1 Ottobre 2025
 
Santa Teresa di Gesù Bambino, Vergine e Dottore della Chiesa
 
Nee 2,1-8; Salmo responsoriale Dal Salmo 136 (137); Lc 9,51-56
 
Colletta
O Dio, che apri le porte del tuo regno agli umili e ai piccoli,
fa’ che seguiamo con fiducia
la via tracciata da santa Teresa [di Gesù Bambino],
perché, per sua intercessione, ci sia rivelata la tua gloria eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Santa Teresa del Bambino Gesù, Dottore della Chiesa: Giovanni Paolo II (Omelia, 19 Ottobre 1997): Santa Teresa di Lisieux non ha potuto frequentare una Università e neppure studi sistematici. Morì in giovane età: e tuttavia da oggi in poi sarà onorata come Dottore della Chiesa, qualificato riconoscimento che la innalza nella considerazione dell’intera comunità cristiana ben al di là di quanto possa farlo un “titolo accademico”. Quando, infatti, il Magistero proclama qualcuno Dottore della Chiesa, intende segnalare a tutti i fedeli, e in modo speciale a quanti rendono nella Chiesa il fondamentale servizio della predicazione o svolgono il delicato compito della ricerca e dell’insegnamento teologico, che la dottrina professata e proclamata da una certa persona può essere un punto di riferimento, non solo perché conforme alla verità rivelata, ma anche perché porta nuova luce sui misteri della fede, una più profonda comprensione del mistero di Cristo. Il Concilio ci ha ricordato che, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, cresce continuamente nella Chiesa la comprensione del “depositum fidei”, e a tale processo di crescita contribuisce non solo lo studio ricco di contemplazione cui sono chiamati i teologi, né solo il Magistero dei Pastori, dotati del “carisma certo di verità”, ma anche quella “profonda intelligenza delle cose spirituali” che è data per via di esperienza, con ricchezza e diversità di doni, a quanti si lasciano guidare docilmente dallo Spirito di Dio (cfr. Dei Verbum, 8). La Lumen gentium, da parte sua, insegna che nei Santi “Dio stesso ci parla” (n. 50). È per questo che, al fine dell’approfondimento dei divini misteri, che rimangono sempre più grandi dei nostri pensieri, va attribuito speciale valore all’esperienza spirituale dei Santi, e non a caso la Chiesa sceglie unicamente tra essi quanti intende insignire del titolo di “Dottore”. Tra i “Dottori della Chiesa” Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo è la più giovane, ma il suo cammino spirituale è così maturo ed ardito, le intuizioni di fede presenti nei suoi scritti sono così vaste e profonde, da meritarle un posto tra i grandi maestri dello spirito. 
 
I Lettura - Antonio González-Lamadrid (Commento della Bibbia Liturgica): La figura di Neemia, con un posto di responsabilità nella corte persiana, richiama alla memoria una serie di personaggi simili: Giuseppe in Egitto, Daniele in Babilonia, Mardocheo, Ester e lo stesso Esdra in Persia Esdra, sotto l'aspetto religioso e Neemia nell'ordine profano sono i due artefici della restaurazione dopo l'esilio.
La disposizione attuale dei libri è Esdra Neemia e, per conseguenza, l'attività di Esdra suol essere collocata prima di quella di Neemia. Però molti storici moderni pensano che la ricostruzione delle mura e della città di Gerusalemme e, in generale, l'attività profana e materiale di Neemia abbia dovuto precedere la riforma religiosa di Esdra. Fu il cronista, probabilmente un levita del tempio di Gerusalemme, che invertì l'ordine dei libri e assegnò il primo posto a Esdra, con lo scopo di far risaltare la preminenza del sacerdozio e della vita religiosa della comunità.
Per comprendere la grandezza di Neemia, è necessario leggere i primi sei capitoli del suo libro. In questo modo,il lettore potrà scoprire l'audacia, il coraggio e la fortezza d'una delle personalità più vigorose del popolo giudaico.
 
Vangelo
Ti seguirò dovunque tu vada.
 
Il Vangelo racconta di tre uomini che dichiarano la loro disponibilità a divenire discepoli di Cristo. Al primo Gesù prospetta la sequela come una rinuncia alla casa, alla famiglia e a tutto ciò che dà sicurezza, dal secondo esige di essere seguito subito e al terzo dice in modo assai esplicito che per i suoi discepoli non c’è spazio per i rimpianti di quanto si lascia. Tre racconti di vocazioni che sono accomunate da una sola esigenza: lasciare tutto, anche gli affetti più cari per seguire Cristo.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,57-62
 
In quel tempo, mentre camminavano per la strada, un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».
Parola del Signore.
 
Le tre vocazioni sono accomunate da un’unica radicale esigenza: lasciare tutto. Bisogna comunque ammettere che Gesù tale radicalità non l’ha richiesta a tutti i discepoli. Non a tutti chiese l’abbandono dei beni (Cf. Lc 8,13). Per esempio non lo chiese a Zaccheo (Lc 19,1-10). Non a tutti chiese la rinuncia al matrimonio (Mt 19,3-12).
Nella prima scena è un uomo a prendere l’iniziativa e Gesù con la sua risposta, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, vuole sottolineare che egli «è profugo e ramingo, peggio degli animali, perché è rifiutato dai suoi compaesani, dai samaritani e infine dai giudei; è ricercato da Erode come pericoloso [Cf. 13,31-33]. La sua vera povertà è l’insicurezza, la situazione precaria in cui si trova, privo di alleanze e di protezioni. Il discepolo che si mette al suo seguito deve sapere che condividerà questo destino in cui non è possibile avere una stabilità o un insediamento protettivo nelle strutture mondane» (Rinaldo Fabris).
Nella seconda e nella terza chiamata le esigenze vocazionali si fanno più radicali: neppure i legami filiali e gli obblighi più sacri, come la sepoltura del padre, possono ritardare la risposta dell’uomo.
Gesù è più esigente degli antichi profeti, e in modo particolare del profeta Elia (cfr. la vocazione di Eliseo: 1Re 19,19ss): per chi vuol farsi discepolo del Cristo tutto deve passare in secondo piano, nessuna cosa al mondo può distrarlo dalla proclamazione del Regno di Dio. Tantomeno, una volta imboccata la strada del discepolato, è possibile tornare indietro.
Gesù «si dimostra assai più esigente dell’antico profeta Elia: egli non vuole solo coraggio e prontezza nel raccogliere l’invito-comando suo, ma esige anche fermezza e costanza nel portare avanti il proprio impegno, senza operare sconti e senza rimpianti o pentimenti. Egli non vuole discepoli nostalgici!» (Carlo Guidelli).
Alla luce della proposta dei figli di Zebedeo, l’insegnamento di Gesù suona come monito anche per chi è già entrato a fare parte del suo entourage.
 
Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio: È significativo che tutte e tre le risposte del Signore riguardino l’abitare in famiglia.
Al primo è detto che non gli è permesso dimorare praticamente in famiglia. Il secondo non deve restare in  famiglia, fino a quando non possa staccarsene, senza dare scandalo. Ed il terzo non deve avere nessun riguardo per la famiglia. Non è un caso che in tutte e tre le risposte venga fuori lo stesso elemento. Poiché i congiunti sono sempre più convinti di poter far valere i loro diritti. E si scandalizzano e si urtano sempre più, quando la chiamata di Dio toglie un membro dalla famiglia. Spesso genitori e fratelli non comprenderanno come un figlio o una figlia possa seguire la chiamata di Dio senza condizioni. Ed il figlio o la figlia devono chiudere un occhio su questa incomprensione e sopportare. Dio è più grande. Quando mette la mano su un uomo, quest’uomo appartiene esclusivamente a lui. Niente mezzi termini, nessuna divisione, nessun compromesso. E proprio perché la rinunzia riesce spesso difficile, e lo strappo è doloroso, Gesù formula la sua risposta in termini secchi e duri. C’è una sola alternativa. Chi vuole andare con lui, deve essere con lui. E lui è essenzialmente solo. Perciò il discepolo deve dividere la sua solitudine.
 
Ti seguirò: Veritatis splendor 21: Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l’uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia,della presenza operante dello Spirito Santo in noi. Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27). Sotto l’impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di Cristo (cfr. Gal 3,27): «Rallegriamoci e ringraziamo - esclama sant’Agostino rivolgendosi ai battezzati -: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!». Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cfr. Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cfr. Gal 5,16-25). La partecipazione poi all’Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cfr. 1Cor 11,23-29), è vertice dell’assimilazione a Cristo, fonte di «vita eterna» (cfr Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26).
 
Le condizioni poste da Gesù per diventare suoi discepoli - Filosseno di Mabbug (Hom., 9, 306-307.312-313): “Colui che mette mano all’aratro e poi si gira indietro non è adatto per il Regno di Dio” (Lc 9,62). Colui che svolge con cura questo lavoro della natura e guida l’aratro e i buoi secondo le regole umane, non smette mai di guardare davanti a sé; non guarda mai all’indietro perché un tal modo di lavorare non sarebbe farlo con cura, non potrebbe camminare avanti a sé, i suoi solchi non sarebbero aperti in linea diritta, e i buoi non procederebbero innanzi; e questo, per quanto si tratti di lavoro materiale e chi lo vede appartenga del pari all’ordine corporale. Ora, il lavoro del mio discepolo è diverso dall’altro, così come un mondo differisce dall’altro, e una vita dall’altra, e gli esseri immortali dai mortali, e Dio dagli uomini. Se dunque assumi il giogo della mia disciplina nella tua anima e nel tuo corpo, svolgi con cura il lavoro dei miei precetti...
Molti si fanno discepoli per fregiarsi del nome di Cristo e non per onorare Cristo; si lasciano ingaggiare da lui per rimanere nei piaceri corporei e non per portare le austerità dei suoi comandamenti. Altri si avvicinano a questa regola che esige rinuncia, spinti dal desiderio di Mammona, e per acquistare fuori dal mondo quello che non possono avere standovi dentro. Attraverso quell’unico discepolo di cui parla il Vangelo del nostro Salvatore, Gesù ha stigmatizzato questo pensiero iniquo in tutti gli altri: “Maestro, ti seguirò dovunque andrai; e Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20; Lc 9,58). Lungi da me, discepolo d’iniquità! Io non posso darti quello che tu desideri e tu non puoi ricevere quello che io ti do; conosco ciò che chiedi e io non ti do ciò che cerchi; hai creduto di venire a me per amore della ricchezza; sei andato a cercare le tenebre nella luce, la povertà nel possesso autentico, e la morte nella vita; tu vuoi acquistare venendo a me quanto io chiedo a tutti di lasciare per seguirmi; la porta per la quale sei spinto ad entrare per seguirmi è la stessa per la quale voglio farti uscire. Ecco perché non ti accolgo. Io sono povero per la mia condizione pubblica, e, per tal motivo, non detengo pubbliche ricchezze da elargire nel mondo in cui sono venuto. Io sono visto come uno straniero e non ho né casa né tetto, e chi vuole essere mio discepolo eredita da me la povertà: perché vuoi acquistare da me ciò che ti faccio rinunciare a possedere?
 
Il Santo del Giorno - 1 Ottobre 2025 - Santa Teresa di Lisieux. È piccola la strada che conduce al cuore di Dio e dell’umanità: Elogio di ciò che è piccolo, maestoso canto alla vita e alla fiducia smisurata che arriva all’abbandono nel cuore di Dio: tutto questo, e molto di più, è il tesoro prezioso che ci dona santa Teresa di Gesù Bambino, o di Lisieux. “Piccola” è la via che porta a Dio, appunto, nella visione spirituale di questa santa, che ha camminato nella vita lungo un percorso non sempre facile, segnato dalla fatica e dalla sofferenza fisica e spirituale. Un percorso che la condusse fino al cuore di Dio e che è l’icona dell’impresa che ogni cristiano è chiamato a compiere. Paradossalmente furono proprio gli ostacoli e le difficoltà, come viene narrato in «Storia di un’anima», che aiutarono Teresa a trovare la sua “piccola via” verso il Signore: è nelle imperfezioni della vita che è possibile cogliere con più forza l’amore del Signore. Nata nel 1873 ad Alençon in Francia, Teresa era cresciuta in una famiglia “santa” (anche i genitori, Luigi e Zelia Martin, sono stati canonizzati) e a 8 anni cominciò a frequentare la scuola presso le Benedettine di Lisieux, dove si era trasferita nel 1877, dopo la morte della madre. Pian piano crebbe il desiderio di farsi carmelitana, ma per lei non fu semplice, vista la giovane età: solo il 9 aprile 1888 entrò nel Carmelo di Lisieux. La sua ricerca spirituale sui passi della santità venne interrotto dalla tubercolosi: morì nel 1897 all’età di 24 anni. Nel 1997 è stata proclamata dottore della Chiesa. (Matteo Liut)
 
