1 Febbraio 2025
 
Sabato III Settimana T. O.
 
Eb 11,1-2.8-19; Salmo Responsoriale Lc 1,68-75; Mc 4,31-45
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
guida le nostre azioni secondo la tua volontà,
perché nel nome del tuo diletto Figlio
portiamo frutti generosi di opere buone.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Angelus, 23 giugno 2024): Oggi il Vangelo ci presenta Gesù sulla barca con i discepoli, nel lago di Tiberiade. Arriva all’improvviso una forte tempesta e la barca rischia di affondare. Gesù, che stava dormendo, si sveglia, minaccia il vento e tutto ritorna alla calma. […] Perché Gesù si comporta così?
Per rafforzare la fede dei discepoli e per renderli più coraggiosi. Essi infatti, escono da questa esperienza più consapevoli della potenza di Gesù e della sua presenza in mezzo a loro, e dunque più forti e più pronti ad affrontare gli ostacoli, le difficoltà, compresa la paura di avventurarsi ad annunciare il Vangelo. Superata con Lui questa prova, sapranno affrontarne tante altre, fino alla croce e al martirio, per portare il Vangelo a tutte le genti.
E anche con noi Gesù fa lo stesso, in particolare nell’Eucaristia: ci riunisce attorno a Sé, ci dona la sua Parola, ci nutre con il suo Corpo e il suo Sangue, e poi ci invita a prendere il largo, per trasmettere a tutti quello che abbiamo sentito e condividere con tutti quello che abbiamo ricevuto, nella vita di ogni giorno, anche quando è difficile. Gesù non ci risparmia le contrarietà ma, senza mai abbandonarci, ci aiuta ad affrontarle. Ci fa coraggiosi.
 
I Lettura: L’autore della Lettera agli Ebrei, ricordando la fede e l’esempio di Abramo e di Sara e di innumerevoli altri testimoni, spiega ai suoi lettori, scoraggiati dalle persecuzioni, «che la fede è completamente orientata verso l’avvenire e si attacca solo all’invisibile. Questo versetto è diventato una specie di definizione teologica della fede, possesso anticipato e conoscenza certa delle realtà celesti [cfr. Eb 6,5; Rom 5,2; Ef 1,13s]. Gli esempi presi dall’agiografia dell’Antico Testamento [cfr. Sir 44,50] dimostrano di quale pazienza e di quale forza essa è fonte» (Bibbia di Gerusalemme).
 
Vangelo
Chi è costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?
 
Gesù, comandando con autorità al vento e alla tempesta, rivela di essere Dio. Nella sua Persona si manifesta la potente sovranità di Dio sugli elementi cosmici. Il timore, che l’intervento miracoloso di Cristo suscita nei discepoli, è il timore riverenziale dell’uomo di fronte alla presenza di Dio: la paura in questo modo lascia il posto alla preghiera e alla fede.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 4,35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Parola del Signore.
 
