11 MAGGIO 2025
IV Domenica di Pasqua
At 13,14.43-52; Salmo Responsoriale dal Salmo 99 (100); Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Colletta
O Dio, fonte della gioia e della pace,
che hai affidato al potere regale del tuo Figlio
le sorti degli uomini e dei popoli,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché non ci separiamo mai dal nostro pastore
che ci guida alle sorgenti della vita.
Egli è Dio, e vive e regna con te.
Pio XII (Lettera Enciclica, Sempiternus Rex Christus) - Io e il Padre siamo una cosa sola: [...] il concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia. San Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò - egli dice - che da noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed evangelica». Difatti la chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso che l’unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra, ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all’unico Cristo, Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo, Figlio dell’Uomo, proprietà divine. Difatti l’evangelista Giovanni dichiara: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di Dio ... si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2,6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal 4,4); e lo stesso divino Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30); e ancora: «Sono uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv 16,28).
L’origine celeste del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38). E da quest’altro: «Colui che discende, è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef 4,10). Affermazione che san Tommaso d’Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel che è designata l’unità della persona del Dio uomo. Discende infatti ... il Figlio di Dio assumendo la natura umana, ma ascende il Figlio dell’uomo secondo l’umana natura alla sublimità della vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il Figlio dell’uomo che ascende».
Questo stesso concetto già l’aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone Magno con queste parole: «Poiché alla giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che l’Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il Figlio dell’uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell’uno e dell’altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo affatto il visibile dall’invisibile, il corporeo dall’incorporeo, il passibile dall’impassibile, il palpabile dall’impalpabile, la forma del servo dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall’eternità e l’altro sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell’unione, non possono più avere né separazione né fine».
I lettura: È sottolineato con forza l’universalismo della salvezza. Il testimone è passato ad un altro popolo: il Signore ha dato la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo (Cf. Mt 21,41). A motivo del rifiuto provvidenziale da parte d’Israele, la parola di Dio si diffonde tra i pagani. Ma il rifiuto del vangelo da parte dei Giudei non è mai totale: Luca ama sottolineare le conversioni avvenute tra i Giudei a Gerusalemme (At 2,41.47; 4,4; 6,1.7; 18,8; 28,24). Anche per Israele v’è un progetto di salvezza: «Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rom 11,28-29). I Giudei in quanto hanno rifiutato il Cristo «sono diventati nemici di Dio, e Dio ha permesso questo per favorire la conversione dei pagani (Cf. Rom 9,22; 11,11); ma essi rimangono l’oggetto della speciale dilezione che Dio ha manifestato ai loro padri prima del Cristo, nel tempo in cui il loro popolo era l’unico depositario dell’elezione» (Bibbia di Gerusalemme). La Chiesa muove i suoi passi tra mille difficoltà e infide persecuzioni le quali però non spengono l’entusiasmo dei neo convertiti, la diffusione sorprendente della Parola e la gioia dei missionari nel portare al mondo la Buona Novella.
II lettura: Il veggente di Patmos contempla il Regno di Dio nel suo compimento celeste, quando il gregge di Cristo, una moltitudine immensa, avrà raggiunto i pascoli eterni. Una visione che è donata alla Chiesa, perché i cristiani che stanno «nella grande tribolazione» imparino a restare saldi nella fede contemplando la meta finale del loro pellegrinaggio.
Vangelo
Alle mie pecore io do la vita eterna.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,27-30
Gesù, buon Pastore, dona la vita eterna ai suoi discepoli, alle pecore che Egli ama «perché è veramente l’inviato del Padre che lo sostiene e garantisce nella sua azione; nei brevissimi versetti è però evidenziato anche il rapporto che le pecore devono instaurare con lui per ottenere tutto questo» (Don Angelo Ranon).
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 10,27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Parola del Signore.
Le mie pecore ascoltano la mia voce …
Io do loro la vita eterna
Gesù pronunzia queste parole nel tempio di Gerusalemme, nella festa della Dedicazione (Cf. Gv 10,22). Celebrata il 25 di Chisleu del 148, corrispondente al 15 dicembre del 164 a.C. (Cf.1Mac 4,41-51; 2Mac 1,19), la festa commemorava la riconsacrazione dell’altare del tempio dopo la profanazione dell’esercito seleucida del 167 a.C. Presso gli Ebrei è ricordata con il nome originario di Hanukkà ed è celebrata ancora oggi.