Il sacramento che abbiamo ricevuto, o Signore,
accenda in noi la forza di quell’amore
che spinse santa Teresa [di Gesù Bambinoad affidarsi
interamente a te e a invocare per tutti la tua misericordia.
Per Cristo nostro Signore.
interamente a te e a invocare per tutti la tua misericordia.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
30 Settembre 2025
 
San Girolamo, Presbitero e Dottore della Chiesa
 
Zc 8,20-23; Salmo Responsoriale Dal Salmo 86 (87); Lc 9,51-56
 
Colletta
O Dio, che hai dato al santo presbitero Girolamo
un amore soave e vivo per la Sacra Scrittura,
fa’ che il tuo popolo si nutra sempre più largamente
della tua parola e trovi in essa la fonte della vita.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale): Che cosa possiamo imparare noi da san Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice san Girolamo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio per ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio, che si rivolge anche a noi, e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la Liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.
E così concludo con una parola di san Girolamo a san Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice san Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità, la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).
 
I Lettura: Epifanio Gallego (Commento della Bibbia Liturgica): I versetti 20-23 … formano un armonico insieme degli oracoli nei quali sono presentati tutti i popoli della terra, e non solo i giudei, che si muovono verso Gerusalemme, la nuova Gerusalemme dei tempi messianici, il centro di attrazione di tutti i gentili che andranno a «supplicare» e a «consultare Yahveh», cioè a incontrarsi con l’unico Dio cielo e della terra per le uniche due vie convergenti: la conoscenza e l’amore, la rivelazione e la preghiera. Così è stato, anche se l’avveramento della profezia è stato assai diverso da quello che avrebbe potuto immaginare quella generazione.
L’ultimo oracolo è tutto un vangelo posto in bocca ai Gentili: «Vogliamo venire con voi, perché ... Dio è con voi», Chiesa mediatrice e missionaria, testimonianza vivente della presenza di Dio in mezzo agli uomini; Chiesa che non compirà pienamente la sua missione, fino a che la sua faccia non abbia un candore e un’attrattiva capace di suggerire ai popoli di prenderla per la mano, con premura e insistenza, per il bisogno di unirsi al Dio di lei. Dio si riflette in essa, come in uno specchio tersissimo, così la vera salvezza umano-divina.
 
Vangelo
Prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme.
 
Dovremmo provare amarezza dinanzi a certi fatti …, mentre Gesù decisamente si mette in cammino verso Gerusalemme, dove avrebbe compiuto la volontà de Padre bevendo fino all’ultima goccia dall’amaro calice della passione, i litigiosi fratelli Giacomo e Giovanni propongono di incenerire i Samaritani colpevoli di non aver accolto il loro Maestro. Decisamente una proposta omicida. Gesù, spinto dall’amore, offre la sua vita per salvare tutti gli uomini, Giacomo e Giovanni vogliono togliere la vita ai Samaritani a motivo di un gretto nazionalismo. Si potrebbe obiettare che i due apostoli non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo e che a motivo di questo le loro menti erano oscurate e fissate a norme e comandamenti tribali, sarà vero, ma c’è un capo di accusa che li condanna. È la vita di Gesù, le sue opere, i suoi insegnamenti, le sue parole, i suoi richiami …, a farci caso tutti tesi a creare un cuore nuovo, aperto alla carità, al perdono, all’amore … dinanzi a questi cristallini inviti di comportamento non ci sono scuse che tengono. Forse è lo stesso dilemma che dilania tanti cristiani, tengono in mano la Parola di Dio, l’ascoltano, magari con molta attenzione, eppure vivono nella ipocrisia, nella invidia, nell’odio, e spesso non contenti di tutto questo, e per torti veri o presunti, a piè sospinto, invocano il fuoco della vendetta divina che consumi l’umanità intera. In verità, a ben considerare, non c’è nulla di nuovo sotto il sole (Qo 1,9).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,51-56
 
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
 
Parola del Signore.
 
Gesù prese la ferma decisione ... Gesù è diretto a Gerusalemme, la città santa, dove si deve compire il suo destino di dolore e di gloria. L’espressione i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto oltre i giorni dell’assunzione di Gesù (Cf. At 1,2) ricorda anche i giorni della passione, morte e resurrezione.
La frase prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme, in greco letteralmente suona egli indurì il volto per andare a Gerusalemme, un modo di dire semitico (Cf. Ger 21,10; Ez 6,2; 21,2) con cui l’evangelista Luca vuole sottolineare la risolutezza di Gesù nell’affrontare il suo destino di morte che lo attende a Gerusalemme: «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12,50). La stessa espressione la troviamo in Isaia 50,7 quando si sottolinea la missione del Servo sofferente: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso».
Il percorso più rapido che dalla Galilea porta a Gerusalemme prevede l’attraversamento della regione dei Samaritani, i quali, sempre molto mal disposti verso i Giudei (Cf. Gv 4,9), si rifiutano di accogliere Gesù. Da qui l’inimmaginabile reazione degli apostoli Giacomo e Giovanni.
La richiesta dei «figli del tuono» (Mc 3,17) cavalca l’onda di un messianismo terreno e ricorda 2Re 1,10-12 in cui Elia, per due volte, chiama il fuoco dal cielo per incenerire i suoi nemici.
La risposta di Gesù non si fa attendere ed è molto dura: si voltò e li rimproverò. Il verbo che Luca usa è epitimao che significa, letteralmente, vincere con un comando, minacciare, usato da Gesù negli esorcismi. In questo modo il senso della richiesta e del rimprovero si fanno più chiari.
In sostanza, come Satana, Giacomo e Giovanni propongono a Gesù un messianismo trionfalistico che sottende il rifiuto della croce. A questa proposta Gesù si oppone con forza. È lo stesso rimprovero che aveva mosso a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,23).
 