Maestro, non t’importa che moriamo? - Lo scenario della tempesta sedata è il lago di Genesaret, che gli Ebrei chiamavano anche mare, a motivo della sua grandezza. La divisione del racconto è assai semplice: a una introduzione segue il racconto del prodigio e a questo la conclusione.
La tempesta sedata, da Marco è posta al termine di una lunga e faticosa giornata nella quale Gesù si era manifestato alla folla e ai suoi discepoli come Maestro. Infatti, si era speso con alacrità e gioia nell’insegnare «molte cose in parabole» alla «folla enorme» che si era riunita attorno a lui (Mc 4,1-2).
Dunque, alla fine di questa giornata sfibrante, verso sera, Gesù palesa l’intenzione di passare dalla riva occidentale alla riva orientale. Salito sulla barca, a motivo della stanchezza, Gesù si abbandona al sonno.
Come succede spesso nei laghi, e sopra tutto nel lago di Genesaret, all’improvviso si solleva una grande tempesta di vento che mette a repentaglio l’incolumità dei marinai. L’evangelista Marco non lesina particolari nel descrivere l’insorgere della improvvisa tempesta (Cf. Mc 4,37). E così non è difficile scoprire tra le righe della descrizione minuziosa la testimonianza di Pietro, testimone oculare del prodigio.
Nella narrazione si possono cogliere le contrastanti reazioni dei personaggi che animano il racconto: mentre la tempesta infuria, Gesù dorme; i discepoli, svegli, hanno gli occhi sbarrati per la paura; e mentre quest’ultimi sono atterriti, Gesù si presenta calmissimo. Altri particolari, che non sono ornamentali, ma essenziali al racconto, suggeriscono come tutto è spinto all’estremo: una grande tempesta di vento, una grande bonaccia, un grande timore. In questa estrema situazione, ridotti a mal partito, i discepoli svegliano Gesù rimproverandolo di non interessarsi della sorte dei suoi amici.
Questa lamentela provoca l’immediato intervento di Gesù che è autoritario: egli non prega il Padre, ma agisce di persona. La tempesta si seda e il Maestro rimprovera i discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
Qui si tratta di quella «elementare fiducia che predispone l’uomo ad accettare Gesù, fiducia che Egli richiede come condizione per il compimento dei suoi miracoli: sarà elogiata nell’emorroissa [Mc 5,36], richiesta al capo della sinagoga [Mc 5,36], d’altra parte, la mancanza di tale disposizione negli abitanti di Nazaret sarà il motivo per cui Gesù non vi compirà alcun prodigio [Mc 6,5]» (P. Rosario Scognamiglio o.p.).
Al cessare del vento, la reazione da parte dei discepoli è immediata e Marco, che vuole portare il lettore alla conoscenza sempre più profonda di Gesù, riporta l’interrogativo dei discepoli: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?». Questa domanda, che non esprime altro se non ammirazione, è strumentale in quanto obbliga il lettore a porsi alcune domande: nell’Antico Testamento chi è il creatore del mondo? Chi è il dominatore della creazione? Chi esercita sovrana autorità sugli elementi naturali?
La risposta è immediata e spontanea: è il Signore Dio. Egli è il creatore dei cieli, del sole, della luna, delle stelle, della luce, delle acque... è lui che dispone a suo piacimento dei venti e della pioggia, è lui che ha posto un limite al mare e alla sua potenza... è lui che chiama per nome le stelle ed esse rispondono (Cf. Bar 3,35).
Il lettore, dopo aver risposto a queste domande, è  obbligato a porsi altre domande: se l’onnipotenza è prerogativa di Dio, perché i discepoli si rivolgono a Gesù e non a Dio? come mai Gesù non prega il Padre ma agisce con autorità di persona? come mai Gesù si comporta da dominatore assoluto degli elementi della natura? Domande importanti, perché l’identità di Gesù costituisce il nucleo della questione fondamentale di tutto il vangelo marciano. A questo punto, Marco interviene e per aiutare il suo lettore a dare una risposta gli indica l’itinerario che deve percorrere per arrivare alla perfetta conoscenza del Maestro: questo itinerario è la fede in Colui che è morto e risorto ed è presente nella sua Chiesa fino alla fine dei giorni (Cf. Mt 28,20).
 
