13 SETTEMBRE 2025
 
San Giovanni Crisostomo, Vescovo e Dottore della Chiesa
 
1Tm 1,15-17; Salmo Responsoriale Dal Salmo 112 (113); Lc 6,43-49
 
Colletta
O Dio, forza di chi spera in te,
che hai fatto risplendere il santo vescovo Giovanni Crisostomo
per la mirabile eloquenza e la perseveranza nella tribolazione,
fa’ che, illuminati dai suoi insegnamenti,
siamo rafforzati dal suo esempio di eroica costanza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Catechesi 19 Settembre 2007): Giovanni Crisostomo si preoccupa di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di questi mari è l’infanzia» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Infatti «proprio in questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l’età più importante. Dobbiamo tener presente come è fondamentale che in questa prima fase della vita entrino realmente nell’uomo i grandi orientamenti che danno la prospettiva giusta all’esistenza. Crisostomo perciò  raccomanda: «Fin dalla più tenera età premunite i bambini con armi spirituali, e insegnate loro a segnare la fronte con la mano» (Omelia 12,7 sulla prima Lettera ai Corinzi). Vengono poi l’adolescenza e la  giovinezza: «All’infanzia segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perchè in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Giungono infine il fidanzamento e il matrimonio: «Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio egli ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati. Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù. Quando poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti» (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
 
I Lettura: Settimio Cipriani (Le Lettere di Paolo): Paolo inserisce la sua conversione nel quadro generale della condotta di Dio verso i «peccatori», che Cristo «è venuto per salvare» (v. 15). Essendo egli il «primo» (v. 10) e più grande dei peccatori, può ben servire da «esempio» e richiamo per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e «longanimità» di Cristo per ottenere la «vita eterna» (v. 16). Anzi, proprio in questa funzione di «esemplarità» per gli altri, oltre che nella sua «ignoranza» (v. 13), l’Apostolo vede uno dei motivi della grande bontà di Dio verso di lui, quasi a dire: «Se Dio ha perdonato a quel tale, non punirà nessuno» (S. Giovanni Crisostomo).
Si noti l’umiltà sconcertante di Paolo, che anche altrove si chiamava «il minimo degli Apostoli, neppure degno di essere chiamato Apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1Cor. 15, 9).
La formula: «Questo è un detto degno di fede ...» (v. 15) ricorre altre quattro volte nelle Pastorali (1Tim. 3, 1; 4, 9; 2Tim. 2, 11; Tit. 3, 8) e in genere introduce qualcosa di molto importante e che sta a cuore all’Apostolo. Quanto segue, infatti, è come un compendio della dottrina soteriologica paolina, e trova il suo riscontro in Luca (19, 10): «Il Figlio dell’uomo è venuto per salvare ciò che era perduto», o nell’altro detto dei Signore: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto di molti» (Matt. 20, 28; Mc 10,45). Paolo qui cita o dalla predicazione orale, o da qualche inno liturgico che enunciava completamente la dottrina della salvezza (cfr. qualcosa di simile in 1 Cor 15,1-5).
 
Vangelo
Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?
 
Il brano evangelico si conclude con l’immagine della casa costruita sulla roccia o sulla terra, con la quale Gesù pone il discepolo in modo immediato dinanzi al suo libero discernimento: egli può costruire la sua salvezza come può costruire la sua eterna rovina. In Ez 13,1-16, la furia degli elementi della natura sta ad indicare l’ira di Dio che si abbatte rovinosamente su tutto quanto era stato costruito dai falsi profeti (cfr. Mt 7,15-20): «Ingannano infatti il mio popolo dicendo “Pace!”, e la pace non c’è; mentre il mio popolo costruisce un muro,  ecco, essi lo intonacano di fango. Di’ a quelli che lo intonacano di fango: Cadrà! Scenderà una pioggia torrenziale, cadrà grandine come pietre, si scatenerà un uragano ed ecco, il muro viene abbattuto ... Perciò dice il Signore Dio: Con ira scatenerò un uragano, per la mia collera cadrà una pioggia torrenziale, nel mio furore per la distruzione cadrà grandine come pietre; demolirò il muro che avete intonacato di fango, lo atterrerò e le sue fondamenta rimarranno scoperte; esso crollerà e voi perirete insieme con esso e saprete che io sono il Signore» (Ez 13,11-14). Nella vita del cristiano vi saranno anche tempeste, essere discepoli di Cristo non mette al riparo dalla tempesta! Sul credente potranno cadere le tempeste più tumultuose, ma se la sua vita è costruita sulla roccia che è Cristo, non dovrà temere. La casa non rovinerà e passata la bufera  il discepolo canterà con gioia e gratitudine: “Benedetto il Signore, mia roccia” (Sal 143 [144],1).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,43-49
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?
Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene.
Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande».
Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande».
 
Parola del Signore.
 
Il contrassegno - Richard Gutzwiller (Meditazioni su Luca): Per sapere se uno che insegna sia degno di fede, bisogna considerare come indizio sicuro le sue azioni. Dai frutti si conosce l’albero.
Le buone azioni sono i frutti che maturano sull’albero sano, le cattive azioni sono come la frutta guasta di un albero malato. La mancanza di azioni indica che un uomo è come un albero che non porta frutti. Naturalmente non ci si può attendere fichi dai cardi e grappoli di uva dalle spine.
Non è dunque l’aspetto esteriore di un uomo, non sono le sue belle parole, le sue promesse allettanti ed i suoi programmi risonanti, l’espansione dei suoi sentimenti e la gamma dei suoi umori, a fornire il criterio per una giusta valutazione; ma soltanto le sue azioni e la sua vita possono manifestare la sincerità delle sue intenzioni e quindi la rettitudine della sua condotta. Intenzione e azione formano in fondo una sola cosa. E questa unità è il solo contrassegno sicuro della verità.
Il discorso della montagna, presente nel Vangelo di Matteo e qui ripreso da Luca che lo ambienta in aperta campagna, si chiude con un quadro che mostra l’importanza dell’azione. Una casa fondata sulla roccia resiste malgrado la tempesta. Una casa costruita sulla sabbia, rovina con la piena dell’acqua.
Nel regno di Dio costruisce la sua casa su terreno roccioso ogni uomo che non solo ascolta, ma mette in pratica. Chi invece ascolta e approva, anche se con entusiasmo, senza però conformare all’insegnamento udito la sua condotta, costruisce sulla sabbia.
Solo un agire cristiano, come espressione di una vita interiore cristiana, è vero cristianesimo.
 