Rosanna Virgili (Vangelo secondo Luca)Il rifiuto di Samaria e l’inizio del cammino (vv. 51-56) - I versetti iniziali introducono il tempo di tutto il cammino che va fino alla fine del vangelo. La menzione dei «giorni della sua salita (analémpseos)» evoca l’ascensione del Signore risorto in Lc 24,51 («Mentre li benediceva, si separò da loro e veniva fatto salire su, in cielo»), cioè del suo ritorno al Padre. All’origine di questo cammino che si concluderà con la morte e poi con la risurrezione, c’è la decisione di Gesù, segno di come la croce non fosse la meccanica esecuzione di una volontà divina, ma come il Figlio vi partecipasse con la propria fede. Gesù «rese duro il suo volto» (v. 51, to prósopon estérisen), proprio come il Servo, per affrontare il suo destino di sofferenza (cf Is 50,6-7). I preparativi per la partenza vengono fatti in Samaria, che si mostra chiusa all’accoglienza del Maestro (v. 53, cf v. 48). Un dettaglio teologico, più che di cronaca, per manifestare come la salvezza che sarebbe venuta da Gesù dovesse appartenere alla Giudea ed a Gerusalemme e non alla Samaria (cf Gv 4,22: «La salvezza viene dai giudei»). La reazione di Giacomo e Giovanni è tipica dell’atteggiamento profetico (cf 2Re 1,10-14), ma Gesù li rimprovera. Nonostante la città dove la sua resa di amore dovrà consumarsi fosse Gerusalemme, Gesù amerà Samaria e apprezzerà i samaritani più dei giudei (cf Lc 10,29-36; 17,15-17).
Ancor più toccante è, per questo, la reazione frequente di rifiuto che Gesù si trova ad avere. Oltre che qui, all’inizio del cammino per Gerusalemme, Gesù fu rifiutato a Nazaret dai suoi concittadini (cf 4,28-29), all’inizio della missione in Galilea, e poi sarà rifiutato a Gerusalemme (cf 19,41-44). Il modello è quello del profeta perseguitato, secondo la profezia di Simeone (il “segno di contraddizione” di Lc 2,34).
 
Il fuoco alla fine dei tempi - Il fuoco del giudizio diventa castigo senza rimedio, vero fuoco dell’ira, quando cade sul peccatore indurito. Ma allora - tale è la forza del simbolo - questo fuoco, che non può più consumare l’impurità, rimesta ancora le scorie (cfr. Ez 22,18-22). La rivelazione esprime così quel che può essere l’esistenza di una creatura che rifiuta di essere purificata dal fuoco divino, ma ne rimane bruciata. Qui c’è qualcosa di più che non nella tradizione che riferisce l’annientamento di Sodoma e Gomorra (Gen 19,24). Fondandosi forse sulle liturgie sacrileghe della Geenna (Lev 18, 21; 2 Re 16, 3; 21, 6; Ger 7, 31; 19, 5 s), approfondendo le immagini profetiche dell’incendio (Is 29, 6; 30, 27-33; 31, 9) e della fusione dei metalli, si giunge a rappresentare il  giudizio escatologico come un fuoco (Is 66,15s), che prova l’oro (Zac 13, 9). Il  giorno di Jahve è come il fuoco del fonditore (Mal 3,2), e brucia come una fornace (Mal 3,19) e divora tutta la terra (Sof 1,18; 3,8) a cominciare da Gerusalemme (Ez 10, 2; Is 29, 6). Ora questo fuoco sembra bruciare dall’interno, come quello che «esce di mezzo a Tiro» (Ez 28,18). Dei cadaveri di quelli che furono ribelli, «il verme non morrà ed il loro fuoco non si spegnerà» (Is 66, 24; cfr. Mc 9,48), «fuoco e verme saranno nella loro carne» (Giudit 16,17). Ma qui si ritrova ancora l’ambivalenza del simbolo: mentre gli empi sono abbandonati al loro fuoco interiore ed ai vermi (Eccli 7,17), gli scampati dal fuoco si trovano circondati dal muro di fuoco che Jahve rappresenta per essi (Is 4,4 s; Zac 2,9). Giacobbe ed Israele, purificati, diventano a loro volta un fuoco (Ab 18), come se partecipassero alla vita di Dio. Con la venuta di Cristo sono incominciati gli ultimi  tempi, quantunque la fine dei tempi non sia ancora giunta. Anche nel Nuovo Testamento il fuoco conserva il suo valore escatologico tradizionale, ma la realtà religiosa che esso significa si attua già nel tempo della Chiesa. Annunciato come il vagliatore che getta la paglia nel fuoco (Mt 3,10) e battezza nel fuoco (3,11s), Gesù, pur rifiutando la funzione di giustiziere, ha mantenuto i suoi uditori nell’attesa del fuoco del giudizio, riprendendo il linguaggio classico del Vecchio Testamento. Egli parla della «Geenna del fuoco» (5,22), del fuoco in cui saranno gettati la zizzania improduttiva (13,40; cfr. 7,19) ed i sarmenti (Gv 15,6): sarà un fuoco che non si spegne (Mc 9,43 s), in cui «il loro verme» non muore (9,48), vera fornace ardente (Mt 13,42.50). Null’altro che un’eco solenne del Vecchio Testamento (cfr. Lc 17, 29).
 
Come seguire Gesù: “E se egli rimprovera i discepoli che volevano far discendere il fuoco su coloro che non avevano voluto accogliere Cristo [cfr. Lc 9,55], questo ci indica che non sempre si devono colpire coloro che hanno peccato: spesso giova di più la clemenza, sia a te, perché fortifica la tua pazienza, sia al colpevole, perché lo spinge a correggersi. Ma il Signore agisce mirabilmente in tutte le sue opere. Egli non accoglie colui che si offre con presunzione, mentre non si adira contro coloro che, senza nessun riguardo, respingono il Signore. Egli vuole così dimostrare che la virtù perfetta non ha alcun desiderio di vendetta, che non c’è alcun posto per la collera laddove c’è la pienezza della carità, e che, infine, non bisogna respingere la debolezza ma aiutarla. L’indignazione stia lungi dalle anime pie, il desiderio della vendetta sia lontano dalle anime grandi; e altrettanto lontano stia dai sapienti l’amicizia sconsiderata e l’incauta semplicità. Perciò egli dice a quello: «Le volpi hanno tane»; il suo ossequio non è accettato perché non è trovato effettivo. Con circospezione si usi dell’ospitalità della fede, nel timore che aprendo agli infedeli l’intimità della nostra dimora si finisca col cadere, per la nostra imprevidente credulità, nella rete della cattiva fede altrui.” (Ambrogio, In Luc., 7,27s.).
 