Il mare: visione teologica della Bibbia - G. Boggio (Mare in Schede Bibliche Pastorali ): Com’è naturale gli scrittori biblici condividevano in pieno con i loro contemporanei le nozioni sulla struttura del mondo... La terra nella Bibbia è come un grande disco steso sulle acque (Sal. 136,6) e appoggiato su colonne (Giob. 9,6; 38,4-6). Emerge dalle acque che una volta la ricoprivano e che ora si sono ritirate tutto intorno (Sal. 104,5-9). Il fir­mamento è come una lastra solida che trattiene le acque superiori (Gen. 1,6-8a; Sal. 148,4). Queste possono scendere sulla terra quando si aprono le cateratte del cielo (Gen. 7,11; 8,2; Is. 24,18). Le acque salgono sulla terra attraverso le sorgenti che sgorgano dall’abisso inferiore (Gen. 7,11; 8,2). Sotto a questo si trova lo Sheol, o luogo dei morti (Giob. 26,5-11; 38,16-17).
Da questi rapidi cenni si può vedere come il mare fosse considerato una realtà minacciosa che avvolge completamente la terra. Imponenti fenomeni naturali (piogge torrenziali, inondazioni, maremoti) devono aver lasciato un’impressione profonda sulle popolazioni primitive che hanno visto nel mare più che altro una forza ostile.
Troviamo un segno evidente di questa concezione nei miti mesopotamici. Tiamat è la divinità marina simbolo del caos che, vinta da Marduk, è uccisa e divisa in due parti. La letteratura di Ugarit ci presenta il dio del mare Yam, in lotta per il predominio della terra. Alla fine però è vinto e sottomesso da Baal. Il primo racconto della creazione (codice sacerdotale) risente nella sua composizione l’influsso di questa concezione del mondo e presenta diverse somiglianze, almeno nella terminologia, con le cosmogonie mesopotamiche. Ma la prospettiva del racconto biblico è totalmente nuova. Le acque dell’abisso non sono più una divinità che combatte con un’altra, ma sono considerate come una semplice «cosa» che Iahvé domina con un atto di volontà e di cui dispone a piacimento. La ripetizione della frase «Dio disse... e così fu» sottolinea molto bene questa fede nell’onnipotenza assoluta di Dio che non è condizionata da nulla (Gen. 1,2-10). Non solo nel racconto della creazione ma in tutta la Bibbia troviamo espresse le stesse convinzioni. Presente ovunque, Dio domina anche l’abisso e ne dispone a piacimento (Sal. 33,7-9; 139,8; Am. 9,3). Anche nel vangelo, il dominio che Gesù esercita sul mare in burrasca spinge gli apostoli alla fede nella sua potenza sovrumana (Mt. 8,23-27) che manifesta con una semplice parola (Mc. 4, 39).
È Dio che traccia i limiti al mare (Gen. 1,9-10; Sal. 140,6-9; Giob. 38) e nulla avviene contro il suo volere. Se la Bibbia non parla espressamente della creazione dell’abisso primitivo (Gen. 1,2) ci dice però che il mare è fatto da Dio (Gen. 1,9; Sal. 95,5) e come tutte le creature deve lodare Iahvé (Sal. 69,35) insieme alle acque dell’oceano superiore (Sal. 148).
 
Giob. 38,8-11: Chi chiuse con porte il mare, quando erompeva fuori dal seno materno, quando lo circondavo di nubi, sua veste, e di oscurità, sue fasce? Io gli fissai un limite, gli posi catenacci e porte. Gli dissi: «Fin qui giungerai, non oltre; qui si fermerà l’impeto delle tue onde!».
 
Sal. 148,4-7: Lodate (Iahvé), cieli dei cieli e voi, acque, che state sopra i cieli. Lodate il nome di Iahvé, perché comandò e furono creati; li ha stabiliti per sempre, in eterno; ha dato loro uno statuto che non trasgrediranno. Lodate Iahvé dalla terra, mostri marini e abissi tutti.
 
Nomi di mostri marini, molto vicini se non identici a quelli di divinità fenicie e mesopotamiche, appaiono qua e là nella Bibbia. Ma, o vengono identificati con animali (Giob. 40,25-41,26; Sal. 104) o diventano puri simboli per indicare la potenza di Dio (Sal. 89; Giob. 26,12-13)... A volte non sembrano altro che la personificazione di popoli o re nemici (Sal. 74,13-14; 87,4; Is. 30; 51,10; Ez. 29,3; 32,2). La presenza di questi riferimenti unicamente in testi poetici dal tono a volte epico, induce ad intenderli come un artificio letterario voluto per dare solennità al racconto.
 