L’uomo che costruisce la sua casa - In ogni frangente della vita, l’uomo sente fisiopsichicamente di essere libero, come l’uomo della parabola che costruisce la sua casa e sceglie liberamente come o dove costruire. Ma non sempre l’uomo è veramente libero perché, molte volte, deve confrontarsi con la Legge che spesso lo limita nel suo agire. Pagare il prezzo di una sottomissione alla Legge, per alcuni significa vivere in uno stato di libertà “non libera”. Una libertà vigilata o condizionata per molti è così fonte di frustrazioni o di rabbiose ribellioni.
Invece, per il cristiano, la libertà, che si situa ad un livello più alto perché essa si esplica in un ambito essenzialmente interiore, segue un percorso molto diverso e ha un punto di partenza e un punto di arrivo: la creazione e la redenzione.
La libertà cristiana, innanzi tutto, scaturisce da un atto libero di Dio che «ha creato l’uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell’iniziativa e della padronanza dei suoi atti» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1730).
Ma l’uomo di fatto non ha corrisposto alla infinita liberalità di Dio: «Liberamente ha peccato. Rifiutando il disegno d’Amore di Dio, si è ingannato da sé, è divenuto schiavo del peccato» (Catechismo della Chiesa Cattolica 1739).
Riconquistata dalla gloriosa «morte del corpo di carne» (Col 1,22) di Cristo straziato e inchiodato su una croce, l’uomo è stato rifondato nella vera libertà dei figli Dio (Cf. Gal 5,1): infatti, la «libertà della quale usufruisce il cristiano, piuttosto che essere il risultato di astrazioni filosofiche, scaturisce dal fatto della morte vittoriosa di Cristo [Ebr 2,14s] e da quel contatto personale e diretto con il Salvatore, che si realizza attraverso il battesimo [Rom 6,4; Gal 3,27; Col 2,12] nel quale si riceve uno spirito di figlio adottivo e non uno spirito di schiavo [Rom 8,14-17]» (G. Laurentini).
A motivo di questa ineffabile liberazione, gli uomini non sono «più sotto la legge, ma sotto la grazia» (Rom 6,14). E l’iniziativa «divina nell’opera della grazia previene, prepara e suscita la libera risposta dell’uomo. La grazia risponde alle profonde aspirazioni della libertà umana; la invita a cooperare con essa e la perfeziona» (Catechismo della Chiesa Cattolica 2022).
E proprio perché il cristiano si trova sotto il regime della grazia (Cf. Rom 5,17.21; 6,15) sa, cioè è coscientemente consapevole, che la libertà non va espletata «in malo modo, come licenza di fare qualunque cosa purché piaccia, anche il male» (GS 17). In altre parole, è profondamente convinto che la libertà cristiana non è libertinaggio né dissolutezza e che egli, nonostante tutto, resta vulnerabile: liberato dal peccato originale, il peccato attuale provoca la perdita o la diminuzione della grazia. La personalità umana si disgrega: l’uomo si ritrova diviso in se stesso. La coscienza non recepisce la «voce» di Dio, la volontà si ribella. La passionalità tende a predominare sulla ragione: ferito nella libertà, prevalgono gli istinti, l’orgoglio, l’egoismo. Si attenua la tendenza al bene.
San Pietro invita i cristiani a comportarsi «come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio» (1Pt 2,16). E di tenersi lontano dai falsi profeti: «Temerari, arroganti ... con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto» (2Pt 3,1passim). Così l’apostolo Paolo dovrà rimproverare i cristiani della Chiesa di Corinto i quali distorcendo il detto Tutto mi è lecito, da attribuire forse allo stesso Apostolo, si erano lasciati andare ad ogni sorta di licenziosità (Cf. 1Cor 6,12s).
In questo stato di libertà e di tendenza al male (Cf. Rom 7,14-25), il cristiano sa che non basta aspirare alla libertà, ma che occorre, una volta raggiunta, custodirla perfettamente liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tendendo alla salvezza con scelta libera del bene, e procurandosi con diligente iniziativa i mezzi convenienti (Cf. GS 17).
 
Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico? - E. Jacquemin e Xavier Léon-Dufour (Dizionario di Teologia Biblica): 1. Discernere la volontà di Dio. - Il discernimento e la pratica della volontà divina si condizionano a vicenda: bisogna compiere la volontà di Dio per apprezzare la dottrina di Gesù (Gv 7,17), ma d’altra parte bisogna riconoscere in Gesù e nei suoi comandamenti i comandamenti stessi di Dio (14,23s). Ciò rientra nel mistero dell’incontro delle due volontà, quella dell’uomo peccatore e quella di Dio: per andare a Gesù, bisogna essere «attratti» dal Padre (6,44), attrazione che, secondo la parola greca, è ad un tempo costrizione e dilettazione (giustificando l’espressione di S. Agostino: «Dio che mi è più intimo di me stesso»). Per discernere la volontà di Dio non basta conoscere la lettera della legge (Rom 2,18), ma occorre aderire ad una persona, e ciò può avvenire solo per mezzo dello Spirito Santo che Gesù dona (Gv 14,26). Allora il giudizio rinnovato permette di «discernere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli piace, ciò che è perfetto» (Rom 12,2). Questo discernimento non riguarda soltanto la vita quotidiana; perviene alla «piena conoscenza della sua volontà, sapienza ed intelligenza spirituale» (Col 1,9): questa è la condizione di una vita che piaccia al Signore (1,10; cfr. Ef 5,17). Anche la preghiera non può più essere che una preghiera «secondo la sua volontà» (1Gv 5,14), e la formula classica «se Dio lo vuole» assume una risonanza totalmente diversa (Atti 18,21; 1Cor 4,19; Giac 4,15), perché suppone un riferimento costante al «mistero della volontà di Dio» (Ef 1, 3-14).
2. Praticare la volontà di Dio. - A che pro conoscere ciò che il padrone vuole, se non lo si mette in pratica (Lc 12,47; Mt 7,21; 21,31)? Questa «pratica» costituisce propriamente la vita cristiana (Ebr 13,21), in opposizione alla vita secondo le passioni umane (1Piet 4,2; Ef 6,6). Più precisamente, la volontà di Dio a nostro riguardo è santità 1Tess 4,3), ringraziamento (5,18); pazienza (1Piet 3,17) e buona condotta (2,15). Questa pratica è passibile, perché «è Dio che suscita in noi e il volere e l’operare per l’esecuzione del suo beneplacito» (Fil 2, 13). Allora c’è comunione delle volontà, accordo della grazia e della libertà.
 
Necessità delle opere - Girolamo (In Matth. I, 7, 21-23): Non chiunque mi dice: «Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Prima ha detto che coloro i quali manifestano esteriormente una vita onesta non debbono essere accolti se le loro dottrine sono malvagie; ora, al contrario, afferma che non si deve dar credito a coloro i quali, mentre possono vantare l’integrità della loro fede, vivono disonestamente, distruggendo con le loro malvagie opere la purezza della dottrina. L’una e l’altra virtù è infatti necessaria ai servi di Dio, in modo che le opere siano confermate dalle parole, e le parole dalle opere.
A quest’affermazione potrebbe sembrar contraria l’altra che dice: “Nessuno può dire: «Signore Gesù», se non nello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Ma è consuetudine delle Scritture riconoscere alle parole lo stesso valore dei fatti, affinché risultino palesi nelle loro conseguenze, e respingere coloro che, senza addurre opere, si vantano di possedere la conoscenza del Signore, e perciò si sentono dire dal Salvatore: “Andate via da me, operatori di iniquità! Io non vi conosco” (Lc 13,27). Nello stesso senso si esprime l’Apostolo: “Confessano di conoscere Dio, ma coi fatti lo negano” (Tt 1,16).
 
Il Santo del giorno - 13 Settembre 2025 - San Giovanni Crisostomo: Giovanni, nato ad Antiochia (probabilmente nel 349), dopo i primi anni trascorsi nel deserto, fu ordinato sacerdote dal vescovo Fabiano e ne diventò collaboratore. Grande predicatore, nel 398 fu chiamato a succedere al patriarca Nettario sulla cattedra di Costantinopoli. L’attività di Giovanni fu apprezzata e discussa: evangelizzazione delle campagne, creazione di ospedali, processioni anti-ariane sotto la protezione della polizia imperiale, sermoni di fuoco con cui fustigava vizi e tiepidezze, severi richiami ai monaci indolenti e agli ecclesiastici troppo sensibili alla ricchezza. Deposto illegalmente da un gruppo di vescovi capeggiati da Teofilo di Alessandria, ed esiliato, venne richiamato quasi subito dall’imperatore Arcadio. Ma due mesi dopo Giovanni era di nuovo esiliato, prima in Armenia, poi sulle rive del Mar Nero. Qui il 14 settembre 407, Giovanni morì. Dal sepolcro di Comana, il figlio di Arcadio, Teodosio il Giovane, fece trasferire i resti mortali del santo a Costantinopoli, dove giunsero la notte del 27 gennaio 438. (Avvenire)
 
Concedi, Dio misericordioso,
che i santi misteri, ricevuti nella memoria
di san Giovanni Crisostomo,
ci confermino nel tuo amore
e ci rendano fedeli testimoni della tua verità.
Per Cristo nostro Signore.
 
