimento, essere al largo», e alla forma causativa, quello di «far stare ed essere al largo, a proprio agio», e quindi «liberare» da una condizione di oppressione, coercizione, schiavitù. È il contrario di «essere alle strette», «essere coartato, compresso, oppresso, in stato di servitù».
Nella versione greca dei LXX abbiamo il verbo sózein, il nome soteria e l’appellativo soter.
Queste voci assumono talvolta un’accezione profana (Cf. 2Re 6,26); comunemente però qualificano l’attività di salvezza che svolge JHWH, al quale è riservato l’appellativo di salvatore, fatta eccezione di pochi casi nei quali designa uomini da lui scelti per salvare il suo popolo oppresso (Cf. Gdc 3,9.15; Ne 9,26-27).
Dove affiora il tema della salvezza, là è presente un riferimento, più o meno esplicito, a un pericolo o a un male che minaccia o mortifica la vita di un individuo o di un popolo e a cui essi vengono sottratti. Ora, siccome per gli antichi un male sommamente temuto e spesso incombente è la sconfitta in guerra, che ha sempre disastrose conseguenze, così la salvezza è non di rado equivalente a vittoria in battaglia, trionfo sugli avversari (Cf. Es 15,2; 1Sam 11,3; 19,5; 2Sam 22,3; Sal 21,2.5-6). Ma si rapporta anche ad altri fatti e ad altre situazioni: si fa parola della liberazione dai molteplici travagli che affliggono l’umana esistenza (Cf. Is 33,2; Ger 30,7-9; Sal 107,13.19); si invoca la liberazione dalla violenza, dall’esilio (Cf. Sal 106,47), dalla morte (Cf. Sal 6,2-5), dal peccato (Cf. Ez 36,29).
Questi dati si precisano attraverso una più dettagliata analisi degli sviluppi anticotestamentari: l’accento è posto prevalentemente su un’azione salvifica in ordine alla vicenda temporale, storica di Israele, ma lo sguardo si rivolge anche a una liberazione, di cui quella attuale è solo premessa e promessa (salvezza escatologica); e a poco a poco l’interesse dalla nazione si sposta agli individui, e, passo più decisivo e importante, affiora, qua e là, la preoccupazione per una salvezza oltre l’esistenza terrena con un rilievo non più temporale, ma etico-spirituale.
Nel Nuovo Testamento il vocabolario della salvezza è ampiamente usato: sozein (salvare) ricorre un centinaio di volte, con prevalenza nei Vangeli; sóteria (salvezza) una cinquantina di volte, e 4 volte to sóterion = la salvezza; sótér (salvatore) soprattutto negli scritti tardivi.
Si ha in vista, talvolta, una liberazione di ordine temporale; ma, solitamente, si esalta l’azione salvifica che Dio svolge nel Cristo per trasformare e rinnovare l’uomo in rapporto a tutto il suo essere e alla stessa sua dimora, il cosmo.
Predilezione per la terminologia della salvezza rivelano Paolo e Luca.
Si constata che Dio raramente appare come soggetto grammaticale o logico di salvare e di salvezza, o come salvatore (Cf. Ef 2,5; pastorali; Gc 4,12; Gd 25). Per lo più, come Salvatore è designato il Cristo (Cf. Lc, Gv, Paolo, 2Pt). L’attività salvatrice è attribuita anche agli uomini come strumenti di Dio e del Cristo (Cf. Rm 11,14; 1Cor 7,16; 1Tm 4,14-16; Gc 5,20; Gd 20ss).
Soggetto di salvare talvolta è la parola di Dio o il Vangelo (Cf. Rm 1,16; 2Tm 3,14-16; Gc 1,18-21; 1Pt 2,2) e in alcuni casi il battesimo (Cf. Tt 3,5; 1Pt 3,21s), in quanto mezzi dell’azione divina di salvezza. Naturalmente la parola di Dio ha potere salutare per i singoli individui se viene accolta con la fede, che, in questo caso, risulta soggetto logico di salvare (Cf. Gv 3,16s; At 16,31; Rm 1,16; 10,8-10).
 