Sal. 104,25-26: Ecco il mare, grande e immenso; ivi guizzano esseri senza numero, animali piccoli insieme con i grandi. Ivi solcano le navi; ivi è Leviatan che plasmasti per il trastullo.
 
Sal. 89,10-11: Tu domi l’orgoglio del mare, tu  calmi i suoi flutti quando infuriano. Hai trafitto Rahab come si ferisce un uomo; col tuo braccio potente hai fatto a pezzi i tuoi nemici.
 
Is. 30,7: Vano e nullo è l’aiuto dell’Egitto; per questo lo chiamo Rahab l’oziosa.
 
Con evidente iperbole viene chiamato «mare di bronzo» il grande recipiente con l’acqua per le abluzioni situato nel tempio salomonico (1Re 7,23). Anche nei templi mesopotamici troviamo vasche di questo tipo chiamate con lo stesso nome di «mare». Il simbolo dell’oceano primitivo attribuito alle conche della Mesopotamia, sembra assente da quella del tempio di Gerusalemme.
 
 Simbologia della Chiesa - Ippolito di Roma, De Christ. et antichr., 59: Il mare è il mondo, in cui la Chiesa, come una nave nelle onde del mare, è sbattuta dai flutti, ma non fa naufragio; perché ha con sé Cristo, il suo accorto timoniere. Ha anche nel centro il trofeo eretto contro la morte, la croce del Signore. La sua prora è Oriente, la poppa Occidente, la carena Mezzogiorno, i chiodi i due Testamenti, le corde son la Carità di Cristo che tiene stretta la Chiesa, il lino rappresenta il lavacro di rigenerazione che rinnova i fedeli. Il vento è lo Spirito che vien dal cielo, per il quale i fedeli son condotti a Dio. Con lo Spirito ha anche ancore di ferro nei precetti di Cristo. Né le mancano marinai a destra e a sinistra, poiché i santi angeli la circondano e difendono. La scala, che sale sull’antenna, è immagine della salutare passione di Cristo, che porta i fedeli fino al cielo. Le segnalazioni in cima all’antenna son le luci dei Profeti, dei Martiri, degli Apostoli, che riposano nel regno di Cristo.
 
Il Santo del Giorno - 1 Febbraio 2025 - Sant’Orso di Aosta Sacerdote: Sembra fosse un presbitero di Aosta, che aveva il compito di custodire e celebrare, nella chiesa cimiteriale di san Pietro. Sant’Orso, uomo semplice, pacifico e altruista, viveva da eremita trascorrendo il tempo nella preghiera continua, sia di giorno che di notte, dedito al lavoro manuale per procurarsi il cibo per vivere, accogliendo e consolando e aiutando tutti quelli che a lui accorrevano. Il tutto costellato da miracoli e prodigi, testimonianza della sua santità. Se incerto è il periodo in cui visse (fra il V e l’VIII secolo), più sicuro è il giorno della morte, che poi è diventato il giorno della sua festa: 1 febbraio. Il suo culto, oltre che ad Aosta dove l’antica chiesa di san Pietro è diventata la Collegiata di san Pietro e sant’Orso, si estese anche nella diocesi di Vercelli, Ivrea e altre zone dell’Italia Nord- Occidentale. È invocato contro le inondazioni, le malattie del bestiame. A lui è dedicata la fiera che si tiene nel giorno della vigilia della sua festa ad Aosta. (Avvenire)
 
O Dio, che in questi santi misteri
ci hai nutriti con il Corpo e il Sangue del tuo Figlio,
fa’ che ci rallegriamo sempre del tuo dono,
sorgente inesauribile di vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.
 
