1 Agosto 2025
 
Sant’Alfonso Maria De Liguori, Vescovo e Dottore della Chiesa
 
Lv 25,8-17; Salmo responsoriale Dal Salmo 66 (67); Mt 14,1-12
 
Colletta
O Dio, che fai sorgere nella tua Chiesa
forme sempre nuove di santità,
fa’ che imitiamo l’ardore apostolico
del santo vescovo Alfonso Maria [de’ Liguori],
per ricevere la sua stessa ricompensa nei cieli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 11 Marzo 2011): Insieme alle opere di teologia, sant’Alfonso compose moltissimi altri scritti, destinati alla formazione religiosa del popolo. Lo stile è semplice e piacevole. Lette e tradotte in numerose lingue, le opere di sant’Alfonso hanno contribuito a plasmare la spiritualità popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande profitto ancor oggi, come Le Massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica d’amare Gesù Cristo, opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e il suo capolavoro. Egli insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: “Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che tutta la nostra salvezza sta nel pregare”. Di qui il suo famoso assioma: “Chi prega si salva” (Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II, Roma 1962, p. 171). Mi torna in mente, a questo proposito, l’esortazione del mio predecessore, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Le nostre comunità cristiane devono diventare «scuole di preghiera» ... Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi un punto qualificante di ogni programmazione pastorale” (Lett. ap. Novo Millennio ineunte, 33,34).
Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione, breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia.
“Certamente – scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!” (Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione). La spiritualità alfonsiana è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti gli uomini “copiosamente”. E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina. Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia nella bontà di Dio.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è un esempio di pastore zelante, che ha conquistato le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti, unito ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso rapporto con Dio, che è la Bontà infinita. Ha avuto una visione realisticamente ottimista delle risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza agli affetti e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio e il prossimo.
 
I Lettura - “Oltre al sabato e alle feste, ci sono altri due tempi importanti: l’anno sabbatico [l’espressione, oggi usata correntemente, ricorre nel v. 5] e il giubileo. Le due istituzioni sono in stretta relazione fra loro e si basano sul concetto della sovranità assoluta di Dio sulla terra” (Rita Torti Mazzi).
 
Vangelo
Erode mandò a decapitare Giovanni e i suoi discepoli andarono a informare Gesù.
 
Erode Antipa, figlio di Erode il Grande  e della sua quarta moglie, la samaritana Maltace, governava la Galilea e la Perea come tetrarca, titolo di ciascuno dei re che, sotto il controllo di Roma, governavano una delle quattro sezioni in cui era divisa la provincia di Siria. Erode Antipa infrangendo la Legge ebraica (Lv 20,21) aveva sposato Erodìade, moglie di suo fratello Filippo. Per poterla sposare, Erode Antipa aveva ripudiato la moglie, figlia del re nabateo Areta IV. Giovanni il Battista non ebbe paura di condannare pubblicamente Erode Antipa accusandolo di incesto e di adulterio (Es 20,14). Il Vangelo suggerisce che il martirio di Giovanni il Battista scaturì da questa accusa pubblica, ma secondo lo storico Giuseppe Flavio, Erode Antipa temeva l’influenza di Giovanni il Battista sul popolo, che poteva portare a una ribellione. Per questo lo aveva fatto imprigionare nella fortezza di Macheronte, e qui, molto probabilmente, lo aveva fatto decapitare. Plausibilmente le due versioni si intrecciano mettendo in rilievo la crudeltà di Erode Antipa, al pari di quella di Erode il Grande, suo padre.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 14,1-12
 
 In quel tempo al tetrarca Erode giunse notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!».
Erode infatti aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo. Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla con te!». Erode, benché volesse farlo morire, ebbe paura della folla perché lo considerava un profeta.
Quando fu il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle quello che avesse chiesto. Ella, istigata da sua madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista».
Il re si rattristò, ma a motivo del giuramento e dei commensali ordinò che le venisse data e mandò a decapitare Giovanni nella prigione. La sua testa venne portata su un vassoio, fu data alla fanciulla e lei la portò a sua madre.
I suoi discepoli si presentarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informare Gesù.
Parola del Signore.

Morte di Giovanni Battista - Angelico Poppi (Sinossi e Commento): Anche Matteo narra questo avvenimento in forma retrospettiva, per indicare il pericolo che incombeva pure su Gesù da parte dell’impudico tetrarca. L’evangelista attribuisce a Erode Antipa l’intenzione di uccidere il Battista (v. 5). Invece Marco addossa la responsabilità dell’omicidio alla moglie Erodiade, che odiava mortalmente il Precursore. Si noti però come anche Matteo presenti il tetrarca “rattristato” (v. 9) per l’imbroglio in cui si era cacciato con la promessa di donare alla figlia di Erodiade quello che avesse richiesto (v. 7).
Matteo ha semplificato il racconto di Marco, molto più dettagliato, per sottolineare la valenza cristologica dell’ avvenimento.
Lo redige come un resoconto di martirio, la sorte comune riservata ai profeti.
v. 5 È interessante questa notazione: Erode aveva timore di uccidere il Battista, perché le folle “lo consideravano come un profeta”. È evidente il richiamo al detto pronunciato da Gesù a Nazaret, con il quale si attribuiva il titolo di “profeta disprezzato” nella sua patria (l3,57c). Matteo stabilisce uno stretto parallelismo tra Gesù e il Battista, entrambi “profeti” perseguitati.
v. 12 I discepoli di Giovanni, dopo avergli data sepoltura, andarono a “riferirlo a Gesù”. Questa aggiunta in Matteo è significativa. Le vicende del Battista assumono il significato simbolico di profezie in azione, in riferimento alla persona e all’opera di Gesù. Tutta la vita del Precursore appare così intrecciata con quella del Cristo e orientata a prefigurare il significato della sua missione e della sua morte. Inoltre, tale annotazione indica il buon rapporto esistente tra i cristiani e i giovanniti, anche se costoro restavano ancora legati al passato, non aderendo pienamente al Vangelo (cf. At 18,24-19,7).
 
Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista - Benedetto XVI (Udienza Generale 29 Giugno 2012): Nel Calendario Romano, Giovanni il Battista è l’unico Santo del quale si celebra sia la nascita, il 24 giugno, sia la morte avvenuta attraverso il martirio. Quella odierna è una memoria che risale alla dedicazione di una cripta di Sebaste, in Samaria, dove, già a metà del secolo IV, si venerava il suo capo. Il culto si estese poi a Gerusalemme, nelle Chiese d’Oriente e a Roma, col titolo di Decollazione di san Giovanni Battista. Nel Martirologio Romano, si fa riferimento ad un secondo ritrovamento della preziosa reliquia, trasportata, per l’occasione, nella chiesa di S. Silvestro a Campo Marzio, in Roma.
Questi piccoli riferimenti storici ci aiutano a capire quanto antica e profonda sia la venerazione di san Giovanni Battista. Nei Vangeli risalta molto bene il suo ruolo in riferimento a Gesù. In particolare, san Luca ne racconta la nascita, la vita nel deserto, la predicazione, e san Marco ci parla della sua drammatica morte nel Vangelo di oggi. Giovanni Battista inizia la sua predicazione sotto l’imperatore Tiberio, nel 27-28 d.C., e il chiaro invito che rivolge alla gente accorsa per ascoltarlo, è quello a preparare la via per accogliere il Signore, a raddrizzare le strade storte della propria vita attraverso una radicale conversione del cuore (cfr Lc 3, 4). Però il Battista non si limita a predicare la penitenza, la conversione, ma, riconoscendo Gesù come «l’Agnello di Dio» venuto a togliere il peccato del mondo (Gv 1, 29), ha la profonda umiltà di mostrare in Gesù il vero Inviato di Dio, facendosi da parte perché Cristo possa crescere, essere ascoltato e seguito. Come ultimo atto, il Battista testimonia con il sangue la sua fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare, compiendo fino in fondo la sua missione. San Beda, monaco del IX secolo, nelle sue Omelie dice così: San Giovanni per [Cristo] diede la sua vita, anche se non gli fu ingiunto di rinnegare Gesù Cristo, gli fu ingiunto solo di tacere la verità. (cfr Om. 23: CCL 122, 354). E non taceva la verità e così morì per Cristo che è la Verità. Proprio per l’amore alla verità, non scese a compromessi e non ebbe timore di rivolgere parole forti a chi aveva smarrito la strada di Dio [...] Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita.
 
Martirio / Martiri: Alfonso Colzani (Enciclopedia del Cristianesimo): Nella storia cristiana, soprattutto dei primi secoli, i due termini designano la testimonianza e i testimoni della fede. II termine martirio deriva dal greco martyrion: testimonianza resa sotto giuramento con valore di prova.
Con questo significato di documento probatorio (dell’Alleanza o della Torà ) il termine ricorre frequentemente nella versione greca dall'Antico Testamento e  in alcuni luoghi del Nuovo Testamento, caratterizzato dal riferimento a Cristo.
L’evangelista Luca introduce un nuovo significato: negli Atti degli apostoli martirio significa rendere testimonianza. inteso come predicare Cristo, compito caratteristico degli apostoli che “con grande forza rendevano testimonianza” (At 4,33). Martiri a partire da Luca 24,48, sono designati i testimoni del Risorto, i quali sono incaricati di essere testimoni fra le genti. Questo compito è chiaramente marcato dalla sofferenza e dal rischio della morte (Stefano, il primo martire cristiano è chiamato in Atti degli Apostoli 22,20 “il testimone fedele”), ma non è caratterizzato dalla concezione più tardiva di martirio come testimonianza del sangue, quanto dall’inalterata c completa proclamazione del messaggio di Cristo.
Per l’evangelista Giovanni martyrion è per definizione testimonianza di Cristo, anticipata da Giovanni Battista, testimonianza che lo stesso Cristo rende a se stesso c che i discepoli proclamano c confermano. Giovanni usa il vocabolario dell’esperienza (della fede) c della testimonianza, che ha il senso di conferma della verità di Dio: i discepoli che hanno visto rendono testimonianza e annunciano la vita eterna resasi visibile (1Gv 1,2). Tale processo si realizza con l’aiuto dello Spirito Paraclito, che è colui che rendo testimonianza a Gesù (Gv 15,26), ma non sostituisce la testimonianza dei discepoli: “e anche voi mi renderete testimonianza” (v. 27)-
 
Origene (In Matth., X , 22): Il re ... a causa del giuramento ... mandò a decapitare Giovanni nel carcere: rifiutando di credere in Gesù, i giudei rifiutano di credere anche ai profeti che lo avevano preannunciato, e cosi decapitano, dopo averla chiusa in una prigione, “la Parola profetica”, non conservando più che una parola-cadavere, mutilata, che non ha più alcuna parte sana, perché essi non la comprendono più . Noi, al contrario, possediamo Gesù intatto, poiché si è realizzata la profezia che diceva di Lui: Non gli sarà spezzato neppure un osso (Gv. 19,36; Ez. 12.46; Sal. 33,21).
 
Il Santo del Giorno - 1 Agosto 2025 - Sant’Alfonso Maria De’ Liguori. Alla ricerca di Dio nel cuore degli ultimi: Dio s’incontra nello sguardo dei semplici e nelle profondità del cuore dell’uomo ed è lì che lo cercò sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa. Fulcro della sua missione fu la cura degli ultimi e degli emarginati, che si prese a cuore dopo l’incontro con i pastori delle montagne sopra Amalfi. Era nato a Napoli il 27 settembre 1696 da una famiglia nobile e, dopo gli studi di filosofia e diritto, decise di diventare sacerdote.
Ordinato nel 1726, quattro anni dopo incontrò i pastori durante un momento di forzato riposo; si convinse così della necessità di farsi apostolo in mezzo a loro e a tutti i poveri. Per questo scopo, guidato dal vescovo di Castellammare di Stabia, fondò la Congregazione del Santissimo Redentore (i Redentoristi). Nel 1760 divenne vescovo di Sant’Agata dei Goti. Morì nel 1787. (Avvenire)
 
O Dio, che hai fatto del santo vescovo Alfonso Maria [de’ Liguori]
un fedele ministro e apostolo dell’Eucaristia,
concedi ai tuoi fedeli di parteciparvi assiduamente
per cantare in eterno la tua lode.
Per Cristo nostro Signore.
 
31 LUGLIO 2025
 
Mercoledì XVII Settimana T. O.
 