Gesù è il buon Pastore, i credenti sono le pecore che ascoltano la voce del Pastore: l’ascolto è il sigillo che contrassegna l’appartenenza al gregge di Cristo, Parola di Dio, fatta Carne (Cf. Ap 19,13; Gv 1,14). Ascolto è sinonimo di accoglienza attenta e obbediente della Parola che in questo modo diventa guida, «luce ai passi» del credente (Sal 119,105).
L’ascolto è la caratteristica del discepolo cristiano e chi «ascolta la voce di Gesù, lo segue [...]. Mettersi dietro le orme di questa guida significa percorrere tutto il tragitto da lui compiuto per giungere alla vetta del Calvario. Il buon Pastore infatti si mette alla testa del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna, attraverso il cammino della croce e della rinuncia» (Salvatore Alberto Panimolle).
Un cammino che va percorso fino in fondo e che non esclude, nel suo bilancio, il martirio per il Signore e il Vangelo (Cf. Ap 7,14).
Gesù Pastore conosce le sue pecore: una conoscenza che supera il campo dell’intelletto e sconfina nell’amore (Cf. Os 6,6; 1Gv 1,3).
Nel vangelo di Giovanni «conoscenza e amore crescono insieme, per cui è difficile dire se l’amore è il frutto della conoscenza o la conoscenza è frutto di amore [...]. L’amore è unito alla conoscenza quando il rapporto tra Gesù e il Padre è descritto come una reciproca conoscenza [Gv 7,29; 8,55; 10,15). La stessa reciproca conoscenza è il vincolo tra Gesù e i suoi discepoli [Gv 10,14ss]» (John L. McKenzie).
Questa profonda intimità genera nel cuore dei credenti il frutto della vita eterna: essendo stati «rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23), i credenti gustano la gioia della vita eterna già d’adesso, nelle pieghe di una quotidianità a volte impastata di peccato e di acute contraddizioni.
Questa intensa comunione di amore con il Cristo sarà portata perfettamente a compimento nel Regno dei Cieli: solo nel Regno i credenti, strappati dalla contingenza della vita terrena, non «avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna ... Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,16-17).
In attesa di questi beni, la comunione amorosa con il Buon Pastore dona ai discepoli già ora pace, serenità e sicurezza.
«Colui che si affida a Gesù con la fede trova in lui quella sicurezza assoluta che non trova mai in alcuna sicurezza o protezione umana. In lui infatti è presente il potere divino. Lo stesso potere viene poi attribuito al Padre e la stessa sicurezza proviene dalla certezza che “ciò che mi ha dato” [Cf. 6,36-40] nessuno lo può rapire dalla mano del Padre [Cf. Is 43,13; Sap 3,1). In questi due versetti 28-29 si riflette la serena esperienza della comunità giovannea che si sentiva il gregge protetto dal Figlio di Dio e che nessuno poteva rapire: né le persecuzioni [16,4] né le eresie [1Gv]» (Giuseppe Segalla).
Questa sicurezza è significata anche dalle parole di Gesù che rivelano l’identità di sostanza tra lui e il Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola».
In questo modo i credenti vicini al Cristo sentono una sicurezza assoluta e totale. Nessuno li strapperà dalle mani del Cristo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? [...]. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,35-39).
I discepoli di Cristo devono solo temere il peccato che li seduce a trovare altre strade, lontane dal percorso del gregge guidato da Cristo.
Alfred Läpple (L’Apocalisse) - Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua: « ... una turba immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua ». Il popolo di Dio del Nuovo Testamento è una comunità formata « di Giudei e gentili ». Mentre il primo gruppo di testi (Ap 7, 4-8) può venir ascritto a un’apocalisse precristiana e giudaica nei versetti seguenti (Ap 7, 9ss) si può invece individuare una fonte pagano-cristiana, o meglio ancora un’idea universale, altamente indicativa per la mentalità del tardo periodo della primitiva èra cristiana. Al vero Israele, al nuovo popolo di Dio, non appartengono soltanto quelli che vantano Abramo come padre secondo il sangue e la fede. Anche i figli della promessa sono veri figli e stirpe di Abramo (Rm 9, 6ss; 11, 17ss). Ancora una volta
vien messa avanti, come fine ultimo assegnato all’intero popolo di Dio, la perenne liturgia, che spetta dì diritto « al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello ».
« ... Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello ».