Il Santo del Giorno - 12 Ottobre 2025 - San Felice IV (III) Papa: Del Sannio, papa dal 12 luglio 526 al 20 o 22 settembre 530, fu sepolto sotto il pavimento dell’atrio di S. Pietro in Vaticano, poi nel Poliandro della Basilica. Profondo conoscitore degli scritti di S. Agostino se ne avvalse per condannare il semipelagianesimo.
Costruì la basilica in onore dei Ss. Cosma e Damiano adattando due templi pagani: il Templum Sacrae Urbis e il Tempio di Romolo. Rifece la basilica di S. Saturnino sulla via Salaria. Prima di morire designò il suo successore: Bonifacio II. È così ricordato dal Martirologio Romano alla data 22 settembre: A Roma san felice quarto, Papa, il quale moltissimo si affaticò per la fede cattolica. È raffigurato nel mosaico del catino absidale dei Ss. Cosma e Damiano con pianeta gialla, dalmatica azzurra e pallio disseminato di croci. (Autore Giovanni Sicari)
 
Ti supplichiamo, o Padre d’infinita grandezza:
come ci nutri del Corpo e Sangue del tuo Figlio,
così rendici partecipi della natura divina.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 11 Ottobre 2025
 
Sabato XXVII Settimana T. O.
 
Gl 4,12-21; Salmo Responsoriale Dal Salmo 96 (97); Lc 11,27-28
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
che esaudisci le preghiere del tuo popolo
oltre ogni desiderio e ogni merito,
effondi su di noi la tua misericordia:
perdona ciò che la coscienza teme
e aggiungi ciò che la preghiera non osa sperare.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Beato il grembo: Redemptoris Mater 20:  Il Vangelo di Luca registra il momento in cui “una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse”, rivolgendosi a Gesù: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (Lc 11,27). Queste parole costituivano una lode per Maria come Madre di Gesù secondo la carne. La Madre di Gesù non era forse conosciuta personalmente da questa donna; infatti, quando Gesù iniziò la sua attività messianica, Maria non lo accompagnava e continuava a rimanere a Nazaret. Si direbbe che le parole di quella donna sconosciuta l’abbiano fatta in qualche modo uscire dal suo nascondimento. Attraverso quelle parole è balenato in mezzo alla folla, almeno per un attimo, il vangelo dell’infanzia di Gesù. È il vangelo in cui Maria è presente come la madre che concepisce Gesù nel suo grembo, lo dà alla luce e lo allatta maternamente: la madre-nutrice, a cui allude quella donna del popolo. Grazie a questa maternità, Gesù - figlio dell’Altissimo (cfr. Lc 1,32) - è un vero figlio dell’uomo. È “carne”, come ogni uomo: è “il Verbo (che) si fece carne” (cfr. GV 1,14). È carne e sangue di Maria! Ma alla benedizione, proclamata da quella donna nei confronti della sua genitrice secondo la carne, Gesù risponde in modo significativo: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28). Egli vuole distogliere l’attenzione dalla maternità intesa solo come un legame della carne, per orientarla verso quei misteriosi legami dello spirito, che si formano nell’ascolto e nell’osservanza della parola di Dio.
 
I Lettura: Yahveh giudicherà in Giosafat - Epifanio Gallego (Commento della Bibbia Liturgica): La presente lettura è tutto quello che la liturgia ha conservato dei capitoli 3-4, nettamente escatologici e apodittici.
Scritti in tempi posteriori ai due primi, questi capitoli sono strettamente legati a essi tanto dal punto di vista letterario, sebbene siano scritti in prosa, quanto dal punto di vista circostanziale e specialmente teologico. Nella mente del profeta, rimane come uno sfondo tipico la piaga delle cavallette e il suo preannunzio del giorno di Yahveh. Tuttavia né lui né la tradizione giudaica né il cristianesimo nascente seppero differenziare chiaramente l’epoca messianica escatologica, di durata sconosciuta, dall’atto chiave di detta epoca: il giudizio di Yahveh.
Per questo, le immagini e i simboli terrificanti si moltiplicano spietatamente con un drammatismo pari alla loro imprecisione.
Come un esercito di cavallette, con denti ben affilati per divorare il popolo eletto, trasformando «i loro aratri in spade», perfetto contrappunto della pace idilliaca dei tempi messianici proclamata da Is 2,4, Yahveh ordina che tutte le nazioni si riuniscano nella Valle della decisione - questo è il significato di Giosafat - nella valle vicina al torrente Cedron, cimitero giudaico fin dalla più remota antichità. Era normale che la mente del profeta situasse il giudizio di Dio sulle nazioni nel «cimitero del giudizio».
Sulle «folle e folle» là riunite e sul clamore assordante che si eleva domina la figura di Yahevh che si asside per giudicare. Sole, luna e stelle si coprono di vergogna e, al ruggito del Signore, « remano i cieli e la terra».
Sarebbe infantile cercare di sceneggiare queste immagini icastiche, queste iperboli letterarie, tutto questo magnifico quadro apocalittico, come se si trattasse d’un bel flash fotogenico. Esse non sono il messaggio, ma la sua rappresentazione. Il contenuto teologico è il castigo dei peccatori in quel giorno e la salvezza del popolo eletto.
Lo stesso Gioele non pensava a quello che noi, oggi, chiamiamo «giudizio universale», sebbene il nostro concetto possa essere incluso nella sua aperta prospettiva, Dopo tante circostanze di terrore delle quali le cavallette erano state la prefigurazione, giungerà il trionfo definitivo per Israele e Giuda. Gerusalemme sarà nuovamente santa, cioè non contaminata dai gentili. Torna il domma dell’inviolabilità di Sion e del suo tempio. E con tutto questo, la «conoscenza» del Signore: «Saprete che io sono il Signore vostro Dio». In definitiva, sempre gli stessi temi, gli stessi ideali, le stesse speranze tanto da parte di Dio quanto da parte del popolo.
A coronamento di questo trionfo finale, la terra riavrà una fertilità paradisiaca, che i profeti già avevano trasformata in messianica. E vi sarà specialmente quell’acqua fecondante che sgorga dal tempio del Signore come i fiumi del paradiso e quella presenza del Signore in mezzo al suo popolo per sempre: « Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Siamo ormai all’epoca messianica; è ormai giunto il giorno del giudizio, ma non come poté immaginarlo Gioele o qualsiasi altro profeta, violento e terribile, ma silenzioso, intimo, personale. Ognuno, infatti, giudica - salva o condanna - se stesso nella misura in cui accetta o rifiuta Cristo e la sua dottrina. Così è terminato il giudizio discriminatorio annunziato dai profeti: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare (condannare) ... chi non crede è già stato condannato» (Gv 3,17-18).
 