Es 40,16-21.34-38; Salmo Responsoriale Dal Salmo 83 (84); Mt 13,47-53
 
Colletta
O Dio, che hai chiamato sant’Ignazio [di Loyola]
a operare nella Chiesa per la maggior gloria del tuo nome,
concedi anche a noi, con il suo aiuto e il suo esempio,
di combattere in terra la buona battaglia della fede
per ricevere con lui in cielo la corona dei santi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
 La pena principale dell’inferno; Catechismo degli Adulti - Pena eterna 1219: La pena dell’inferno è per sempre: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno... E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt 25,4146). «Il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc 9,48). «Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia» (Ap 14,11). L’eternità dell’inferno fa paura. Si è cercato di metterla in dubbio, ma i testi biblici sono inequivocabili e altrettanto chiaro è l’insegnamento costante della Chiesa.
1220: In che cosa consiste questa pena? La Bibbia per lo più si esprime con immagini: Geenna di fuoco, fornace ardente, stagno di fuoco, tenebre, verme che non muore, pianto e stridore di denti, morte seconda. La terribile serietà di questo linguaggio va interpretata, non sminuita. La Chiesa crede che la pena eterna del peccatore consiste nell’essere privato della visione di Dio e che tale pena si ripercuote in tutto il suo essere..
1221: Non si tratta di annientamento per sempre. Lo escludono i testi biblici sopra riportati, che indicano una sofferenza eterna e altri che affermano la risurrezione degli empi. Lo esclude la fede nella sopravvivenza personale, definita dal concilio Lateranense V. Del resto neppure il diavolo è annientato, ma tormentato «giorno e notte per i secoli dei secoli» (Ap 20,10) insieme con i suoi angeli. Quando la Sacra Scrittura parla di perdizione, rovina, distruzione, corruzione, morte seconda, si riferisce a un fallimento della persona, a una vita completamente falsata.
1222: Piuttosto la pena va intesa come esclusione dalla comunione con Dio e con Cristo: «Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità!» (Lc 13,27). «Costoro saranno castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza» (2Ts 1,9). L’esclusione però non è subita passivamente: con tutto se stesso, a somiglianza degli angeli ribelli, il peccatore rifiuta l’amore di Dio: «Ogni peccatore accende da sé la fiamma del proprio fuoco. Non che sia immerso in un fuoco acceso da altri ed esistente prima di lui. L’alimento e la materia di questo fuoco sono i nostri peccati». L’inferno è il peccato diventato definitivo e manifestato in tutte le sue conseguenze, la completa incapacità di amare, l’egoismo totale. La pena è eterna, perché il peccato è eterno. Il dannato soffre, ma si ostina nel suo orgoglio e non vuole essere perdonato. Il suo tormento è collera e disperazione, «stridore di denti» (Lc 13,28), lacerazione straziante tra la tendenza al bene infinito e l’opposizione ad esso. L’amore di Dio, respinto, diventa fuoco che divora e (cfr. Dt 4,24s; Is 10,17) consuma; lo sguardo di Cristo brucia come fiamma. Dio ama il peccatore, ma ovviamente non si compiace di lui: la sua riprovazione pesa terribilmente.
 
I Lettura: Mosè erige la Dimora, e vi introduce l’arca nella quale è stata deposta la Testimonianza. Dio manifesta la sua presenza riempiendo con la sua gloria la Dimora, sulla quale aleggia una nube che nel deserto indicherà agli Israeliti  il cammino per giungere alla terra promessa.
  
Vangelo
Raccolgono i buoni nei canestri e buttano via i cattivi.
 
La parabola della rete, simile alla parabola della zizzania, rimanda il lettore al giudizio finale quando i buoni saranno separati dai cattivi: i primi entreranno nel regno di Dio, i reprobi andranno «nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,31-46). Se è vero che nella fase terrena del regno i cattivi si mescoleranno ai buoni, la zizzania al grano, è anche vero che alla fine dei tempi tutti dovremo comparire «davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male» (2Cor 5,10). Il detto, che conclude il racconto evangelico, è da applicare ai responsabili delle comunità. Lo scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è colui che conosce sia l’insegnamento di Gesù, il nuovo, sia la Thorà, l’antico, interpretati e completati dal nuovo. In questo modo, non si abolisce l’insegnamento degli scribi, un patrimonio pur sempre prezioso, ma è la fede in Cristo a dargli una ricchezza nuova.

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,47-52:
 
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Terminate queste parabole, Gesù partì di là.
 
Parola del Signore.
 
Richard Gutzwiller (Meditazioni su Matteo): La parabola della rete del pescatore dimostra che Gesù non ha assolutamente atteso e annunziato una fine del mondo imminente, e la conseguente instaurazione del perfetto regno di Dio. L’immagine della rete nel mare, piena di pesci buoni e cattivi, e della scelta sulla riva spiega la dottrina dei due stadi. C’è una Chiesa attuale, quaggiù, e ve n’è una futura, di là. La Chiesa peregrinante e la Chiesa giunta alla mèta. La Chiesa militante e la Chiesa trionfante, la Chiesa incompiuta, carica d’ogni sorta di macchie e la Chiesa perfetta, simile a una sposa senza ombra. Chi perciò si scandalizza di cose presenti nella Chiesa, che gli dispiacciono, vuol saltare, a torto, oltre questo primo stadio. Chi si scandalizza di certi Papi che non corrispondono all’ideale del vicario di Cristo, di vescovi che non sono pari al compito di pastori, di sacerdoti in cui si scorge troppo il lato puramente umano, di fedeli che sono cristiani soltanto la festa e pagani nei giorni feriali, non vuol lasciare la rete di Cristo nell’acqua del tempo, senz’attendere che venga tirata alla spiaggia dell’eternità. Chi non tollera che l’arte cristiana sia continuamente offuscata da roba di scarto, che la comunione dei santi contenga molta empietà, chi perde, sul fronte missionario, l’ardita volontà di conquista o s’incollerisce per l’apparato e la burocrazia dell’amministrazione religiosa, non riflette che la rete del pescatore vien tirata attraverso acque torbide. La Chiesa temporale significa che in lei si devono trovare il caduco, le concezioni e le manifestazioni condizionate, transitorie, forme occasionali, stabilite dalla moda, dalla letteratura, dalla vita e dall’educazione. La Chiesa terrena ha in sé, per forza di cose, molti elementi fangosi e sudici, propri della terra. La Chiesa fra gli uomini porta le tracce della limitatezza, della piccolezza, dell’egoismo umani. Ma questo è solo il principio. Chi guarda la fine vede la soluzione, perché allora si avrà la divisione definitiva. Cristo parla due volte, in questo breve discorso in parabole, del giudizio finale, e tutt’e due le volte in immagini inquietanti. Accanto al raccolto sta l’immagine del fuoco, in cui verrà gettato il loglio. La scelta dei pesci è il simbolo della divisione degli uomini, e di nuovo si parla della fornace ardente, di pianto e di stridor di denti. Il Signore non parla d’annientamento dei reietti, d’una ricaduta, quindi nel nulla, bensì d’una punizione, annunziandola con espressioni fortissime. Non possiamo passare sotto silenzio questo fatto, il quale dimostra che l’uomo è posto davanti alla gravità
 