Il Santo del Giorno - 30 Settembre 2025 - San Girolamo - Che siano parole o altri strumenti, ciò che conta è portare il Vangelo a tutti: San Girolamo ci offre un interessante spunto di meditazione: oggi, nel XXI secolo, la parola “funziona” ancora come mezzo di trasmissione del Vangelo? La riflessione parte dalla consapevolezza che ogni cristiano ha un’unica chiara vocazione: essere portatore di Dio nel mondo in ogni angolo del pianeta e in ogni tempo, ma oggi sembrano essere efficaci altri linguaggi. In realtà, però, anche se la parola era di certo lo strumento privilegiato per Girolamo, cui si deve la versione “popolare” della Bibbia in latino (la cosiddetta “Vulgata”), a ben guardare la scrittura non è mai stato l’unico mezzo di trasmissione della fede, che passa da un corpo vivo, la Chiesa, con tutte le sue espressioni, dal culto fino alla carità. San Girolamo (o Gerolamo), sacerdote e dottore della Chiesa, allora ci ricorda in realtà che, qualsiasi mezzo scegliamo per portare la Parola di Dio, la preoccupazione dev’essere quella di arrivare a tutti, di toccare le vite di tutti. Era nato in Dalmazia nel 347 e aveva studiato a Roma, spostandosi poi a Treviri. Si trovò in seguito ad Aquileia, dove aveva coltivato anche l’ideale della vita comunitaria. Battezzato nel 366, dal 375 fu eremita in Oriente: visse per qualche tempo nel deserto, per poi trasferirsi ad Antiochia e Costantinopoli. Dopo un periodo a Roma, dove fondò una comunità di vita religiosa femminile, nel 385 s’imbarcò alla volta della Terra Santa: a Betlemme fondò un monastero maschile e uno femminile. Fino alla morte, nel 420, si dedicò alla traduzione della Bibbia. (Matteo Liut)  
 
I divini misteri che abbiamo ricevuto
nella gioiosa memoria di san Girolamo
risveglino, o Signore, i cuori dei tuoi fedeli,
perché, meditando i santi insegnamenti,
comprendano il cammino da seguire
e, seguendolo, ottengano la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 29 Settembre 2025
 
Santi Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele
 
Dn 7,9-10.13-14 (oppure Ap 12,7-12a); Salmo Responsoriale Dal Salmo 137 [138]; Gv 1,47-51
 
 
Colletta
O Dio, che con ordine mirabile
affidi agli angeli e agli uomini la loro missione,
fa’ che la nostra vita sia difesa sulla terra
da coloro che in cielo
stanno sempre davanti a te per servirti.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo della Chiesa 335 Nella liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza (così nell’In paradisum deducant te angeli... In paradiso ti accompagnino gli angeli nella liturgia dei defunti, o ancora nell’«Inno dei cherubini» della liturgia bizantina), e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi).  
 
Catechismo degli Adulti - Creazione degli angeli [368] Dio ha creato anche gli angeli, che sono creature personali, puri spiriti, immortali, più intelligenti e potenti degli uomini. La libertà umana non è sola nell’universo e il mondo è più vasto e profondo di quanto la mentalità razionalista possa supporre. Peraltro appare del tutto plausibile che gli esseri materiali della natura e gli uomini, esseri materiali e spirituali nello stesso tempo, abbiano al di sopra di sé altri esseri puramente spirituali. Anche questi sono stati creati per mezzo di Cristo e in vista di lui; sono stati chiamati a vivere in comunione con lui e a cooperare per l’avvento del regno di Dio.
Servitori di Dio e di Cristo [378] Nella nostra cultura dubbi e negazioni riguardo agli angeli e ai demòni coesistono con il fascino dell’occulto. Occorre chiarire e chiedersi: ci sono davvero queste presenze nella storia? quale incidenza hanno? La rivelazione attesta la creazione dei puri spiriti e la loro chiamata alla comunione con Cristo. Creati liberi, possono liberamente accogliere o rifiutare il disegno di Dio. Una parte di essi lo accoglie: sono gli angeli santi. Ora stanno davanti a Dio per servirlo, contemplano la gloria del suo volto e giorno e notte cantano la sua lode. «Potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola» (Sal 103,20), intervengono nella storia, a servizio del suo disegno di salvezza.
[379] Cristo è il loro capo ed essi sono «i suoi angeli» (Mt 25,31); gli sono accanto come servitori in alcuni momenti decisivi della sua vita. Un angelo porta a Maria e a Giuseppe l’annuncio dell’incarnazione del Figlio di Dio; una moltitudine di angeli loda Dio per la sua nascita; un angelo lo protegge dalla persecuzione di Erode; gli angeli lo servono nel deserto; un angelo lo conforta nell’agonia del Getsemani; gli angeli annunciano la sua risurrezione; infine, saranno ancora gli angeli ad assisterlo nell’ultimo giudizio.
Protettori della Chiesa [380] In modo analogo gli angeli accompagnano e aiutano la Chiesa nel suo cammino. Incoraggiano gli apostoli; li liberano dalla prigione; li sostengono nell’evangelizzazione. Proteggono tutti i fedeli e li guidano alla salvezza: «Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo alla vita». Si comprende così la tradizionale e bella devozione agli angeli custodi.
 
I Lettura: In questa seconda parte del libro di Daniele predominano un linguaggio e uno stile che vengono definiti apocalittici (rivelazione). Le visioni sono caratterizzate da simboli complessi, per questo si ha spesso l’intervento di un angelo che le interpreta per Daniele. I troni che vengono collocati sono i troni dei giudici, i santi di Dio che vengono chiamati a giudicare con lui. Il fiume di fuoco che scorre dinanzi al vegliardo (Dio), simboleggia l’ira di Dio, quale fuoco divorante i suoi nemici. Il titolo Figlio dell’uomo (aramaico bar nasha’, o l’ebraico ben ‘adam) equivale in primo luogo a «uomo» (cfr. Sal 8,5). Ma l’espressione ha qui un senso particolare, eminente, per cui designa un uomo che supera misteriosamente la condizione umana. Nei vangeli indica Gesù. Una lettura delle visioni notturne alla luce del Nuovo Testamento fa comprendere che il testo parla di un futuro molto lontano dal tempo di Daniele, un futuro nel quale i cieli sono aperti.
 