 31  Gennaio 2025
 
San Giovanni Bosco, Presbitero

 Eb 10,32-39; Salmo Responsoriale Dal Salmo 36 (37); Mc 4,26-34
 
Colletta
O Dio, che hai suscitato il presbitero san Giovanni [Bosco]
come padre e maestro dei giovani,
concedi anche a noi la stessa fiamma di carità,
a servizio della tua gloria, per la salvezza dei fratelli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Il regno di Dio - Catechismo degli Adulti [120] Il regno di Dio, che Gesù annuncia e inaugura, desta interesse; ma rischia anche di lasciare sconcertati e delusi. Il Maestro se ne rende conto e afferma: «Beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,6).
Perché questa difficoltà a credere, nonostante la lunga preparazione e la viva attesa? Deriva dalla mentalità dell’ambiente o dalla natura stessa del Regno? Riguarda anche noi? Sono domande da considerare con attenzione.
Il futuro [121] - Secondo Gesù, il Regno si affermerà pienamente solo nel futuro: adesso comincia appena a realizzarsi. Bisogna ancora pregare con insistenza e invocare: «Venga il tuo regno» (Mt 6,10). Presto, entro la durata di una generazione, accadrà qualcosa di nuovo: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza» (Mc 9,1). Finalmente, al termine della storia, la gloria del Regno riempirà il mondo intero.
Il presente [122] - D’altra parte il futuro è anticipato già nel presente. Nelle parole, nei gesti e nella persona di Gesù, il Padre comincia a manifestare la sua sovranità salvifica: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21); «Se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12,28).
Il presente, umile e nascosto, contiene una meravigliosa virtualità, che si dispiegherà nel futuro. È come il seme che silenziosamente germoglia dalla terra e produce la spiga; come il minuscolo granello di senape che poi diventa un albero; come il modesto pugno di lievito che finisce per fermentare tutta la pasta.
[123] - Il regno di Dio non si impone in modo clamoroso e spettacolare, come la gente immagina che debba succedere. Non viene in un istante. Non risolve magicamente tutti i problemi. Si propone piuttosto alla nostra cooperazione. Per sperimentarlo, bisogna accoglierlo attivamente, bisogna convertirsi. E, comunque, si tratta sempre di una esperienza germinale, destinata a compiersi perfettamente solo nell’eternità.
Il vissuto quotidiano [124] - Il Regno è più semplice e umano di quanto gli uomini stessi si aspettino. Si nasconde nella normalità della vita quotidiana e addirittura nella debolezza, nell’apparente fallimento. Non a caso Gesù, per le sue parabole, prende lo spunto dall’esperienza comune di tutti i giorni: il seminatore che esce a seminare, gli operai che lavorano nella vigna, il lievito che la donna mette nella pasta, il figlio che scappa di casa, il pastore che smarrisce una pecora.
Una proclamazione di felicità [127] - Il regno di Dio non risolve i problemi e non cambia le situazioni come per incanto. Ci si può chiedere, allora, in che senso esso sia una buona notizia, quale felicità porti e a quali condizioni se ne possa fare l’esperienza.
Senz’altro Gesù di Nàzaret intende fare un annuncio e un’offerta di felicità. Le beatitudini del Regno, riferite dagli evangelisti Matteo e Luca, non vogliono essere soltanto una promessa, ma una proclamazione. A motivo del futuro che comincia a venire, assicurano già nel presente gioia e bellezza di vita, come un anticipo.
 
I Lettura: I lettori della Epistola agli Ebrei stanno attraversando tempi difficili, ma la loro fede è salda perché temprata dalle fiamme della carità. Ora, perseguitati e maltrattati, non devono abbandonare il cammino intrapreso, perché alla prova seguirà una grande ricompensa: il possesso di quei beni eterni custoditi nel Cielo e riservati ai discepoli del Cristo. Il cristiano non è colui che cede dinanzi alla persecuzione ma vive di fede per la salvezza della propria anima.
 
Vangelo
L’uomo getta il seme e dorme; e il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.
 