Pio Joerg (Inferno in Schede Bibliche Pastorali Vol. IV): Malgrado la novità del suo messaggio evangelico, il cristianesimo rispecchia, nel suo ambiente primitivo e nei suoi scritti, parecchi riflessi della dottrina degli apocalittici. Dai vangeli appare che Gesù e i suoi ascoltatori condividono le loro concezioni fondamentali sui novissimi. Perciò l’approvazione di Gesù ha dato la certezza sul punto essenziale della retribuzione ultraterrena.
Nella predicazione di Giovanni Battista manca la parola «geenna», ma c’incontriamo in parecchie espressioni equivalenti, quando parla di ogni albero infruttifero che verrà tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10) e quando annuncia la venuta del messia che brucerà la pula con fuoco inestinguibile (Mt 3,12).
Nella sua predicazione Gesù insiste principalmente sulla paternità di Dio e poco sulla giustizia vendicativa, tuttavia le testimonianze dei vangeli sono sufficienti per darci la certezza che Gesù non si è solo adattato al linguaggio e alle idee dei suoi ascoltatori, ma ha insegnato la verità dell’inferno. Così afferma che è preferibile perdere una delle proprie membra che non vedersi tutto il proprio corpo gettato nella geenna (Mt 5,29-30); esorta a non temere quelli che uccidono il corpo, senza poter uccidere l’anima, mette in guardia contro coloro che possono far perire e anima e corpo nella geenna (Mt 10,28); infine accusa scribi e farisei che fanno di tutto per convertire dei pagani, destinandoli alla geenna (Mt 23,15).
In altri discorsi Gesù allude alla geenna, usando però espressioni equivalenti, particolarmente la formula «dove sarà pianto e stridor di denti» (Mt 8,12; 13,42). Vedi anche Mt 25,41.46.
La parabola del ricco epulone (Lc 16,19-31) è considerata un testo classico per la dottrina sull’inferno e ha effettivamente influito molto sulla concezione cristiana. Per questa parabola Gesù si è ispirato al capitolo 22 del libro di Henoc (scompartimenti; luce e sorgente dell’acqua della vita dove c’è Lazzaro, tenebre e tormenti, lamenti dove c’è l’epulone). Cosa voleva insegnare Gesù? il castigo per l’uso immorale delle ricchezze? una dottrina sul paradiso e l’inferno? l’inutilità della risurrezione di un morto per indurre all’ascolto della legge? La tradizione patristica e teologica vi ha visto qualche cosa di piu di una semplice parabola e ne ha ricavato la dottrina sulla esistenza di uno stato intermedio di felicità e di pena tra la morte e il giudizio finale. Qualche esegeta moderno invita a stare maggiormente al rigore delle regole per l’interpretazione delle parabole e del genere letterario apocalittico. Ma il pensiero di Gesù va ricaveto dalle sue affermazioni.
Nelle parabole  del regno intendevo parlare principalmente della grande escatologa. Ma dalle convinzione dei suoi ascoltatori circa l’immortalità dell’anima, dalle parabole del ricco epulone, dalla promesse rivolta ai buon ladrone sulla croce (Lc 23; 43), si può legittimamente dedurre che Gesù insegnò anche la retnbuzione individuale subito dopo morte. Egli però non ci ha dato una dottrina in forma sistematica. È lecito distinguere nella sua predicazione, anche nel nostro caso, la verità insegnata dalle modalità di rivestimento. Per farsi capire, Gesà ha usato anche immagini correnti e popolari sull’inferno. Tutto quanto dice sulla natura delle pene (fuoco), sul soggiorno e sulle condizioni dei reprobi, corrisponde più al mezzo che all’oggetto d’insegnamento.
Anche negli scritti apostolici non incontriamo un sistema dottrinale. Scompare il nome «geenna» (solo Gc 3,6 in senso figurato), e accanto a «ade» compaiono altre espressioni, come «perdersi», «perdere la vita», «perdizione». Solo l’Apocalisse riprende la fioritura delle immagini proprie della letteratura apocalittica. Così, in 2Pt 2,4 e in Gd 6 si afferma che gli angeli ribelli sono stati gettati nell’inferno (= abisso tenebroso, regno delle tenebre) in attesa del giudizio ultimo di condanna. Nell’Apocalisse la terminologia e le immagini sono quelle tipiche della letteratura apocalittica: la bestia e lo pseudoprofeta saranno gettati vivi nel lago di fuoco e di zolfo (19,20). Simile destino toccherà al diavolo (20,10), alla morte stessa (20,14) e ai malvagi (21,8).
Paolo e Giovanni considerano piuttosto l’aspetto positivo dell’escatologia: la felicità degli eletti. Rievocando la sorte dei reprobi preferiscono parlare di perdizione, morte, lontananza da Dio. Ci basti citare 2Ts 1,9 «Costoro (quanti non conoscono Dio e obbediscono al vangelo del Signore Gesù) sono castigati con una rovina eterna, lontani dalla faccia del Signore e dalla gloria della su apotenza» (cf. Gv 5,29). Di perdizione parla ancora Paolo in Fil 1,28; 3,19; Rm 2,19; 9,22; 1Cor 1,18; 15,18; 2Cor 2,15; 4,3.9. Fa meraviglia che questi agiografi non riccorrono alle immagini del fuoco e dei vermi. Ma per i loro destinatari non semiti quelle immagini del mondo apocalittico non richiamavano nessun interesse.
 
La parabola delle reti: «In questo mondo perverso, in questi giorni cattivi, in cui la Chiesa si guadagna la sua futura glorificazione con l’umiltà presente, in cui viene ammaestrata dagli stimoli del timore, dai tormenti del dolore, dalle molestie della fatica e dai pericoli della tentazione, in cui ha l’unica gioia della speranza, se gioisce come deve, molti reprobi sono mescolati con i buoni. Gli uni e gli altri vengono raccolti come nella rete di cui parla il Vangelo [cfr. Mt 13,47-50], e in questo mondo, quasi fosse un mare, viaggiano tutti insieme raccolti nelle reti, fino a quando giungono alla riva, ove i cattivi vengono separati dai buoni, perché nei buoni, come nel suo tempio “Dio sia tutto in tutti” [1Cor 15,28]. Ora perciò vediamo che si adempie la voce che diceva nel salmo: “Annunciai e parlai, si son moltiplicati in soprannumero” [Sal 39,6]. Ed è ciò che accade da quando, per la prima volta per bocca del suo precursore, e poi per sua propria bocca, [Cristo] ha annunziato e detto: “Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino” [Mt 3,2]» (Agostino, De civit. Dei, 18, 49).
 