Vangelo
Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo.
Nell’incontrare Natanaèle, Gesù manifesta una conoscenza sovraumana: Ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi. Nel vangelo di Giovanni, Gesù dà spesso prova di una conoscenza superiore degli avvenimenti e delle persone (6,61; 13,1), e di essere padrone di ogni situazione che gli si presenta: Gesù, conosce tutti e non ha bisogno che alcuno dia testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosce quello che c’è nell’uomo (Gv 2,23-25). Vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio… Giovanni si ispira alla scala di Giacobbe (Gn 28,10-17). Come in quell’episodio della Genesi, il riferimento agli angeli significava l’incontro e la comunicazione di Dio con gli uomini, così qui Gesù, in quanto Figlio dell’uomo, è diventato il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra.
 
Dal Vangelo secondo Giovanni
1,47-51
 
In quel tempo, Gesù, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!».
Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».
 
Parola del Signore
 
Mario Galizzi (Vangelo secondo Giovanni): L’incontro Gesù-Natanaele è ben descritto. Gesù gli fa capire che lo conosce in profondità; anzi, che l’ha conosciuto e visto, e perciò scelto, prima ancora che Filippo lo chiamasse. Gesù già sapeva che Natanaele era un vero israelita, cioè che apparteneva a quel resto di Israele, povero e umile, che viveva, alimentandosi alle Scritture, l’ansiosa attesa del Messia.
Di fronte a questa esperienza Natanaele pronuncia il suo atto di fede, premettendo di riconoscersi discepolo. Egli chiama Gesù «Rabbi», cioè «Maestro», e poi aggiunge: «Tu sei il Figlio di Dio; tu sei il re d’Israele». Il suo atto di fede è unicamente fondato sulle Scritture ed è strettamente legato alle profezie messianiche davidiche. L’espressione «Figlio di Dio» non ha qui la solennità di 1,34. Qui è spiegata dall’espressione: «Tu sei il re d’Israele». Il Messia, atteso come discendente di Davide, era, secondo la promessa, chiamato «figlio di Dio» (2 Sam 7,14; Sal 89,4-5.27-28). Natanaele si mantiene come Filippo, in un orizzonte puramente naziona­listico. Gesù che lo porta a conoscere il di più: «Vedrai cose maggiori di queste»; e poi passa all’uso del plurale, chiaro indizio che qui Natanaele è visto come tipo di un gruppo: «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (l,51).
Natanaele, sentendo Gesù, è subito riportato alle Scrit­ture, a quanto scrisse Mosè; in particolare al sogno di Giacobbe (Gn 28,10-22). Ora però, si parla di «cielo aperto», e non si parla di «terra»; perciò MO si ò dire con Giacobbe: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è la casa di Dio; questa è la porta del cielo». Ora questo luogo, questa casa, questa porta è il Figlio dell’uomo, come ama chiamarsi Gesù; ed è lui che apre la via del cielo.
È difficile dire che cosa, quel giorno, abbia capito Natanaele, ma è certo che per l’evangelista e la comunità cristiana Gesù è il tempio di Dio, il luogo di incontro tra Dio e l’umanità, tra Dio e ciascun uomo. Certamente le Scritture (per noi cristiani l’Antico Testamento) ci parlano e ci conducono a Gesù, come hanno condotto Filippo e Natanaele. Il compimento delle Scritture, però, va oltre il previsto: la realtà, supera la promessa.
 
Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele: Dell’esistenza di questi Angeli parla esplicitamente la Sacra Scrittura. Michele, “chi è come Dio?”, è citato nella Bibbia come primo dei principi e custode del popolo di Israele (Dn 12,1), nella Lettera di Giuda è definito come arcangelo, mentre nell’Apocalisse di Giovanni, conduce i suoi angeli nella battaglia contro satana, e lo sconfigge (Ap 12,7-8). Gabriele, “fortezza di Dio”, è l’annunciatore delle divine rivelazioni. Rivela a Daniele i segreti del piano di Dio (Dn 9,21-22). Annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni (Lc 1,11-19) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-31). Raffaele, “medicina di Dio”, ha il compito di accompagnare il giovane Tobi per rendergli sicuro il cammino in strade sconosciute e gli suggerisce come guarire il padre dalla temporanea cecità.
Al «nostro disincantato mondo occidentale basato sulla scienza sperimentale manca, molto spesso, quello sguardo di stupore che contraddistingue invece le persone semplici e i bambini. Il nostro tempo seleziona le verità della fede col criterio del “politicamente corretto” e del “credibile”, buttando nella pattumiera tutto ciò che - a parer nostro, dominatori dell’universo - stride con il buon senso. Parlare di angeli significa parlare di Dio, aprirsi alla fede nell’altrove, nel di più significa credere che non tutta la realtà si esaurisce sotto le nostre dita. Tra questi amici di Dio tre angeli rivestono un ruolo fondamentale: Michele Raffaele e Gabriele, annunciatori, validi combattenti, discreti compagni di strada. Vuoi sapere cosa pensa Dio di te? Chiama in soccorso Gabriele, mille volte meglio della posta celere. Ti senti depresso e non trovi cura al tuo malumore? È lì per te Raffaele - medicina di Dio - che ti guida come ha fatto discretamente con Tobia. Ti senti travolto dalla negatività e dalla parte oscura della vita? Michele è lì per te: carattere impetuoso e combattivo non vede l’ora di fare a botte. Ci sono amici, ci sono, provate a chiamarli, vedrete che vengono, gente di poca fede!» (Paolo Curtaz).
 