Vangelo
Beato il grembo che ti ha portato! Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio.
 
Gesù parla con autorità, ma le sue parole sono dolci, penetrano nel cuore degli uomini schiudendoli alla luce, alla verità, alla grazia, apparecchiandoli alla santità, alla salvezza, all’incontro con Dio. La sua è una parola che guarisce le menti e i cuori. Forse proprio per questo una donna esclama Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato! Gesù corregge l’estimatrice e porta più in alto la sua lode: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano. È la Parola del Signore la fonte della vera beatitudine, è lei che genera una nuova vita, risana quella malata, ridona la pace e permette la conversione dei cuori. Sì, ascoltare e vivere la parola ci rende beati.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 11,27-28
 
In quel tempo, mentre Gesù parlava, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!».
Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».
 
Parola del Signore.

La vera beatitudine - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 27 Una donna... gli disse; Matteo e Marco, dopo l’eloquente accenno al ritorno dello spirito immondo, con il quale il Salvatore ammonisce gli Ebrei (Scribi e Farisei) di non rifiutare il suo aiuto per non cadere sotto il dominio tirannico di Satana, narrano la venuta dei parenti del Maestro e la dichiarazione che egli, in quella stessa occasione, ha fatto per designare coloro che ritiene suoi veri parenti (cf. Mt., 12, 46-50; Mc., 3, 31-35; Lc., 8, 19-20). Luca invece, avendo già descritto questa scena, inserisce nell’attuale contesto un episodio analogo ad essa, cioè quello della donna che proclama beata la madre del Redentore. Beato il seno che ti ha portato...; la donna dichiara fortunata la madre che ha generato ed allattato Gesù. L’espressione di questa donna, presa da profonda ammirazione per le parole e le opere del Maestro, rivela in modo trasparente sentimenti di una delicata sensibilità femminile e di un sincero compiacimento materno; nell’ebraismo la maternità costituiva una segnalata benedizione di Dio ed un motivo di gioioso orgoglio per la donna.
28 Beati piuttosto coloro ...; il Salvatore non rigetta il complimento rivoltogli dalla donna, ma preferisce correggerlo indicando alla folla una prospettiva religiosa superiore: la semplice parentela umana non ha importanza per lui; invece gli è cara, poiché ha sommo valore religioso, la parentela spirituale che consiste nell’ascoltare e praticare la parola di Dio. La parola di Dio: espressione preferita dal terzo evangelista; gli altri due Sinottici nel testo parallelo hanno: «la volontà di Dio». L’episodio, che ha una sua particolare suggestività, è riferito unicamente da Luca; questo scrittore, come già sappiamo, ama segnalare la presenza delle donne ed i loro sentimenti pieni di benevola attenzione e di delicatezza verso il Maestro.
 
Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano! Ascoltare e osservare significa compiere ciò che Dio Padre chiede ai suoi figli attraverso la vita di ogni giorno: lavoro, famiglia, professione, impegni sociali, politici ... una vita sinceramente cristiana, seria e impegnata, fortemente radicata nella concretezza del quotidiano, non con la testa tra le nuvole di gratificanti sogni. Il brano evangelico ci ricorda la “casa costruita sulla roccia o sulla sabbia” (Mt 7,21-27): chi ascolta la parola di Gesù costruisce la sua casa sulla roccia, ed è beato; come dire che la “beatitudine”, la salvezza eterna, dipende dall’ascolto della Parola; se non ascolta l’uomo costruisce la sua eterna rovina. La furia degli elementi della natura, ricordata nel racconto della “casa costruita sulla roccia”, in Ez 13,1-16 sta ad indicare l’ira di Dio che si abbatte rovinosamente su tutto quanto era stato costruito dai falsi profeti (cfr. Mt 7,15-20): «Di’ a quegli intonacatori di mota: Cadrà! Scenderà una pioggia torrenziale, una grandine grossa, si scatenerà un uragano ed ecco, il muro è abbattuto ... Perciò dice il Signore Dio: Con ira scatenerò un uragano, per la mia collera cadrà una pioggia torrenziale, nel mio furore per la distruzione cadrà grandine come pietre; demolirò il muro che avete intonacato di mota, lo atterrerò e le sue fondamenta rimarranno scoperte; esso crollerà e voi perirete insieme con esso e saprete che io sono il Signore» (Ez 13,11-14). Ritornando al nostro brano, allora, si può dire: colui che non ascolta va incontro all’ira di Dio! Per l’evangelista Luca  l’ascolto delle parole di Gesù e il metterle in pratica è fonte di beatitudine, praticamente è la condizione per entrare nel regno dei cieli. Si può dire che Luca crea volutamente un nesso strettissimo tra l’insegnamento di Gesù, la sua Parola e l’ascolto, ma non più della Torah (Dt 6,4-9), bensì del Vangelo. In questo emerge la novità della concezione della salvezza, il quale, benché in sintonia con la mentalità pragmatica dei giudei insista sul “fare” più che sull’ascolto della parola, ripone il conseguimento della vita eterna nell’ascolto-accoglienza della Parola, la seconda Persona della Trinità. Si può così dire che Gesù mette al centro del suo insegnamento l’uomo e lo riveste con il manto regale della libertà, è libero di ascoltare o di non ascoltare; è libero di imboccare la strada della beatitudine, o di imboccare la via delle eterna perdizione.
 
Maria è benedetta per la sua fede: «Allorché il Signore, attraverso i segni e i prodigi che compiva, andava rivelando ciò che nascondeva nella carne fino a riempire tutti di stupore e di ammirazione, qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: Beato il seno che ti ha portato. E lui: Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono. Come a dire: «Anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi [Gv l, 14]; ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne. Non si limitino gli uomini al godimento della prole temporale; godano piuttosto di congiungersi spiritualmente con Dio.» (Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 10,3).
 
Il Santo del Giorno - 11 Ottobre 2025 - San Giovanni XXIII - Il dialogo e la tenerezza per dare speranza: «La luce che splende sopra di noi, che è nei nostri cuori, che è nelle nostre coscienze, è luce di Cristo»: era la sera dell’11 ottobre 1962, il giorno in cui si aprì il Concilio ecumenico Vaticano II e così san Giovanni XXIII salutava la folla che aveva partecipato alla fiaccolata organizzata per l’evento di quel giorno. E poi pronunciò parole rimaste nella storia: «Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”». E poi: «Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza». In queste parole si coglie il senso della santità di Angelo Giuseppe Roncalli, Papa del dialogo con il mondo, Papa dalla tenerezza infinita. Era nato a Sotto il Monte, nella Bergamasca, il 25 novembre 1881; prete nel 1905, fu cappellano militare nel primo conflitto mondiale. Nel 1921 era visitatore apostolico in Bulgaria e poi in Turchia; nel 1944 arrivò a Parigi come nunzio. Nel 1953 divenne patriarca di Venezia e 5 anni più tardi diventava il 261° Pontefice. Firmò otto encicliche, tra le quali anche la «Mater et magistra» del 1961, sulla Dottrina sociale della Chiesa, e la «Pacem in terris» del 1963, contenente un potente appello «a tutti gli uomini di buona volontà» per la costruzione della pace e del giusto ordine sociale. Morì il 3 giugno 1963, è beato dal 2000 e santo il 27 aprile 2014. 
 
Concedi a noi, Padre onnipotente,
che, inebriati e nutriti da questi sacramenti,
veniamo trasformati in Cristo
che abbiamo ricevuto come cibo e bevanda di vita.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.