Santo del giorno - 31 Luglio 2025 - Sant’Ignazio di Loyola, Sacerdote: Il grande protagonista della Riforma cattolica nel XVI secolo, nacque ad Azpeitia, un paese basco, nel 1491. Era avviato alla vita del cavaliere, la conversione avvenne durante una convalescenza, quando si trovò a leggere dei libri cristiani. All’abbazia benedettina di Monserrat fece una confessione generale, si spogliò degli abiti cavallereschi e fece voto di castità perpetua. Nella cittadina di Manresa per più di un anno condusse vita di preghiera e di penitenza; fu qui che vivendo presso il fiume Cardoner decise di fondare una Compagnia di consacrati. Da solo in una grotta prese a scrivere una serie di meditazioni e di norme, che successivamente rielaborate formarono i celebri Esercizi Spirituali. L’attività dei Preti pellegrini, quelli che in seguito saranno i Gesuiti, si sviluppa un po’in tutto il mondo. Il 27 settembre 1540 papa Paolo III approvò la Compagnia di Gesù. Il 31 luglio 1556 Ignazio di Loyola morì. Fu proclamato santo il 12 marzo 1622 da papa Gregorio XV. (Avvenire)
  
O Dio, nostro Padre,
che ci hai dato la grazia di partecipare a questo divino sacramento,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che il dono del suo ineffabile amore
giovi alla nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 30 LUGLIO 2025
 
Mercoledì XVII Settimana T. O.
 
Es 34,29-35; Salmo Responsoriale Dal Salmo 98 (99); Mt 13,44-46
 
Colletta
O Dio, nostra forza e nostra speranza,
senza di te nulla esiste di valido e di santo;
effondi su di noi la tua misericordia
perché, da te sorretti e guidati,
usiamo saggiamente dei beni terreni
nella continua ricerca dei beni eterni.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Il bisogno di gioia nel cuore di tutti gli uomini - Gaudete Dominum 1: La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale. Il denaro, le comodità, l’igiene, la sicurezza materiale spesso non mancano; e tuttavia la noia, la malinconia, la tristezza rimangono sfortunatamente la porzione di molti. Ciò giunge talvolta fino all’angoscia e alla disperazione, che l’apparente spensieratezza, la frenesia di felicità presente e i paradisi artificiali non riescono a far scomparire. Forse ci si sente impotenti a dominare il progresso industriale, a pianificare la società in maniera umana? Forse l’avvenire appare troppo incerto, la vita umana troppo minacciata? O non si tratta, soprattutto, di solitudine, di una sete d’amore e di presenza non soddisfatta, di un vuoto mal definito? Per contro, in molte regioni, e talvolta in mezzo a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria; sono meglio conosciute, illustrate dai «mass media», non meno delle esperienze di felicità; opprimono la coscienza, senza che appaia molto spesso una soluzione umana alla loro dimensione. Questa situazione non può tuttavia impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia. È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto.
 
I Lettura: Quando Mosè scese dal monte Sinai … non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con il Signore, san Paolo ricorda questo episodio nella seconda lettera ai Corinzi: “Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto” (3,15-16). Il viso raggiante di Mosè, “dopo le sue conversazioni con il Signore, rende plastico l’insegnamento sulla capacità trasfigurante della preghiera, quando questa sia davvero l’espressione di una profonda comunione con Dio; ciò sarà evidente in Gesù [cf. Lc 9,28-32; 2Cor 3,18; 4,6]” (Messale Quotidiano San Paolo).
 
Vangelo
Vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
 
Il tesoro e la perla preziosa stanno a raffigurare il regno di Dio. I cristiani dovrebbero comportarsi come l’uomo della parabola che vende tutto per venire in possesso del tesoro, e dovrebbero essere abili come il mercante del racconto evangelico che aliena tutti i suoi averi per comprare la perla preziosa. Ma spesso in cima ai pensieri dei credenti non v’è il regno di Dio, ma altri tesori e altre perle preziose, purtroppo fin troppo terreni. Solo chi comprende e accoglie con gioia la Parola dispiegherà tutta la sua attenzione, e tutte le sue fatiche, per conquistare il regno di Dio, l’unico vero tesoro dal valore incommensurabile.
 
Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 13,44-46

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra».
 
Parola del Signore.

Senza voler forzare i testi, possiamo trovare un filo comune che lega le due parabole ed è l’impossibilità per l’uomo di riuscire nella vita senza la grazia di Dio e senza una decisione per Dio: una decisione radicale, ma anche gioiosa come sottolinea la parabola del tesoro nascosto in un campo. In questo modo vengono smentiti gli «spensierati di Sion»: i giullari del Vangelo facile e i buontemponi dell’ottimismo a tutti i costi (Am 6,1-7). Scriveva il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer, morto impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945: «La grazia a buon mercato è nemica mortale della Chiesa; oggi, nella nostra lotta, si impone la grazia che costa ... La grazia facile è quella di cui disponiamo in proprio. È la predicazione del perdono senza il pentimento, è il battesimo senza disciplina ecclesiastica, la Cena santa senza la confessione dei peccati, l’assoluzione senza confessione personale. La grazia a buon mercato è la grazia non avallata dall’obbedienza, la grazia senza la croce, la grazia che astrae da Gesù Cristo vivente e incarnato».
Il Vangelo, inoltre, vuole sottolineare la scaltrezza, l’avvedutezza dell’uomo del tesoro nascosto in un campo e del mercante: due uomini capaci di capire e ben valutare la fortuna loro capitata inaspettatamente tra le mani, in questo modo diventano l’immagine del vero discepolo che sa comprendere l’inestimabile valore del regno di Dio. Il discepolo, proprio perché cerca le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio e non pensa alle cose della terra (Col 3,1-2), è in grado di ben valutare i tesori celesti per il cui possesso è pronto a cavarsi gli occhi della testa, a ridursi in povertà e far gettito anche della propria vita.
A leggere bene il Vangelo si comprende allora con chiarezza che l’insegnamento delle parabole sta nell’incalcolabile valore del tesoro scoperto e nel sacrificio che il suo acquisto richiede.
Praticamente vuol dirci che l’accoglienza «del regno richiede tutto noi stessi. La scoperta della perla preziosa spinge il mercante a vendere tutti i suoi beni per impossessarsene, rinunciando perfino a essere mercante... Ebbene, la missione di Gesù di proclamare la decisione di Dio di attuare definitivamente ciò che aveva promesso da tempo, esige una risposta senza compromessi, un impegno totale, una decisione esistenziale che rischia il tutto per tutto, che vende tutto ciò che ha per comprare la perla di grande valore» (Giuseppe Carata). La Parola di Dio sta cercando di dire ai nostri cuori, forse un po’ sconcertati, che il baricentro della vita umana è fuori di noi: per riuscire o per ritrovare noi stessi, dobbiamo perderci; per portare frutto dobbiamo morire (Gv 12,24); per trovare o salvare la vita dobbiamo perderla (Mt 16,25; Gv 12,25).
 