La presenza degli angeli - Origene, Comment. in Luc., 23, 8-9: Quanto a me, non esito affatto a pensare che gli angeli siano presenti anche nella nostra assemblea, in quanto essi vegliano non soltanto su tutta la Chiesa presa nel suo insieme, ma anche su ciascuno di noi. È di essi che parla il Salvatore, quando dice: I loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10). Ci sono qui due Chiese: quella degli uomini e quella degli angeli. Se quanto noi diciamo è conforme al pensiero divino e all’intenzione delle Scritture, gli angeli ne godono e pregano per noi. Ed è perché gli angeli sono presenti nelle Chiese, in tutte, o almeno in quelle che lo meritano e che appartengono a Cristo, che è prescritto alle donne, durante la preghiera, di avere un velo sulla testa a causa degli angeli (1Cor 11,10). Di quali angeli si tratta? Senza alcun dubbio degli angeli che assistono i santi e si rallegrano nella Chiesa; angeli che noi non vediamo perché il fango del peccato ci copre gli occhi, ma che vedono gli apostoli di Gesù ai quali il Signore dice: In verità, in verità vi dico: voi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e discendono sul Figlio dell’uomo (Gv l,51).
Se io avessi la grazia di vederli come gli apostoli e di guardarli come li contemplò Paolo, scorgerei senza dubbio ora la folla di angeli che vedeva Eliseo e che Gihezi, che era al suo fianco, non vedeva affatto. Gihezi aveva paura di essere catturato dai nemici, perché vedeva Eliseo tutto solo. Ma Eliseo, in quanto era profeta del Signore, si mise a pregare e disse: O Signore, apri gli occhi di questo servo in modo che egli veda che ci sono più con noi che con loro (2Re 6,17). E subito, alla preghiera di quel santo, Gihezi vide gli angeli che non vedeva prima.
 
Il Santo del Giorno - 29 Settembre 2025 - Michele, Gabriele e Raffaele. Le voci e i volti «amici» di un Dio che sembra lontano ma ci è accanto - Nel buio delle nostre solitudini, delle nostre fatiche quotidiane, degli ostacoli che l’esistenza ci pone giorno dopo giorno, il nostro cuore ha bisogno di sentire che l’universo ci è accanto. I cristiani sanno, in realtà, che lo stesso Creatore dell’universo cammina assieme a noi, perché ha condiviso con l’umanità anche la morte, sconfiggendola. E gli angeli e gli arcangeli come Michele, Gabriele e Raffaele sono lì a ricordarci che la nostra forza sta nell’amore di Dio. Essi, infatti, sono coloro che mediano, che portano come messaggeri le parole di Dio fino alle nostre orecchie e ci mostrano il volto del Signore. La devozione popolare da sempre si rivolge a loro perché si facciano anche portatori delle nostre parole fino al cuore di Dio, proteggendoci così dai marosi della vita. E l’identità dei tre arcangeli celebrati oggi ci parla di un Signore che ci è amico e compagno di strada, ricordandoci che Egli è unico (Michele l’avversario del maligno), che ha un progetto di salvezza da offrire a tutto il mondo (Gabriele il messaggero) e ci sostiene a ogni nostro passo, anche il più incerto e doloroso (Raffaele il soccorritore). Il culto ha radici antiche che affondano nella tradizione veterotestamentaria e trovano alimento anche nel Nuovo Testamento (Gabriele è l’angelo che annuncia a Maria la nascita di Gesù). La loro identità porta un messaggio di speranza: Dio ci parla, sta a noi saperlo ascoltare davvero. (Matteo Liut)
 
Nutriti con il pane del cielo,
ti preghiamo, o Signore, perché, rinvigoriti dalla sua forza,
sotto la fedele custodia dei tuoi angeli
progrediamo con coraggio nella via della salvezza.
Per Cristo nostro Signore. 
 
 28 SETTEMBRE 2025
 
XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C
 
Am 6,1a.4-7; Salmo Responsoriale dal Salmo 145 (146); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31
 
 
Colletta
O Dio, che conosci le necessità del povero
e non abbandoni il debole nella solitudine,
libera dalla schiavitù dell’egoismo
coloro che sono sordi alla voce di chi invoca aiuto,
e dona a tutti noi una fede salda nel Cristo risorto.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
 
Papa Francesco (Udienza Generale 18 Maggio 2018): Desidero soffermarmi con voi oggi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. La vita di queste due persone sembra scorrere su binari paralleli: le loro condizioni di vita sono opposte e del tutto non comunicanti. Il portone di casa del ricco è sempre chiuso al povero, che giace lì fuori, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. Questi indossa vesti di lusso, mentre Lazzaro è coperto di piaghe; il ricco ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro muore di fame. Solo i cani si prendono cura di lui, e vengono a leccare le sue piaghe. Questa scena ricorda il duro rimprovero del Figlio dell’uomo nel giudizio finale: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero […] nudo e non mi avete vestito» (Mt 25,42-43). Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi.
Gesù dice che un giorno quell’uomo ricco morì: i poveri e i ricchi muoiono, hanno lo stesso destino, come tutti noi, non ci sono eccezioni a questo. E allora quell’uomo si rivolse ad Abramo supplicandolo con l’appellativo di “padre” (vv. 24.27). Rivendica perciò di essere suo figlio, appartenente al popolo di Dio. Eppure in vita non ha mostrato alcuna considerazione verso Dio, anzi ha fatto di sé stesso il centro di tutto, chiuso nel suo mondo di lusso e di spreco. Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”.
Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo.
 
I Lettura: Il profeta Amos, con parole forti, rimprovera Israele perché, dimenticando l’alleanza con il Signore, è sprofondato nelle paludi del lusso, del godimento e del benessere. Il castigo di Dio non tarderà a raggiungere il popolo eletto per punirlo esemplarmente.
 
II Lettura: L’apostolo Paolo non ha dubbi, per entrare nel regno di Dio è necessario attraversare molte tribolazioni (cfr. At 14,22). È la logica della Croce, la vita cristiana è milizia.
 
Vangelo
Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
 
Il tema del racconto evangelico è il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché «chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è: chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (cfr. Lc 6,20-26).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 16,19-31
 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
 
Parola del Signore.
 