Le due parabole, la parabola del seme che spunta da solo e la parabola del granello di senape, vogliono suggerire che il regno di Dio “porta in se stesso un principio di sviluppo, una forza segreta che lo condurrà al pieno compimento” (Bibbia di Gerusalemme, nota a Mc 4,29).
La parabola del granello di senape (Mc 4,30-34) la troviamo nel Vangelo di Matteo (13,31-32) e nel Vangelo di Luca (13,18-19). La parabola mette in evidenza il sorprendente contrasto tra i piccoli inizi del regno e della sua espansione. Nonostante “l’insignificanza del suo ministero e l’apparente insuccesso, il regno si sarebbe attuato progressivamente in tutta la sua grandiosità. Il regno non va identificato con la Chiesa, ma la rapida diffusione del Vangelo tra le nazioni pagane l’azione di Dio nel mondo, quale manifestazione incoativa del regno di Dio. Lo dimostra la citazione di Ezechiele [17,22-23], che parla della dimora dei popoli all’ombra del cedro magnifico, piantato dal Signore sul monte alto d’Israele” (Angelico Poppi).
Le due parabole sono un convincente monito alla pazienza. Se l’uomo è impaziente, Dio invece dà una impostazione più ampia e più tollerante al suo piano di salvezza: «Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Ed è anche un invito ad avere fiducia nell’azione di Dio, una forza intensiva ed estensiva che arriva a trasformare e a sconvolgere l’intera vita dell’uomo.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 4,26-34
 
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
 
Parola del Signore.
 
Così è il regno di Dio … Bibbia di Navarra: versetti 26-29 Gli agricoltori si affaticano a preparare il terreno per la semina; una volta però che il grano sia stato seminato, null’altro possono fare per esso, fino al momento della mietitura; il grano, infatti, cresce per potenza sua propria. Con questo paragone il Signore esprime il vigore insito nello sviluppo del regno di Dio sulla terra, fino al giorno della mietitura (efr Gl 4,13 e Ap 14,15), ossia fino al giorno del giudizio finale.
Ai discepoli Gesù parla della Chiesa: la predicazione del vangelo, che è la semente generosamente sparsa, darà certamente frutti, poiché questi non dipendono da chi semina o da chi irriga, ma da Dio che li fa crescere (efr 1Cor 3,5-9). Tutto avverrà senza che il seminatore stesso sappia “come”, senza che gli uomini se ne rendano pienamente conto. Al tempo stesso il regno di Dio designa l’azione della grazia in ogni anima: Dio opera silenziosamente dentro di noi una trasformazione, mentre dormiamo o siamo svegli, facendo germogliare nel fondo della nostra anima propositi di fedeltà, di dedizione, di corrispondenza alla grazia, fino a portarci alla “maturità” (cfr Ef 4,13). Sebbene lo sforzo dell’uomo sia necessario, in definitiva è Dio che agisce, “perché è lo Spirito Santo che con le sue ispirazioni dà tono soprannaturale ai nostri pensieri, ai nostri desideri e alle nostre opere. È Lui che ci spinge ad aderire alla dottrina di Cristo e ad assimilarla in tutta la sua profondità; è Lui che ci illumina per farci prendere coscienza della nostra vocazione personale e ci sostiene per farci realizzare tutto ciò che Dio si attende da noi. Se siamo docili allo Spirito Santo, l’immagine di Cristo verrà a formarsi sempre più nitidamente in noi, e in questo modo saremo sempre più vicini a Dio Padre. Sono infatti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, i veri figli di Dio (Rm 8,14)” (È Gesù che passa, n. 135).
 