Il Regno di Dio - Giovanni Paolo II (Udienza Generale 18 Marzo 1987): Il regno di Dio costituisce il tema centrale della sua predicazione [di Gesù] come dimostrano in modo particolare le parabole.
La parabola del seminatore (Mt 13,3-8) proclama che il regno di Dio è già operante nella predicazione di Gesù, e al tempo stesso orienta a guardare all’abbondanza dei frutti che costituiranno la ricchezza sovrabbondante del Regno alla fine del tempo. La parabola del seme che cresce da solo (Mc 4, 26-29) sottolinea che il Regno non è opera umana, ma unicamente dono dell’amore di Dio che agisce nel cuore dei credenti e guida la storia umana al suo definitivo compimento nella comunione eterna con il Signore. La parabola della zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24-30) e quella della rete da pesca (Mt 13,47-52) prospettano anzitutto la presenza, già operante, della salvezza di Dio. Insieme ai “figli del Regno”, però, sono anche presenti i “figli del Maligno”, gli operatori di iniquità: solo al termine della storia le potenze del male saranno distrutte e chi ha accolto il Regno sarà sempre con il Signore. Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13, 44-46), infine, esprimono il valore supremo e assoluto del regno di Dio: chi lo comprende è disposto ad affrontare ogni sacrificio e rinuncia per entrarvi.
Dall’insegnamento di Gesù appare una ricchezza molto illuminante. Il regno di Dio, nella sua piena e totale realizzazione, è certamente futuro, “deve venire” (cf. Mc 9,1; Lc 22,18); la preghiera del Padre Nostro insegna a invocarne la venuta: “venga il tuo Regno” (Mt 6,10).
Al tempo stesso però, Gesù afferma che il regno di Dio “è già venuto” (Mt 12,28), “è in mezzo a voi” (Lc 17,21) attraverso la predicazione e le opere di Gesù. Inoltre da tutto il Nuovo Testamento risulta che la Chiesa, fondata da Gesù, è il luogo dove la regalità di Dio si rende presente, in Cristo, come dono di salvezza nella fede, di vita nuova nello Spirito, di comunione nella carità.
Appare così l’intimo rapporto tra il Regno e Gesù, un rapporto così forte che il regno di Dio può essere anche chiamato “regno di Gesù” (Ef 5,5; 2 Pt 1,11), come del resto Gesù stesso afferma davanti a Pilato, asserendo che il “suo” regno non è di questo mondo (Gv 18,36).
In questa luce possiamo comprendere le condizioni che Gesù indica per entrare nel Regno. Esse si possono riassumere nella parola “conversione”.
Mediante la conversione l’uomo si apre al dono di Dio (cf. Lc 12,32), che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Ts 2,12); accoglie il Regno come un fanciullo (Mc 10, 5) ed è disposto a qualunque rinuncia per potervi entrare (cf. Lc18,29; Mt 19,29; Mc 10,29).
Il regno di Dio esige una “giustizia” profonda o nuova (Mt 5,20); richiede impegno nel fare la “volontà di Dio” (Mt 7, 21); domanda semplicità interiore “come i bambini” (Mt 18,3; Mc 10,15); comporta il superamento dell’ostacolo costituito dalle ricchezze (cf. Mc10,23-24).
 
… pieno di gioia: Molti, nei tempi passati, per salvare i loro averi da ruberie, soprattutto in periodo di guerre o di calamità naturali, erano soliti nasconderli sottoterra. Un contadino, un salariato, nel vangare il terreno si imbatte proprio in uno di questi tesori nascosti e per venirne in possesso lecitamente, «va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La parabola, comunque, non vuole dare indicazioni morali di sorta.
Nel racconto evangelico, il tesoro è il regno dei cieli per il quale l’uomo deve essere sollecito nel «vendere tutti i suoi averi». Ma il «fulcro dottrinale della parabola... non consiste per sé nei sacrifici affrontati per il regno, ma nell’invito pressante di Gesù agli uditori di riconoscere nella sua opera l’azione di Dio nel mondo per l’attuazione del regno. Questo non esclude, soprattutto nella redazione matteana, un atto decisionale, che comporta per il discepolo una scelta coraggiosa per un orientamento di vita e una condotta esemplare nel presente» (Angelico Poppi).
Va sottolineata la gioia, che caratterizza i sentimenti di coloro che entrano in possesso del regno.
La parola gioia corrisponde all’ebraico simhah, che vuol dire soddisfazione dell’anima. L’Antico Testamento ama esaltare anche le gioie più umili della vita: quella del cibo, del riposo, del divertimento, del vino (Cf. Sal 104,5; Sir 31,27; Is 24,11).
La gioia di essere genitori di una numerosa prole (Cf. Sal 127,3; Sir 25,7; Gv 16,21). La gioia della fedeltà della sposa, del calore della casa e quella che scaturisce da una vera amicizia. Ma «la gioia vera il giusto la trova in Dio, nella sua parola, nella sua legge, nella sua alleanza indefettibile... La gioia del pio israelita, oltre che nell’intimità con Dio, sgorga dalla contemplazione delle meraviglie da lui operate nell’universo e nella storia del suo popolo. Una delle gioie più intense per Israele proviene dall’esercizio del culto reso al Dio vivo, presente in seno al popolo nel suo tempio» (G. Manzoni).
La vera gioia inonderà il mondo con la nascita del Cristo: Giovanni Battista esulta di gioia nel grembo della madre (Cf. Lc 1,41.44); Maria, la madre di Gesù, erompe in un canto di gioia, che celebra Dio padre dei piccoli e salvatore dei poveri e degli umili (Cf. Lc 1,46-55). La nascita di Giovanni Battista rallegra il cuore degli anziani genitori e dei loro conoscenti (Cf. Lc 1,56-57). La nascita di Gesù viene annunziata ai pastori come «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10).
I motivi di questa gioia sono evidenti: oramai in Gesù, il regno di Dio è in mezzo agli uomini, esso, come testé ci ha ricordato Matteo, è il tesoro per il quale si deve essere disposti a dare tutto gioiosamente, «perfino la vita» (Lc 14,26).
 