  12 SETTEMBRE 2021
 
Venerdì XXIII Settimana T. O.
 
1Tm 1,1-2.12-14; Sal 15 (16); Lc 6,39-42
 
Colletta
O Padre, che ci hai liberati dal peccato
e ci hai donato la dignità di figli adottivi,
guarda con benevolenza la tua famiglia,
perché a tutti i credenti in Cristo
sia data la vera libertà e l’eredità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede - Catechismo degli Adulti [247]: Nel suo amore sempre fedele, nella sua misericordia senza limiti, «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Lo ha mandato, uomo tra gli uomini; gli ha ispirato e comunicato il suo amore misericordioso per i peccatori, lo ha consegnato nelle loro mani, donandolo incondizionatamente, nonostante il rifiuto ostinato e omicida. L’iniziativa è del Padre: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (2Cor 5,19). È lui che ama per primo; è lui che per primo «soffre una passione d’amore», «la passione dell’impassibile»; è lui che infonde nel Cristo la carità e suscita la sua mediazione redentrice, da cui derivano a noi tutti i benefici della salvezza. «Questo imperscrutabile e indicibile “dolore” di Padre» suscita «l’ammirabile economia dell’amore redentivo di Gesù Cristo».
[248]  Il Cristo accoglie liberamente l’iniziativa del Padre: «Il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19). Condivide l’atteggiamento misericordioso del Padre, la sua volontà e il suo progetto: «Ha dato se stesso per i nostri peccati..., secondo la volontà di Dio e Padre nostro» (Gal 1,4). Si è donato agli uomini senza riserve, si è consegnato nelle loro mani, senza tirarsi indietro di fronte alla loro ostilità, prendendo su di sé il peso del loro peccato: «Uno è morto per tutti» (2Cor 5,14). Così ha vissuto e testimoniato nella sua carne la fedeltà incondizionata di Dio all’umanità peccatrice. Questa è la sua obbedienza e la sua offerta sacrificale a Dio: «Ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).
 
I Lettura: José Maria González-Ruiz - La gerarchia deve rinunziare ad ogni monopolio: L’inizio della lettera mette in evidenza un elemento essenziale in tutta l’ecclesiologia paolina: i ministeri provengono dalla volontà di Dio; la Chiesa non è una assemblea puramente democratica nella quale l’origine del ministero si debba a una semplice delegazione della comunità in favore di colui che lo esercita. Al contrario, vi sarà sempre un fatto misterioso che proviene da Dio e che è l’ultima ragione della responsabilità ecclesiale.
Quest’origine divina dei ministeri nella Chiesa non vuoi dire che i «responsabili» debbano sempre presentarsi come puri e intoccabili davanti alla comunità e a quelli di fuori. È curioso osservare che - nel caso che le pastorali fossero state redatte dopo la morte di Paolo - la figura del grande apostolo non sia stata mitizzata. Egli si presenta come il vecchio «bestemmiatore, persecutore e violento». Solo per la «grazia» di Gesù poté avvenire quel sorprendente cambiamento. Paolo si presenta come peccatore redento dal gesto gratuito di Cristo. In una comunità ecclesiale, non si dovrebbero mai udire elogi a nessun responsabile umano, per quanto sia alta la sua gerarchia: solo «al re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli».
Partendo da questa visione, non dovrebbe mai scoppiare nella comunità un conflitto gerarchia-fedeli, conflitto che, d’altra parte, diventerebbe insanabile qualora una delle due parti mirasse ad avere il monopolio sia del grano e sia della zizzania (Mt 13,24-30.36-43). Secondo la parabola evangelica, la Chiesa è il campo nel quale il grano e la zizzania sono mescolati; e la zizzania non può essere sbarbicata «prima della conclusione della storia». In tutto il NT, compaiono le gerarchie e i fedeli indistintamente paragonati al grano e alla zizzania.
Per conseguenza, in un determinato contesto nel quale le gerarchie fossero paragonate al grano e solo ai fedeli fosse attribuita la zizzania, si commetterebbe una specie di eresia pratica. Secondo l’ecclesiologia neotestamentaria, questo « monopolio del grano » in favore delle gerarchie è un errore sostanziale e un vero scandalo mortale per il popolo di Dio.
Al contrario, la reazione dei subordinati è spesso radicale e inverte i termini del monopolio. Al monopolio del grano in favore delle gerarchie succede bruscamente la pretesa della base di monopolizzare il grano e lasciare brutalmente, al vertice solo la zizzania. In una parola Paolo esorta la Chiesa intera -vertice e base - a divenire una Chiesa penitente nella quale le gerarchie diano il buon esempio, assumendo la responsabilità delle loro colpe e chiedendone sinceramente perdono, senza ipocrite parate liturgiche («ho peccato molto in pensieri, parole, opere ed omissioni»); diversamente questa «commedia cultuale», anziché una vera pratica penitenziale, sarebbe piuttosto un’espressione di orgoglio corporativo volta a difendere i propri esponenti, ostentando una specie di «santità» che non è altro se non un sacrilego «monopolio del grano».
Sotto questa luce possiamo valutare il fenomeno della «contestazione», che potrà certo essere riprovevole e anarchizzante, ma ciò non ci esime dal chiederci se non sia anche il frutto logico e naturale dell’attività monopolistica del vertice.
Fino a che quest’ultimo non confesserà, in quanto tale, i suoi peccati e i suoi errori e non rinunzierà al «monopolio del grano», non avrà la necessaria forza morale per affrontare l’arduo problema della sempre crescente « contestazione» radicale della base ecclesiale dei nostri giorni,
 
Vangelo
Può forse un cieco guidare un altro cieco?
 
Il detto sul cieco che non può guidare un altro lo troviamo anche in Matteo (15,14). Matteo lo rivolge ai farisei, guide cieche che fuorviano il popolo, Luca lo indirizza ai discepoli perché siano guide e maestri sapienti. Gesù invita i discepoli a non accusare mai nessuno, per non spartire la sorte dei farisei: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane (Gv 9,41).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,39-42
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».
 
Parola del Signore.
 
Hugues Cousin (Luca): Luca segnala improvvisamente al suo lettore che si trova di fronte a una «parabola»: il termine invita a cercare il senso delle parole senza fermarsi alle immagini. Cominciamo col ritrovarvi il rifiuto di giudicare gli altri, poiché diversi detti isolati di Gesù sono stati raggruppati per associazione di idee. La frattura di stile provocata dal v. 39a è significativa: essa serve a dimostrare il mutamento dei personaggi verso i quali il discepolo deve mostrarsi benevolo; dopo il nemico, ecco il fratello, l’altro all’interno della comunità ecclesiale.
Ma attenzione! Non giudicare non significa mettere tutto sullo stesso piano (vv. 39-42)! Molti cristiani sono ben lontani dall’aver raggiunto l’età adulta nell’ambito della vita cristiana (cfr. lCor 3,1-3); essendo ciechi, essi non possono pretendere di guidare gli altri verso la piena luce della fede, né di criticarli. L’esistenza nella fede è una lunga preparazione alla perfezione (lasciarsi « ben formare »); alla fine, il discepolo «sarà come il maestro», il Cristo, il quale era convinto che chiunque poteva convertirsi, mutare il corso della propria vita. Che ognuno si formi alla scuola di Gesù, la cui misericordia verso i peccatori lo autorizza a guidare gli altri. D’altra parte è da ipocriti, da commedianti, esaltare una strada giusta che nemmeno noi percorriamo. Soltanto una conversione perseguita incessantemente, che sfocia in un comportamento autentico, fa uscire dalla cecità e autorizza a permettersi di correggere il comportamento degli altri.
Invitando a «far pulizia in casa propria», la parabola della pagliuzza e della trave ricorda che dobbiamo noi per primi tenere una buona condotta, se intendiamo proporla agli altri come esempio. 
 