Il ricco e il povero Lazzaro - La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa molto insolita, il ricco gaudente è anonimo.
Un uomo ricco ... un povero ... All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivande, épulum banchetto), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulàbatur cotidie splèndide). I septemviri epulones erano uno dei quattro più importanti collegi religiosi della Roma antica, insieme a quelli dei pontefici, degli auguri e dei quindecimviri sacris faciundis. Il loro ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbliche feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondantemente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a loro favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (Cf. Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is l,17; 58,7).
La ricchezza dell’Epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «vestiva di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di telo di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo. Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (Cf. Sal 22,17.21; Prov 26,11; Mt7,6).
... morì il povero ... morì anche il ricco ...  Stando negli inferi ... Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudine presentate come castighi e premi eterni.
Il tema del racconto evangelico è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché «chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertirsi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è: chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (Cf. Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologià della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri.
Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Canopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (Cf. Prov 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutta qui la «morale» della parabola.
Neanche se uno risorgesse dai morti. L’uomo ricco chiede un miracolo per i suoi cinque fratelli, perché si convertano. Chiedere un miracolo per credere era un’idea fissa degli Ebrei, lo ricorderà anche Paolo ai cristiani di Corinto: «E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza» (1Cor 1,22). Molte volte i Giudei avevano chiesto a Gesù un segno per credere in lui e Gesù lo offrirà nella sua risurrezione, ma neanche questo segno servirà a convincere gli Ebrei. Quindi, nelle parole di Gesù c’è una profonda lezione di vita cristiana: non «dobbiamo aspettarci che qualcuno venga dall’al di là ad avvertirci. Gesù con la sua predicazione ci ha detto come stanno le cose. Con la sua morte e risurrezione ci ha dato la garanzia divina che Egli testimonia la verità. Non ci rimane che ascoltare e mettere in pratica la sua parola, che risuona continuamene nella predicazione della Chiesa. Si tratta solo di credere alla predicazione, di credere a quanto la Chiesa insegna» (Roberto Coggi).
 
Combatti la buona battaglia - Una battaglia senza quartiere. Una lotta che non conosce soste, una battaglia contro le potenze che guidano il mondo: denaro, sesso, seduzione delle apparenze, orgoglio che nasce dal possesso dei beni terreni. Le vere realtà sono altre (cfr. 2Cor 4,18; Eb 11,1.3.27; ecc.). La drammatica condizione del mondo che giace sotto il potere del maligno (cfr. 1Gv 5,19) fa della vita dell’uomo «una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno» (GS 17). Queste affermazioni mettono bene in evidenza quanto sia penoso, e anche difficile, conseguire la salvezza eterna. Qui soggiace la comprensione della vocazione cristiana, che è quella «dell’atletismo, che suppone un esercizio e un allenamento continuo» (Vincenzo Raffa). È una “lotta tremenda” perché a motivo del peccato di Adamo e di Eva «il diavolo ha acquistato un certo dominio sull’uomo, benché questi rimanga libero. Il peccato originale comporta “la schiavitù sotto il dominio di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo”» (Catechismo della Chiesa Cattolica 408). Un potere reale, e satana è il nemico numero uno dell’uomo (Paolo VI). Per non perdere i «parrocchiani», oggi, c’è il cattivo gusto di smerciare un cristianesimo a buon mercato. Si teme di insegnare che ogni vittoria morale esige una strategia appropriata e questa suppone una esatta valutazione e conoscenza del come accingersi all’impresa (cfr. Lc 14,28). C’è la paura di parlare di satana, il «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11; Ef 2,2), colui che semina la zizzania nel campo di Dio (Mt 13,25), colui che sa mascherarsi «da angelo di luce» (2Cor 11,14) e che come «leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8). C’è la paura di dire che il «Male oggi non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore», la cui azione si fa più palpabile «dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle» (Paolo VI). C’è il timore di dire apertamente che dopo il peccato originale l’uomo è più vulnerabile, perché il peccato abita in lui (Rom 7,20). Si teme di dire apertamente che dopo la morte, e dopo una vita senza amore, c’è la possibilità di finire all’inferno, proprio come il ricco Epulone!
 
Gregorio Magno: “Morì poi il mendicante e fu portato dagli angeli tra le braccia di Abramo. Morì anche il ricco e fu gettato nell’inferno” (Lc 16,22). Così proprio quel ricco, che in questa vita non volle aver compassione del povero, ora, condannato, ne cerca l’aiuto. Viene aggiunto, infatti: “Alzando gli occhi dai suoi tormenti, vide lontano Abramo e Lazzaro tra le sue braccia e gridò: Padre Abramo, abbi pietà di me. Di’ a Lazzaro che metta il suo dito nell’acqua e ne faccia cadere una goccia sulla mia bocca, perché io brucio in questa fiamma” (Lc 16,23-24). Oh, quant’è sottile il giudizio di Dio! E quant’è misurata la distribuzione dei premi e delle pene! Lazzaro avrebbe voluto le briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora il ricco, nel supplizio, vorrebbe che Lazzaro facesse cadere dal dito una goccia d’acqua sulla sua bocca. Vedete, vedete, allora, fratelli, quanto sia stretta la giustizia di Dio. Il ricco non volle dare al povero piagato la più piccola porzione della sua mensa, e nell’inferno è ridotto a chiedere la più piccola delle cose. Negò le briciole e chiede una goccia d’acqua... Ma voi, fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro.
 
Il Santo del Giorno - 28 Settembre 2025 - San Venceslao. Il vero segno di un amore che non è del mondo: Anche se la violenza del mondo sembra prevalere, alla fine sarà solo l’amore a dire l’ultima parola, perché è nel cuore che abita ciò che ci rende davvero umani. Testimoniare il Vangelo significa diventare apostoli del cuore, mostrando al mondo la vera origine di tutto ciò che possediamo: Dio stesso. Nello scontro tra questo stile controcorrente e la mentalità del mondo sono tante le persone che hanno pagato con la vita. Come san Venceslao, sovrano boemo vissuto nel X secolo, che ebbe il coraggio di opporsi alle dinamiche dei potenti. Era nato a Praga forse nel 907, in un tempo in cui nella sua terra la fede cristiana era osteggiata dalla forte presenza pagana. Figlio del duca di Boemia, fu cresciuto alla luce del Vangelo dalla nonna paterna, Ludmilla. Dopo la morte del padre Venceslao si ritrovò, giovanissimo, a governare, impegnandosi, tra l’altro, a diffondere la fede. La sua opera di evangelizzazione, però, trovò l’opposizione della nobiltà pagana, che era appoggiata dal fratello di Venceslao, Boleslao. E fu proprio quest’ultimo, assieme a un gruppo di sicari ad attaccare Venceslao una mattina dell’anno 935, mentre si recava in chiesa a Stara Boleslav: difesosi dalla spada del fratello, il duca fu ucciso dagli altri nobili. 
 
Questo sacramento di vita eterna
ci rinnovi, o Padre, nell’anima e nel corpo,
perché, annunciando la morte del tuo Figlio,
partecipiamo alla sua passione
per diventare eredi con lui nella gloria.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.