La perla che desiderava - Ilario di Poitiers (Commentano a Matteo 13, 8): La stessa spiegazione vale anche per la perla. Ma qui il discorso segna un progresso, trattandosi di un mercante, che, dopo esser rimasto per lungo tempo nella Legge, mediante una ricerca lunga e continua, viene a conoscenza della perla e abbandona tutto ciò che ha conseguito sotto il peso della Legge. Per molto tempo ha fatto del commercio e un giorno ha trovato la perla che desiderava. Ma questa pietra, unico oggetto dei suoi desideri, deve essere acquistata al prezzo del sacrificio di tutta la sua fatica precedente.
 
Il Santo del Giorno - 30 Luglio 2025 - Sant’Angelina despota di Serbia: Figlia di Giorgio Arianita e cognata del principe Ivan-i Cronojevic, al quale Eugenio IV aveva affidato il vessillo della Chiesa nella lotta contro i Turchi, Angelina sposò Stefano il Cieco, fratello di Lazaro II Greblanovic. Quando il 21 gennaio 1458 Lazaro morì senza discendenti maschi, Stefano divenne despota di Serbia, ma nel 1467 fu costretto a fuggire con la famiglia per sottrarsi alla pressione turca e si recò in Italia, dove, dieci anni dopo, nel 1477, si spegneva. Angelina si stabilì a Kupinovo (Srem), dove fece traslare il corpo del marito, e, riavuto il titolo di despota alla morte di Zmaj Vuk (1485 o 1486), coniò monete d’argento e d’oro che recavano su una faccia la sua immagine e sull’altra quella dei figli Djurdje e Ivan. Costruì un monastero femminile a Krusedol (Srem) e morì nel 1516. Fu sepolta a Krusedol insieme con il marito e i figli. La Chiesa serba la venera con il nome di “Majka Angelina” il 30 luglio, mentre Stefano il Cieco è celebrato l’11 ottobre, Ivan il 10 dicembre e Djurdje, che si era fatto monaco prendendo il nome di Massimo, il 18 gennaio. (Autore: Augusto Moreschini)
 
O Dio, nostro Padre,
che ci hai dato la grazia di partecipare a questo divino sacramento,
memoriale perpetuo della passione del tuo Figlio,
fa’ che il dono del suo ineffabile amore
giovi alla nostra salvezza.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
29 Luglio 2025
 
Santa Marta
 
1 Gv 4,7-16; Salmo Responsoriale Dal Salmo 33 (34); Gv 11,19-27 oppure Lc 10,38-42
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
il tuo Figlio ha accettato l’ospitalità nella casa di santa Marta:
per sua intercessione concedi a noi
di servire fedelmente Cristo nei fratelli,
per essere accolti da te nella dimora del cielo.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Dio è amore - Lumen Gentium 42: «Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui» (1Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
 
Prima Lettura: La prima lettera di san Giovanni è costituita da tre grandi sezioni: camminare nella luce (1,5-2,29), vivere da figli di Dio (3,1-4,6) e alle fonti della carità e della fede (4,7-5,4). Il brano odierno, in cui troviamo l’esaltante affermazione «Dio è amore», ci introduce alle sorgenti della carità: Dio ha l’iniziativa della carità e la manifesta inviando e donando il suo Figlio unigenito, «perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
 
Vangelo
Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose.
 
Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e la si ritrova durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta si presenta in veste di donna tuttofare.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10,38-42
 
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
 
Parola del Signore.
 
Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): 40 [Marta] Era molto affaccendata per il servizio, letteral.: «era affaccendata per il molto servizio», cioè: per il molto lavoro che richiedeva il servizio. L’intenso lavoro era dovuto in parte alla premura di Marta che, come donna e padrona di casa, voleva offrire una generosa accoglienza all’illustre ospite preparandogli una refezione non usuale ed in parte anche al numero degli invitati, perché Gesù, anche se il testo non dice nulla, doveva avere con sé i discepoli. Signore, non ti dai pensiero che mia sorella...? Il termine «Signore» è caro a Luca (cf. vers. precedente e seguente), come si è già rilevato. «Non ti dai pensiero che...»; la stessa espressione usci dalla bocca dei discepoli durante la tempesta sul lago (cf. Mc., 4, 38). Queste parole dovettero essere pronunziate con un accento alquanto risentito, perché Marta, non riusciva a spiegarsi come Gesù e Maria, che pur sapevano quanto lavoro ella doveva sbrigare in quella circostanza, potessero rimanere tranquilli a conversare. Marta non rivolge la parola alla sorella, ma al Maestro; ciò si spiega dal fatto che Gesù, secondo Marta, è in certo modo responsabile della situazione e che egli inoltre può autorevolmente dire a Maria di sospendere la conversazione per accorrere ad aiutare l’affaccendata sorella. Mi lascia sola a servire; altri codici hanno: «mi abbia lasciato sola...». Mi aiuti; il verbo greco è molto più espressivo poiché significa: da parte sua prenda il suo lavoro. In due versetti (verss. 39-40) Luca ci tratteggia con mano maestra due figure caratteristiche che conferiscono alla scena una particolare suggestività.
41 Marta, Marta, tu ti affanni ed agiti per molte cose; la ripetizione del nome richiama l’attenzione su ciò che verrà asserito in seguito. Ti agiti per molte cose (Volgata: et turbaris erga plurima); non è una semplice constatazione, ma in pari tempo un rimprovero ammonitore (molte cose = troppe cose; Volg.: plurima). Marta non sa vedere oltre le sue occupazioni e preoccupazioni, per questo Gesù la richiama ammonendola delicatamente che si è data troppo da fare per cose che lei stessa ha volute.
42 Invece ve ne è bisogno di poche, anzi di una sola; questa ci sembra la lettura da preferirsi, perché più rispondente al contesto ed alla circostanza in cui tali parole furono pronunziate; altri codici leggono: «invece ve ne è bisogno di poche», oppure: «invece ve ne è bisogno di una soltanto». Il Salvatore distoglie Marta dal mondo delle sue faccende per richiamarla a qualcosa di superiore che è l’unico necessario; per questa donna solerte e preoccupata di onorare i suoi ospiti era sufficiente che, in quella circostanza, preparasse le poche cose convenienti per una refezione comune e decorosa, poiché quello che maggiormente importa è l’unico necessario. Questo modo di parlare ha una movenza di stile giovanneo; il quarto evangelista infatti ama passare da un’osservazione comune ed umana ad una prospettiva elevata e divina. Gesù, approfitta di questa occasione che gli si è offerta per invitar la donna tutta indaffarata nelle faccende di casa a riflettere ed a capire che vi è una sola cosa necessaria, cioè: il pensiero della salvezza (cf. Lc., 12, 29-31; Mt., 6, 33). Maria si è scelta la parte buona; altri traducono: «...la parte migliore» (Volgata: optimam partem elegit) attenendosi più al senso voluto dal contesto che alla forma dell’aggettivo greco (...τῆνἀγαθὴν μερίδα). Maria, che si interessava di ascoltare attentamente le parole del Maestro, ha scelto la porzione buona, cioè un’occupazione migliore di quella a cui attendeva la sorella. Che non le sarà tolta, cioè: Maria non sarà distolta dall’ascoltare la parola di Gesù; questa donna continuerà a rimanere accanto al Maestro, mentre la sorella continuerà a preparare il pasto per gli ospiti che sono nella sua casa. L’importanza di questo episodio, che appare come un delicato idillio familiare, risulta dalla dottrina dell’unico necessario che consiste nell’ascoltare la parola di Gesù. Probabilmente esso è stato narrato subito dopo la parabola del buon samaritano, che illustra il precetto dell’amore del prossimo (precetto intimamente legato a quello dell’amore di Dio), perché lo completa con la prospettiva dell’unico necessario che consiste nell’ascoltare la parola del Signore (cf. vers. 39).
 