Cieco che inganna se stesso - Xavier Léon-Dufour: [...] l’ipocrisia è vicina all’indurimento. I «sepolcri imbiancati» finiscono per prendere come verità ciò che vogliono far credere agli altri: si credono giusti (cfr. Lc 18,9; 20,20) e diventano sordi ad ogni appello alla conversione.
Come un’attore di teatro (in gr. hypocritès), l’ipocrita continua a recitare la sua parte, tanto più che occupa un posto elevato e si obbedisce alIa sua parola (Mt 23,2 s). La correzione fraterna è sana, ma come potrebbe l’ipocrita strappare la trave che gli impedisce la vista, quando pensa soltanto a togliere la pagliuzza che è nell’occhio del vicino (7,4 s; 23,3 s)? Le guide spirituali sono necessarie in terra, ma non prendono il posto stesso di Dio quando alla legge divina sostituiscono tradizioni umane? Sono ciechi che pretendono di guidare gli altri (15,3-14), e la loro dottrina non è che un cattivo lievito (Lc 12,1). Ciechi, essi sono incapaci di riconoscere i segni del tempo, cioè di scoprire in Gesù l’inviato di Dio, ed esigono un «segno dal cielo» (Lc 12,56; Mt 16,1 ss); accecati dalla loro stessa malizia, non sanno che farsene della bontà di Gesù e si appellano alla legge del sabato per impedirgli di fare il bene (Lc 13,15); se osano immaginare che Beelzebul è all’origine dei miracoli di Gesù, si è perché da un cuore malvagio non può uscire un buon linguaggio (Mt 12,24.34). Per infrangere le porte del loro cuore, Gesù fa loro perdere la faccia dinanzi agli altri (Mt 23,1ss), denunziando il loro peccato fondamentale, il loro marciume segreto (23,27 s): ciò è meglio che lasciarli condividere la sorte degli empi (24,51; Lc 12,46). Qui Gesù si serviva indubbiamente del termine aramico hanefa, che nel VT significa ordinariamente «perverso, empio»: l’ipocrita può diventare un empio. Il quarto vangelo cambia l’appellativo di ipocrita in quello di cieco: il peccato dei Giudei consiste nel dire: «Noi vediamo», mentre sono ciechi (Gv 9,40).
 
Padre Lino Pedron: Il comandamento: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (6,36) è l’unica strada maestra per la salvezza. Chi insegna diversamente è una guida cieca (v. 39), un maestro falso (v.40); chi critica il male altrui, e non vede il proprio, è un ipocrita (vv.41-42).
Solo la misericordia può salvare l’uomo dal male perché è quell’amore che non tiene conto del male e lo volge in bene.
La cecità fondamentale è quella di non ritenersi bisognosi della misericordia di Dio. Cieco è il discepolo che non ha sperimentato la misericordia di Dio donatagli in Cristo. Per questo il suo agire è senza misericordia.
Il male che io condanno nel fratello è sempre una piccola cosa rispetto al male che commetto io arrogandomi il diritto di giudicarlo: tanta è la gravità del giudicare! Il vero male non è tanto il male che si compie, quanto la mancanza di misericordia che ne impedisce il riscatto. Il giudizio senza misericordia nei confronti di una colpa grave è sempre più grave della colpa stessa.
Chi critica se stesso invece degli altri, si scopre bisognoso di misericordia quanto e più degli altri. Questa misericordia gli toglie la cecità e lo rende capace di vedere bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello.
L’unica correzione possibile è l’occhio buono del perdono e della misericordia. La trave che il discepolo deve levarsi dall’occhio è la presunzione di essere giusto. Solo chi si sente graziato e perdonato può graziare e perdonare. E sempre senza scandalizzarsi del peccato altrui, perché è sempre una pagliuzza rispetto alla trave che è nel nostro occhio.
 
Asterio d’Amasea, Omelia 13 (sulla conversione): Non siate, per i vostri compagni di schiavitù, dei giudici rigorosi e crudeli, nell’attesa che giunga colui che svelerà i segreti del cuori e che, con la sua potenza, darà a ciascuno il posto che gli spetta nella vita futura. Non pronunciate giudizi severi, per non essere giudicati con severità e per non essere trafitti, come da denti acuti, dalle parole. Mi sembra infatti che le parole dei Vangelo: Non giudicate, per non essere giudicati (Mt 7,1) vogliano appunto metterci in guardia da questo peccato. Con ciò non si vuole escludere la facoltà di valutare le cose con intelligenza e rettitudine: il Vangelo chiama «giudizio» una condanna troppo severa. Nei tuoi giudizi, dunque, adopera, per quanto è possibile, un peso leggero, se non vuoi che anche le tue azioni facciano scendere il piatto della condanna quando la nostra vita sarà pesata dal giudizio di Dio, come su una bilancia ... Non rifiutare allora, di usare misericordia, per non essere escluso dal perdono quando anche tu ne avrai bisogno.
 
Il Santo del Giorno - 12 Settembre 2025 - Santissimo Nome di Maria. Chi ci chiama ci ricorda che siamo fatti per amare: Il nostro nome è un dono prezioso, è il suono che ricorda al mondo chi siamo, è un promemoria per ricordarci che il nostro destino, comunque vada, è una storia d’amore. Celebrare il nome di Maria, la Madre di Dio, significa anche questo: ricordarci che la nostra vita è una vocazione, una chiamata, e la prima parola di questa chiamata è proprio il nostro nome. La ricorrenza liturgica odierna fu concessa da Roma nel 1513 alla diocesi spagnola di Cuenca. Venne però soppressa da san Pio V, anche se in seguito Sisto V la ripristinò. Nel 1671 venne estesa al Regno di Napoli e a Milano. Fu Innocenzo XI a farne una festa per la Chiesa universale e la fissò alla domenica fra l’ottava della Natività come segno di ringraziamento per la vittoria nel 1683 del polacco Giovanni III Sobieski contro i Turchi che assediavano Vienna, minacciando la fede cristiana in tutta Europa. Pio X, infine, riportò la ricorrenza del Santissimo Nome di Maria al 12 settembre. La sua collocazione, in ogni caso, va letta assieme alla celebrazione della Natività della Beata Vergine: è all’inizio di ogni esistenza che viene piantato il seme della vita divina, che poi dev’essere coltivato e fatto fruttificare lungo il cammino dell’esistenza. Perché il nome, in fondo, è vita. (Matteo Liut)
 
O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi grandi doni del tuo amato Figlio
aiutaci a progredire costantemente nella fede,
per divenire partecipi della sua vita immortale.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
 
 11 Settembre 2025
 
Giovedì XXIII Settimana T. O.
 