Un quadro veramente paradossale, che solo i poeti e gli scrittori di apocalissi possono permettersi! Le vesti, che lavate col sangue diventato « candide », simboleggiano la cancellazione di ogni benché minima avversione a Dio, nonché la concessione della vita eterna.
La « tribolazione » è tanto la persecuzione esterna, quanto il travaglio interno. Il chiamato alla santità, il « segnato », si trova perennemente in zona di attacco e di prova del fuoco.
La redenzione non si attua automaticamente, con la sola offerta della grazia: l’uomo è obbligato a tendere coraggiosamente ed umilmente alla redenzione, collaborando con essa: « Hanno lavato le loro vesti ».
« ... l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita ». A questo passo danno vita e colore le antiche reminiscenze pastorali orientali, come pure la tipologia biblica dell’Agnello di Dio. L’Agnello è in realtà « il Buon Pastore» (Gv 10, 11. 14).
Che strana inversione! Cristo, il quale un giorno ha chiamato gli uomini sue pecorelle (Gv 10, 15s), ora è semplicemente l’Agnello! E quale sublime dignità vien accordata ai redenti, segnati col marchio di Dio, che possono vedere in Cristo tanto il loro compagno di umanità (« è divenuto simile agli uomini »: Fil 2, 7), quanto il loro Pastore!
Qui affiora persino il ricordo del Paradiso terrestre, da noi perduto e ridonatoci da Dio [« le fonti delle acque della vita ... E Iddio tergerà ogni lacrima dai loro occhi »), per dare un’idea della inoffuscabile magnificenza della redenzione completa.
Una cosa sola - Cirillo di Gerusalemme, Le catechesi 8, 16: Il Padre è in me, e io sono nel Padre (Gv 14, 11). Non disse: “Io sono il Padre” ma: Il Padre è in me, e io nel Padre. Disse poi: Io e il Padre siamo una cosa sola, non disse: “Io sono una cosa sola col Padre”.
Non volle che facessimo tra Padre e Figlio né un’assoluta divisione né una confusione a filiopaternità. Sono una cosa sola, salva la dignità divina di entrambi, di chi genera e di chi è generato. Padre e Figlio non si disputano la signoria, come se la disputò Assalonne contro suo padre, perché sono una cosa sola anche nella regalità, e i sudditi del Padre sono anche sudditi del Figlio. Sono una cosa sola nel volere, perché tra quello del Padre e quello del Figlio non c’ è dissonanza o scissione, come se l’uno volesse diversamente dall’altro. Sono una cosa sola anche nell’operare, perché tutte le opere del Cristo convergono con quelle del Padre, sicché una è la creazione dell’universo ed è opera del Padre e del Figlio.
Il Santo del Giorno - 11 Maggio 2025 - San Fabio e compagni Martiri in Sabina (Nicomedia, III sec. – Curi in Sabina, 305): Il martirio di questo santo è accomunato a quello di un gruppo di martiri e confessori, radunati attorno al maestro, sant’Antimo. Le notizie pervenuteci si leggono nella «Passio sancti Anthimi» che fu scritta fra il V e IX secolo. Alla fine del III secolo era proconsole dell’Asia Minore Faltonio Piniano, sposato con Anicia Lucina. Antimo riuscì a convertire Piniano e sua moglie al cristianesimo e, richiamati a Roma da Diocleziano, i due portarono con loro il sacerdote e i suoi discepoli. Per sottrarli alle possibili persecuzioni, Piniano decise di allontanarli da Roma, mandandoli in due vasti poderi di sua proprietà. Il diacono Sisinnio con Dioclezio e Fiorenzo, andarono ad Osimo nel Piceno, mentre Antimo, Massimo, Basso e Fabio furono inviati presso la città sabina di Curi. Da qui presero a evangelizzare la regione, non senza scontrarsi però con i culti pagani diffusi nelle campagne. Il gruppo di cristiani venne così arrestato. Sant’Antimo fu decapitato l’11 maggio 305 e sepolto nell’Oratorio di Curi in cui era solito pregare. Anche i suoi discepoli vennero uccisi. Tra questi Fabio fu consegnato al console che dopo averlo fatto torturare, lo condannò alla decapitazione lungo la stessa via Salaria. (Avvenire)
O Dio, pastore buono,
custodisci nella tua misericordia
il gregge che hai redento con il sangue prezioso del tuo Figlio
e conducilo ai pascoli della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.