Si comprende bene cosa abbia scelto - Maria alle faccende di casa ha preferito la preghiera, l’intimità con il Cristo, l’ascolto della Parola: l’unica cosa di cui c’è bisogno (Lc 10,42). Senza voler enfatizzare la scelta di Maria, possiamo però ammettere che Marta nello scegliere le pentole commise un grossolano errore: quello di non comprendere il valore prezioso dell’ascolto orante e della preghiera; quello di non comprendere che la preghiera è il vero, insostituibile motore che muove tutto; quello di non capire chi le stava dinanzi e con chi stava parlando. Marta, più che le mani e i piedi, avrebbe dovuto far muovere il cuore e da esso far sgorgare un’ardente preghiera. L’errore di Marta è l’errore di molti uomini e non solo contemporanei. Un mondo disposto ad ammirare unicamente l’uomo faber immerso in una vita attiva, fatta esclusivamente di opere concrete, ha trasformato il cristianesimo in una religione quasi solo al femminile: per cui, la preghiera è il rifugio di chi non sa o non vuole impegnarsi nel mondo; dell’inetto che non sa comprendere le grandi cause sociali e politiche e lottare per esse; o di chi non sa comprendere che il primo impegno è la promozione umana. Oggi «si fa un gran parlare di impegno nel mondo, di impegno nel sociale, di ‘promozione umana’. E sta bene... Ma dobbiamo oggi asserire che più necessario di tutto, di ogni altro impegno, è amare Dio, quindi onorarlo, servirlo e poi farlo amare, farlo onorare, farlo servire... Attenzione dunque ad un cristianesimo fatto tutto e solo orizzontale! Attenzione all’attivismo che tarpa le ali ai voli dello spirito, alla preghiera, alla contemplazione! Il rimprovero di Gesù a Marta è per tutti questi travisamenti della vocazione cristiana. Può essere per noi...» (Andrea Gemma, vescovo). Solo la preghiera, e una vita nascosta in Dio, può rendere accettabile e imitativa l’affermazione di Paolo: «sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi» (Col 1,24). Solo la preghiera può trasformare il dolore in letizia e la sofferenza in gioia. Solo la preghiera può svelare «il mistero nascosto da secoli» e renderlo intelligibile e comprensibile al cuore dell’uomo. Solo la preghiera può dare forza al servo della Parola nelle fatiche apostoliche. Solo la preghiera fa sì che la carità «come buon seme, cresca e fruttifichi» (LG 46). Solo la preghiera può svelare all’uomo il volto radioso del Risorto e solo la preghiera permette di ritrovarlo luminoso nei poveri, negli ultimi, negli indigenti.
 
Dio non ci vuole preoccupati: «Dio nostro Padre non voleva che noi vivessimo preoccupati e in ansia per le cose della vita; questo avvenne ad Adamo, ma in un secondo tempo. Gustò il frutto dell’albero e s’accorse d’essere nudo e si fece un cinto. Ma prima di mangiare il frutto “erano tutti e due nudi e non si vergognavano” [Gen 3,7]. Così ci voleva Dio, senza turbamenti di sorta. E questo è il segno di un animo che è lontano da ogni affetto libidinoso; e chi è in questa disposizione, non ha in mente altre opere che quelle degli angeli. Così non penseremmo che a celebrare eternamente il Creatore, sarebbe nostra letizia la sua contemplazione e lasceremmo a lui ogni preoccupazione, come scrisse David: “Lascia al Signore la cura di te stesso, ed egli ti nutrirà” [Sal 54,23]. E Gesù insegna agli apostoli: “Non vi preoccupate della vostra vita, di quello che mangerete, né del come vestirete il vostro corpo” [Mt 6,25]. E ancora: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto vi sarà dato in sovrappiù” [Mt 6,33]. E a Marta: “Marta, Marta, tu ti preoccupi di troppe cose; ma una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la migliore, e non le sarà tolta” [Lc 10,14-15]; cioè, si metterà ai piedi del Signore e ascolterà la sua Parola» (Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 2,11).
 
Il Santo del Giorno - 29 Luglio 2025 - Santa Marta: Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L’avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)
 
La comunione al Corpo e al Sangue del tuo Figlio unigenito
ci liberi, o Signore, dagli affanni delle cose che passano,
perché, sull’esempio di santa Marta,
progrediamo sulla terra in un sincero amore per te
e godiamo senza fine della tua visione nel cielo.
Per Cristo nostro Signore.