Col 3,12-17; Salmo Responsoriale Dal Salmo 150; Lc 6,27-38
 
Colletta
O Padre, che ci hai liberati dal peccato
e ci hai donato la dignità di figli adottivi,
guarda con benevolenza la tua famiglia,
perché a tutti i credenti in Cristo
sia data la vera libertà e l’eredità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Dives in Misericordia 14. La Chiesa cerca di attuare la misericordia: Gesù Cristo ha insegnato che l’uomo non soltanto riceve e sperimenta la misericordia di Dio, ma che è pure chiamato a «usar misericordia» verso gli altri: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». La Chiesa vede in queste parole un appello all’azione e si sforza di praticare la misericordia. Se tutte le beatitudini del Discorso della montagna indicano la via della conversione e del cambiamento della vita, quella che riguarda i misericordiosi è a tale proposito particolarmente eloquente. L’uomo giunge all’amore misericordioso di Dio, alla sua misericordia, in quanto egli stesso interiormente si trasforma nello spirito di tale amore verso il prossimo.
Questo processo autenticamente evangelico non è soltanto una svolta spirituale realizzata una volta per sempre, ma è tutto uno stile di vita, una caratteristica essenziale e continua della vocazione cristiana. Esso consiste nella costante scoperta e nella perseverante attuazione dell’amore come forza unificante ed insieme elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale; si tratta infatti di un amore misericordioso che per sua essenza è amore creatore. L’amore misericordioso, nei rapporti reciproci tra gli uomini, non è mai un atto o un processo unilaterale. Perfino nei casi in cui tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella che dona ed offre, e l’altra quella che soltanto riceve e prende (ad esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre i bisognosi), in verità tuttavia anche colui che dona viene sempre beneficato. In ogni caso, anche questi può facilmente ritrovarsi nella posizione di colui che riceve, che ottiene un beneficio, che prova l’amore misericordioso, che si trova ad essere oggetto di misericordia.
 
Prima Lettura: José Maria González-Ruiz (Commento della Bibbia Liturgica) - Solo Gesù è il Signore: Dopo aver enumerato l’insieme dei vizi che formano l’uomo vecchio, Paolo ci dà la serie delle virtù positive che costituiscono l’atto d’investitura dell’uomo nuovo, non a dimensione individuale, ma a quella comunitaria: « sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente ».
E, al di sopra dii tutto, « la carità » che è « il vincolo della perfezione ». Un’interpretazione molto comune suppone che « perfezione » significhi la vita cristiana completa nel suo aspetto morale; e così, l’amore sarebbe il nastro che riunisce in un solo mazzo tutte le virtù. Il contesto però pare inclinare a un’altra interpretazione: la carità non è già i1 legame o il vincolo delle virtù, bensì degli stessi credenti. In questo caso, « perfezione » ha senso quasi comunitario, come in Ignazio di Antiochia « carità » e « amore » (cf Fil 1,9) significano « comunità » mentre nella « Epistula ad Iacobum » dello Pseudo Clemente (c. 2,17). In questo caso « perfezione» sarebbe la Chiesa come società di perfezione.
Perché queste virtù comunitarie siano una realtà, Paolo esorta i colossesi a « essere riconoscenti ». Con ciò Paolo invita a celebrare l’eucaristia. Durante la celebrazione, deve avere il posto principale la parola di Dio fra il vicendevole insegnamento ed esortazione in mezzo a inni e cantici. È curioso osservare come la celebrazione eucaristica sia presentata in un modo del tutto orizzontale, senza mettere in rilievo i « ministri » che, in un modo o in un altro, egemonizzerebbero il rendimento di grazie.
 
Salmo 150: Il salmo 150 è una solenne dossologia che conclude il quinto libro dei Salmi e l’intero salterio. È un invito a lodare “Dio nel suo santuario” con “il suono del corno, con l’arpa e la cetra, con tamburelli e danze, sulle corde e con flauti, con cembali sonori e squillati”. È un invito a lodare Dio per acclamare la sua potenza e la sua maestà di Dio: Dio è il signore dell’universo.
Ogni vivente dia lode al Signore: “Il profeta ha chiamato gli abitanti del cielo, poi tutti gli uomini di tutti i tempi e infine tutti gli strumenti musicali. Lodare Dio ininterrottamente è il nostro sacrificio, la nostra offerta, il nostro ministero più alto che riproduce la vita degli angeli” (Giovanni Crisostomo).
 
Vangelo
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
 
Il brano evangelico di oggi, dal punto di vista del contenuto, «si presenta collegato all’ultima beatitudine e all’ultima maledizione. Ecco la struttura del brano: - prima il superamento della legge del taglione [vv. 27-31], - poi segue l’invito alla carità sul modello di Dio [vv. 32-36], - il tutto si chiude con una sollecitudine a non giudicare [vv. 37-38]. Sarà utile notare che come la seconda parte termina con un’affermazione solenne di Gesù [v. 36] così anche la prima si chiude con la cosiddetta regola d’oro [v. 31]» (Carlo Ghidelli).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,27-38
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
 
Parola del Signore.
 
Amate i vostri nemici - Non sempre l’amore ha animato le relazioni tra gli uomini. Raramente anche in Israele. Nell’Antico Testamento, incalzante è il monito rivolto agli Israeliti ad amare tutti, anche i forestieri: «Amerai [il forestiero] come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lev 19,34). Un tesoro sciupato perché, il più delle volte, rimase incastonato solamente nella dorata cornice liturgica: un memoriale perché ogni generazione ricordasse il peccato del popolo, la sua dura schiavitù in terra straniera e la liberazione potente operata da Dio misericordioso.
A dilapidare questo tesoro ci pensò poi la tradizione umana che con il tempo aveva preso il sopravvento sulla legge di Dio (Mt 15,1-9).
Gesù, Parola del Padre, viene a purificare il fondo del cuore dell’uomo liberandolo dall’odio, dalla grettezza della mente, dall’usura, dal giudizio temerario, dalla incapacità del perdono.
Opere della carne (Gal 5,19-21: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere) alle quali Gesù contrappone le opere dell’amore e che troviamo codificate nell’insegnamento paolino come opere dello Spirito: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).
Questa liberazione dall’egoismo e dalla grettezza della carne operata dal Verbo è piena risposta all’angosciante grido di Paolo: «Chi potrà liberarmi da questo corpo votato alla morte?» (Rom 7,24).
Tutto è grazia, ma anche fatica e sollecita risposta umana. È perentorio corrispondere al dono di Dio.
Nel brano evangelico, Gesù indica esplicitamente due strade per arrivare a questa liberazione. Innanzi tutto, guardare al Padre, - Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre -; guardare a Lui, fissare gli occhi sul suo cuore: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Poi, offrire il proprio corpo marcio alla incisione del divino chirurgo perché il pietoso medico possa incidere la carne in putrefazione e fare scaturire il pus che avvelena il cuore e la mente dell’uomo.
Perché nulla resti nel campo della teoria, Gesù chiede praticamente che l’uomo, vincendo se stesso, ami i suoi nemici; domanda di fare del bene e prestare senza sperare nulla in contraccambio; di essere misericordioso, di non giudicare, di non condannare, di perdonare, di dare abbondantemente: proposte tutte terribilmente concrete, opere che attraversano il quotidiano dell’uomo: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (Rom 10,8).
Cristo non chiede cose spirituali o straordinarie, come la penitenza o la mortificazione, ma atteggiamenti concreti: la capacità nobile di relazionarsi con il prossimo; una vittoria totale sull’io e, infine, aprire il cuore, la mente, l’anima alla potente, vivificante azione dello Spirito Santo.
In tal modo, Luca, con questa impareggiabile pagina, educa i missionari di tutti i tempi: coloro che portano la Parola non stiano a fantasticare, ma annuncino la vera, Buona Notizia che vuole sanare globalmente l’uomo: il Vangelo che promette il Paradiso e la beatitudine della pace già in questa terra, pace con se stessi, pace con il mondo circostante, pace con Dio (Lc 1,79; 2,14).
Il servo della Parola, colui che è mandato ad annunciare la Parola di Dio sino agli estremi confini della terra, se vuole assolvere fedelmente il suo mandato deve essere un uomo riconciliato con se stesso, con i fratelli e con Dio. E la riconciliazione ha unicamente il fragrante sapore dell’amore.
 
La misericordia - Carlo Tomasini (Misericordia, Schede Bibliche Pastorali): Sul tema della misericordia di Dio, il Nuovo Testamento riprende l’insegnamento dell’Antico Testamento. Anzi, nel Nuovo Testamento l’attributo divino della misericordia acquista particolare rilievo, perché la buona novella, l’evento salvifico giunto al suo compimento in Cristo, è appunto una rivelazione di misericordia.
Maria, nel Magnificat, canta con le parole dei salmi la misericordia divina manifestatasi in lei (Lc 1,50); questa misericordia viene legata alla sua fedeltà, e quindi richiama l’idea del patto: «Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1,54).
Di questa misericordia si dice che Dio è “ricco” (Ef 2,4); questa misericordia viene detta “grande” (1Pt 1,3). La misericordia divina si manifesta con l’aiuto nelle necessità fisiche; così l’uomo che era stato indemoniato viene esortato ad annunciare come frutto della misericordia divina la sua guarigione (Mc 5,19).
Il ministero apostolico di Paolo viene più volte descritto come un frutto della divina misericordia, che liberamente lo ha chiamato e lo ha scelto per fare di lui una manifestazione di essa (1Cor 7,25; 2Cor 4,1); uno scorcio particolarmente suggestivo di questa riflessione di Paolo su se stesso come oggetto di misericordia e sul significato di questa misericordia lo troviamo nella 1Tim 1,l3-16: «... io che per l’innanzi ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento; ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo lontano dalla fede; e la grazia del nostro Signore ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che sono in Cristo Gesù. È sicura questa affermazione e degna di essere accettata: Cristo Gesù venne nel mondo per salvare i peccatori, e di questi il primo sono io! Ma fu usata misericordia con me, perché Gesù Cristo volle dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, ad esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna».
La misericordia divina è vista qui in quella che ne è la manifestazione più tipica, il perdono dei peccati. Ne viene vista l’espressione fondamentale, l’evento salvifico della redenzione di Cristo; e la chiamata dell’apostolo che era stato persecutore viene vista come un esempio di questo appello misericordioso ai peccatori.
Una più profonda riflessione teologica sulle caratteristiche della misericordia divina si trova in Rom 9,15-22. Si riprendono qui dei testi e delle tematiche dell’Antico Testamento per mostrare che la misericordia divina è assolutamente gratuita, si esercita secondo il divino beneplacito, e non le si può chieder conto dei criteri secondo i quali sceglie i suoi eletti.
Tutta la storia della salvezza è vista da Paolo sotto il segno della divina misericordia (Rom 11,30-32; 15,8; Tito 3,5).
Il giudizio finale viene visto come momento di misericordia per i giusti (Mt 5,7).
Cristo viene detto “misericordioso” in Ebr 2,17.
Tutto il suo atteggiamento si manifesta come una rivelazione della misericordia divina.
L’idea del Nuovo Testamento, che presenta Cristo come il rivelatore di Dio, si manifesta particolarmente per quanto riguarda questa caratteristica della misericordia. Tutto il Nuovo Testamento può essere considerato una rivelazione dell’amore misericordioso di Dio, manifestatosi in Gesù Cristo attraverso la morte redentrice che libera i peccatori dal loro stato di inimicizia con Dio. Ricordiamo solo un passo che ci manifesta in maniera tipica questo atteggiamento di Gesù verso gli uomini. Richiesto indirettamente dai farisei sulle motivazioni del suo stare a mensa coi pubblicani e coi peccatori, Gesù risponde: «Non sono i sani ad avere bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa significhi: Voglio la misericordia e non il sacrificio; non sono venuto infatti a chiamare i giusti ma i peccatori» (Mt 9,12-13).
Una sintesi sul pensiero e i sentimenti di Gesù verso l’umana miseria ci è data nel cap. 15° da Luca, noto come «il vangelo della misericordia».
 
Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo: “La misura di cui si parla in questo passo del Vangelo è il corpo di gloria, che ha quattro qualità: luminosità, immaterialità, sottigliezza e incorruttibilità; esso infatti è più luminoso del sole, più immateriale del vento, più sottile delle scintille e non può essere corrotto da lesione alcuna. Il Signore assunse la luminosità sul monte Tabor; l’immaterialità camminando sul mare; la sottigliezza quando se ne andò passando in mezzo agli Apostoli; l’incorruttibilità quando era assunto dai discepoli sotto la specie del pane, senza patire tuttavia alcunché di male. Altra spiegazione: vi sarà versata una misura buona: gioia senza dolore; pigiata: pienezza senza vacuità; scossa: saldezza senza dissoluzione (ciò che si scuote diventa solido); traboccante: amore senza simulazione (uno godrà del premio dell’altro. e così l’amore sovrabbonderà). Il seno in cui sarà data questa misura rappresenta la quiete e la gloria della Vita eterna” (Antonio da Padova Sermones IV domenica dopo Pentecoste).
 
Il santo del giorno - 11 Settembre 2025 - Beato Bonaventura da Barcellona (Michele Battista Gran) Francescano: Michele Battista Gran, nato a Riudomes (Spagna) nel 1620, rimasto vedovo era divenuto frate col nome di Bonaventura di Barcellona. Fu in diversi conventi spagnoli, dimostrando una profonda spiritualità, ubbidisce allegramente, vive una vita ritirata e mortificata. Chi gli vive accanto è testimone di fatti che hanno del miracoloso e che lasciano intravedere la sua vicinanza a Dio. Sente che il Signore vuole da lui un impegno particolare per rinnovare lo spirito francescano con l’istituzione dei «Ritiri», un ritorno alla spiritualità e alla povertà francescana delle origini. Si reca a Roma e qui trova un’umanità sofferente e bisognosa. Da vero figlio di san Francesco aiuta tutti come può e viene ribattezzato «l’apostolo di Roma». La riforma francescana che sta attuando gli attira i consensi delle autorità ecclesiastiche e dagli stessi Papi Alessandro VII e Innocenzo XI, dai quali arriva l’approvazione pontificia agli statuti dei suoi «Ritiri». Morì in San Bonaventura al Palatino nel 1684. (Avvenire)
 
O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi grandi doni del tuo amato Figlio
aiutaci a progredire costantemente nella fede,
per divenire partecipi della sua vita immortale.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.
 
10 Settembre 2025
 
Mercoledì XXIII Settimana T. O.
 
Col 3,1-11; Salmo Responsoriale Dal Salmo 144 (145); Lc 6,12-19
 
Colletta
O Padre, che ci hai liberati dal peccato
e ci hai donato la dignità di figli adottivi,
guarda con benevolenza la tua famiglia,
perché a tutti i credenti in Cristo
sia data la vera libertà e l’eredità eterna.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo degli Adulti Beati gli ultimi [131]Gesù proclama beati gli ultimi della società, perché sono i primi destinatari del Regno. Proprio perché sono poveri e bisognosi, Dio nel suo amore gratuito e misericordioso va loro incontro e li chiama ad essere suoi figli, conferendo loro una dignità che nessuna circostanza esteriore può annullare o diminuire: né l’indigenza, né l’emarginazione, né la malattia, né l’insuccesso, né l’umiliazione, né la persecuzione, né alcun’altra avversità.
Anzi, una situazione fallimentare può riuscire addirittura vantaggiosa. I poveri, i sofferenti e i peccatori sperimentano acutamente la loro debolezza. Sono disposti a lasciarsi salvare da Dio. Sono portati a misurare il valore della propria persona non dai beni esteriori, ma dall’amore che il Padre ha per loro. Così «passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). Per farne però l’esperienza gioiosa, devono abbandonarsi al suo amore, con umiltà e fiducia, e quindi convertirsi. In tal caso possono essere beati perfino in mezzo alle tribolazioni.
 
Prima Lettura: Discriminare gli uomini è tradire il vangelo - José Maria Gonzalez-Ruiz: Paolo fa scendere immediatamente la sua tesi del con-morire e con-risuscitare con Cristo al terreno morale. Tradurre « nekróo » con « mortificare» non riproduce esattamente il pensiero paolino. Comunque, qui « mortificare» non potrà significare « affliggere il corpo con austerità e privazioni »; questa interpretazione sarebbe contraria al pensiero di Paolo che, poco più sopra, ha condannato positivamente quelle astinenze (2,23). Qui si tratta della grande antitesi « uomo vecchio-uomo nuovo », che spiegherà subito più in particolare.
Il completamento di « mortificare » è sconcertante: « quella parte di voi che appartiene alla terra », o meglio, secondo il testo originale, « le membra che sono sulla terra ». Crediamo, con molti esegeti, che questa esortazione paolina sia sulla stessa linea di pensiero di quelle altre: « Se con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete » (Rrn 8,13); « Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri » (Gal 5,24).
In questo caso, « le membra sulla terra » sarebbe una espressione equivalente a « corpo di carne». Si tratta del-dell’uomo dominato dal peccato, dell’uomo vecchio, che deve morire misticamente perché dalle sue ceneri esca la radiante fenice dell’« uomo nuovo », dell’« uomo in Cristo ».
Subito dopo viene una duplice enumerazione di vizi che devono essere eliminati. La prima serie comprende peccati che si commettono nell’ambito individuale e suppongono la soddisfazione d’un torbido piacere.
A questi peccati di tipo sessuale egli aggiunge la « avarizia insaziabile », vizio che, insieme con quelli sessuali, era largamente comune fra i pagani. Questa « avarizia insaziabile » è detta da Paolo « idolatria », poiché suppone una totale consacrazione al dio-denaro; e appunto in questa esagerazione sta la sua immoralità.
La seconda serie di peccati si riferisce alla convivenza col prossimo: sono peccati che rendono impossibile la vita sociale: l’ira, l’animosità, la malignità, la maldicenza, il turpiloquio. Tutti questi vizi sono condannati in uno solo: « la menzogna vicendevole ». I cristiani formano un solo corpo, e la mancanza di sincerità vicendevole aprirebbe una deplorevole breccia nell’unità di questo corpo, la quale unità suppone un pluralismo ideologico e suppone una vera libertà di espressione, senza timore di rappresaglie, anche canoniche.
La meta dell’etica cristiana è il superamento di ogni discriminazione artificiale fra gli uomini: «greco-giudeo, schiavo-libero ». Mentre si propugna questo superamento della discriminazione, si condanna equivalentemente quella falsa convivenza « spiritualista » che alcuni vogliono stabilire fra greci e giudei, fra servi e liberi senza uguagliare realmente lo statuto degli uni e degli altri. In una parola, se in Cristo non vi è libero né schiavo, è inammissibile uno stato di schiavitù. E, tradotto in linguaggio moderno, se in Cristo non vi sono classi economico-sociali, è inammissibile una struttura che le conservi. L’interclassismo è il tradimento cristiano di turno dell’eterno programma di Cristo.
Salmo 144 (145): Ti voglio … lodare:  nel senso di inno. Il termine, al plurale (tehillîm), dà il titolo all’intero salterio. Il tuo regno è un regno eterno: la regalità di Dio è un titolo frequente nei Salmi (cfr. Sal 5,3). Dio è “davvero un re, ma in maniera diversa da come lo sono quelli di questo mondo. Il Signore è un re che sta vicino agli uomini” (Vincenzo Paglia, I Salmi). 
A sottolineare l’importanza del tema regalità c’è anche la frequenza (quattro volte) con cui qui ricorre il lemma “regno”.
 
Vangelo
Beati i poveri. Guai a voi, ricchi.
 
Luca riporta quattro beatitudini e le fa seguire da quattro maledizioni antitetiche, contrapposte alle beatitudini. A differenza di Matteo, Luca rifugge dal dare alle beatitudini una connotazione spirituale. Essendo il premio fissato nella vita ultraterrena, l’uomo deve stare sempre saldo nella fede confidando nella promessa di Dio, come Abramo, il quale «credette, stando saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rom 4,18).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,20-26
 
In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
 
Parola del Signore.

Beati - La pericope lucana delle Beatitudini è presente anche nel vangelo di Matteo (Cf. 5,1-12), ma con nette divergenze.
Luca, a differenza di Matteo, fa scendere Gesù in un luogo pianeggiante, una possibile allusione alla discesa di Mosè dal monte Sinai per comunicare al popolo d’Israele la parola di Dio (Cf. Es 19; 32; 34).
Mentre in Matteo (Cf. 5,1) Gesù rivolge il discorso alla folla, in Luca lo indirizza ai discepoli, a quanti cioè hanno già fatto una scelta, ponendosi alla sua sequela. Si doveva «trattare di credenti che vivevano in situazioni di povertà materiale e di oppressione, come testimoniano le maledizioni rivolte agli oppressori. Ebbene Luca dice: proprio loro si devono considerare beati e felici» (G. BE).
Inoltre, il testo lucano contiene quattro beatitudini, a differenza delle otto riportate da Matteo, e quattro guai. Questa opposizione, beati-guai, che ricorda le due vie «Vita e bene, morte e male» (Cf. Dt 30,15-20), mette il discepolo di fronte a una radicale scelta a cui seguono precise conseguenze: o la benedizione o la maledizione (Cf. Mt 12,30).
La concisione della pericope può attestare che probabilmente Luca, a differenza di Matteo, descrive l’insegnamento di Gesù in una forma che verosimilmente è molto più vicina allo stile del Maestro.
Anche per quanto riguarda il messaggio i due evangelisti si diversificano. Mentre Matteo «compone le beatitudini in vista soprattutto di una catechesi che vuole descrivere le condizioni etiche per entrare nel regno dei cieli, Luca considera piuttosto la situazione del mondo nel quale la Chiesa si trova a vivere: il punto di vista sociale sta per Luca in primo piano [Cf. beati voi poveri]. Anche l’opposizione tra adesso dei vv. 21 e 25, che indica appunto un’epoca storica ben determinata, e in quel giorno del v. 23, oltre ai futuri, è degna di essere sottolineata: essa infatti mette in grande rilievo il carattere messianico ed escatologico delle beatitudini-maledizioni per Luca» (Carlo Ghidelli).
Le beatitudini lucane sono simmetriche alle condanne o guai: da una parte i poveri, dall’altra i ricchi; da una parte quelli che piangono, dall’altra i gaudenti, ecc. I poveri, a cui allude Luca, sono coloro ai quali è destinata la buona novella della liberazione, dell’anno di grazia, del perdono (Cf. Is 61,1; Lc 4,14ss). Essi, insieme agli storpi, agli zoppi, ai ciechi, ecc., sono i veri privilegiati di Dio.
Il povero «è caratterizzato non solo da uno stato d’indigenza o di afflizione ma soprattutto dall’umile consapevolezza di poter confidare in Dio, da una insoddisfazione nei confronti dei beni del mondo, dalla tristezza a causa delle miserie proprie e degli uomini, per cui orienta tutte le sue attese verso Dio. In questo senso i poveri si oppongono ai sazi, a coloro che si sentono contenti di se stessi, autosufficienti e paghi dei loro attuali godimenti» (P. Rosario Scognamiglio).
I guai rivolti ai ricchi non devono fare pensare a una condanna tout court della ricchezza. Per il mondo biblico, la ricchezza è semplicemente un dono di Dio (Cf. Gn 31,5-9; Dt 28,3-7) e nella letteratura sapienziale a volte è lodata. Infatti, grandi sono i vantaggi che la ricchezza porta con sé: amicizie (Pro 14,20; 19,4), onore (Sir 10,30), pace (Sir 44,6), una vita beata e piena di sicurezza (Pro 10,5; 18,11.16; Sir 31,8.11), possibilità di praticare l’elemosina (Tb 12,8). Le condanne sono rivolte ai ricchi avari, rapaci e senza scrupoli nei loro affari.
La condanna è per chi idolatra la ricchezza ponendola al posto di Dio. E in questo senso, va compreso l’insegnamento di Paolo: «... Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti» (1Tm 6,10).
Nelle parole di Gesù si viene ad evidenziare così un conflitto tra il discepolo, il credente, il quale pone la sua fiducia unicamente in Dio, e l’empio, il miscredente, colui che ha posto la speranza nei beni caduchi e transitori, come il denaro, il piacere. Nelle Beatitudini, ancora una volta, emerge il modo di agire di Dio che stride formalmente e sostanzialmente con l’agire del mondo: l’uomo è beato non a motivo di una felice sorte, ma a motivo di una cattiva sorte quale la povertà, la persecuzione, il dolore.
Ma tutto sopportato per Cristo e il suo regno, altrimenti si scivolerebbe in un dolorismo inutile
 
Gesù e i poveri - Roberto Tufariello (Povero in Schede Bibliche Pastorali, Vol VI): Spesso il Vangelo ci mostra i poveri attorno a Gesù. Si tratta di mendicanti, di infermi, di vedove... che si rivolgono a lui. A loro riguardo, Gesù in primo luogo ha ripreso l’insegnamento tradizionale sul dovere di assistenza ai poveri. Egli stesso pratica l’elemosina (Gv 13,29) e vede in essa un’opera tipica della «giustizia» (Mt 6,1-4); la loda nella povera vedova del tempio (Mc 12,41-44) e in Zaccheo (Lc19,8-9); la raccomanda ai suoi discepoli (Mc 10,21; Lc 11,41; 12,33; 16,9; Cf. 14,13.21).
Al di là del dovere di assistenza, Gesù ha dato alla povertà effettiva un altro valore. Sapendo che ci saranno sempre dei poveri sulla terra (Mc 14,7; Mt 26,11; Cf. Dt 15,11), ha insegnato a vedere in essi un sacramento della propria presenza: attraverso i diversi volti della povertà, noi giungiamo misteriosamente a lui.
Nell’evocazione dell’ultimo giudizio, ha anticipato ciò che sarà detto a ognuno di noi, in base al comportamento che avremo tenuto nei riguardi dei poveri: ciò che avremo fatto a un piccolo, a un bisognoso, lo avremo fatto a lui (Mt 25,34-40).
Questo testo indica la grande dignità dei poveri, destinati ad essere un segno perenne della presenza del Signore, il quale nell’incarnazione, nella vita pubblica, nella passione ha voluto assumere la povertà, la sofferenza e l’insuccesso per dare loro un senso nuovo.
La beatitudine dei poveri - Abbiamo due versioni di questa beatitudine, ambientata nel discorso del monte: quella lucana, caratterizzata dal discorso diretto e dalla menzione dei poveri senza alcuna aggiunta: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). In altre parole: mi congratulo con voi che versate in situazione obiettiva di disagio, miseria, oppressione, distretta, perché Dio sta per diventare re, difensore e protettore vostro.
Si tratta di una proclamazione messianica di gioia, per l’imminente intervento regale e liberatore di Dio.
La versione di Matteo invece si caratterizza per il discorso in terza persona e soprattutto per la precisazione dei destinatari: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3). La beatitudine viene così spiritualizzata: beneficiari sono quanti realizzano la virtù della povertà spirituale, cioè dell’umiltà: essere curvi da­vanti a Dio. A loro è promesso l’ingresso nel regno finale di Dio.
La dimensione messianica della beatitudine dei poveri, presente a livello di Gesù di Nazaret, emerge di nuovo nel detto testimoniato da Mt 11,6 e Lc 7,23, in cui rispondendo alla delegazione del Battista, Gesù rimanda ai segni da lui compiuti, segni messianici preannunciati da Isaia: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi vengono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano; il tutto sintetizzato nel lieto annuncio proclamato ai poveri: «Ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11,5; Lc 1,11). Il Vangelo (euaggelizesthai) proclamato da Gesù ha quali destinatari e beneficiari i poveri, intesi come persone bisognose, che l’intervento di grazia di Dio, mediato da Gesù, toglie dal bisogno e dalla miseria, in concreto dalla cecità, dall’essere storpio, dalla lebbra, dalla sordità, dalla morte.
Analogo è il pronunciamento profetico di Gesù nella sinagoga di Nazaret, all’inizio della sua missione. Dopo aver letto il brano isaiano: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19), afferma: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,21).
In breve, il messaggio di gioia proclamato ai poveri non consiste in una parola consolatoria, destinata a rafforzare la rassegnazione, ma in un’azione efficace di libera­zione e di giustizia resa a coloro che giustizia non hanno.
 
La povertà non è per noi un’infamia, ma una gloria - Minucio Felice, Octavius, 36, 3-7: Noi siamo per lo più ritenuti poveri: non è un’infamia, ma una gloria. Il lusso abbatte l’animo, la frugalità lo afferma. Del resto, come può dirsi povero chi non ha bisogno di nulla, chi non brama i beni altrui, chi è ricco in Dio? È povero piuttosto colui che, pur possedendo molto, desidera ancor di più. Dirò proprio quello che sento: Nessuno può essere tanto povero come quando è nato. Gli uccelli vivono senza patrimonio e gli animali ogni giorno trovano il loro pascolo: sono tutte creature nate per noi, e, se non le bramiamo, le possediamo tutte. Dunque, come chi fa un viaggio è tanto più fortunato quanto minore è il carico che porta, così è tanto più felice nel viaggio di questa vita chi è alleggerito dalla povertà, chi non sospira sotto il peso delle ricchezze. Tuttavia, se ritenessimo utili le ricchezze, le chiederemmo a Dio: potrebbe concedercene un po’, perché è padrone di tutto. Ma noi preferiamo disprezzare i beni, anziché conservarli; bramiamo piuttosto l’innocenza, chiediamo piuttosto la pazienza; preferiamo essere buoni che prodighi.
 
Il santo del giorno - 10 Settembre 2025 - San Nicola da Tolentino: Nacque nel 1245 a Castel Sant’Angelo in Pontano nella diocesi di Fermo. A 14 anni entrò fra gli eremitani di sant’Agostino di Castel Sant’Angelo come oblato, cioè ancora senza obblighi e voti. Più tardi entrò nell’ordine e nel 1274 venne ordinato sacerdote a Cingoli. La comunità agostiniana di Tolentino diventò la sua «casa madre» e suo campo di lavoro il territorio marchigiano con i vari conventi dell’Ordine, che lo accoglievano nell’itinerario di predicatore. Dedicava buona parte della sua giornata a lunghe preghiere e digiuni. Un asceta che diffondeva sorriso, un penitente che metteva allegria. Lo sentivano predicare, lo ascoltavano in confessione o negli incontri occasionali, ed era sempre così: veniva da otto-dieci ore di preghiera, dal digiuno a pane e acqua, ma aveva parole che spargevano sorriso. Molti venivano da lontano a confessargli ogni sorta di misfatti, e andavano via arricchiti dalla sua fiducia gioiosa. Sempre accompagnato da voci di miracoli, nel 1275 si stabilì a Tolentino dove resterà fino alla morte il 10 settembre 1305. (Avvenire)
 
O Padre, che nutri e rinnovi i tuoi fedeli
alla mensa della parola e del pane di vita,
per questi grandi doni del tuo amato Figlio
aiutaci a progredire costantemente nella fede,
per divenire partecipi della sua vita immortale.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.