Il regno di Dio e la regalità di Gesù - Raymond Deville e Pierre Grelot (Dizionario di teologia Biblica): Nel Nuovo Testamento i due temi del regno di Dio e della regalità messianica si uniscono nel modo più stretto, perché il re-Messia è il Figlio di Dio stesso. Questa posizione di Gesù al centro del mistero del regno si ritrova nelle tre tappe successive, attraverso le quali questo deve passare: la vita terrena di Gesù, il tempo della Chiesa e la consumazione finale delle cose.
1. Durante la sua vita, Gesù si dimostra molto riservato nei confronti del titolo di  re. Se lo accetta in quanto titolo messianico rispondente alle promesse profetiche (Mt 21,1-11 par.), lo deve spogliare delle risonanze politiche (cfr. Lc 23,2), per rivelare la regalità «che non è di questo mondo» e che si manifesta mediante la testimonianza resa alla verità (Gv 18,36s). In compenso, non esita ad identificare la causa del regno di Dio con la sua propria: lasciare tutto per il regno di Dio (Lc 18,29), significa lasciare tutto «per il suo nome» (Mt 19,29; cfr. Mc 10,29). Descrivendo in anticipo la ricompensa escatologica che attende gli uomini, egli identifica il «regno del figlio dell’uomo» ed il «regno del Padre» (Mt 13,41ss), ed assicura ai suoi apostoli che egli dispone per essi del regno come il Padre ne ha disposto per lui (Lc 22,29 s).
2. La sua intronizzazione regale non giunge tuttavia se non al momento della risurrezione: allora egli prende posto sul trono stesso del Padre (Apoc 3,21), è esaltato alla destra di Dio (Atti 2,30-35). Durante tutto il tempo della Chiesa, la regalità di Dio si esercita così sugli uomini per mezzo della regalità di Cristo, Signore universale (Fil 2,11); perché il Padre ha costituito il Figlio suo «Re dei re e Signore dei signori» (Apoc 19,16; 17,14; cfr. 1,5).
3. Al termine dei tempi, Cristo vincitore di tutti i suoi nemici «rimetterà il regno a Dio Padre» (1Cor 15,24). Allora questo regno «sarà pienamente acquisito al nostro Signore ed al suo Cristo» (Apoc 11,15; 12,10), ed i fedeli riceveranno «l’eredità nel regno di Cristo e di Dio» (Ef 5,5). Così Dio, padrone di tutto, prenderà pieno possesso del suo regno (Apoc 19,6). I discepoli di Gesù saranno chiamati a condividere la gloria di questo regno (Apoc 3,21), perché già in terra Gesù ha fatto di essi «un regno di sacerdoti per il loro Dio e Padre» (Apoc 1,6; 5,10; 1Piet 2,9; cfr. Es 19,6).
 
Il seme più piccolo per l’evento più grande - Giovanni Crisostomo (Comment. in Matth., 46, 2): “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo” (Mt 13,31). Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra.
Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. “È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami” (Mt 13,32). Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo.
 
Il Santo del Giorno - 31 Gennaio 2025 - San Giovanni Bosco. Allegria, studio, preghiera e bene: la sua “formula” della santità: La formula della santità? Per san Giovanni Bosco era semplice: “Primo: allegria. Secondo: doveri di studio e di preghiera. Terzo: far del bene agli altri”. Una formula che egli stesso visse da testimone con tutte le sue energie, contribuendo a costruire una delle più grandi “scuole di santi”: la famiglia religiosa salesiana. Un’eredità al cui cuore c’è l’impegno nell’educazione delle nuove generazioni: “Miriamo a formare onesti cittadini e buoni cristiani”, diceva don Bosco, che era nato nel 1815 a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco. Divenuto sacerdote nel 1841, nello stesso anno cominciò a lavorare all’opera che poi diventò la Società Salesiana, fondata nel 1854. Nel 1872, con santa Maria Domenica Mazzarello (1837-1881), fondò l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Don Bosco morì nel 1888: al mondo aveva donato le basi per una nuova “pedagogia del cuore”. (Matteo Liut)

La partecipazione a questo banchetto del cielo,
Dio onnipotente,
rinvigorisca e accresca in tutti noi la grazia che da te proviene,
perché, celebrando la memoria di san Giovanni Bosco,
custodiamo integro il dono della fede
e camminiamo sulla via della salvezza da lui indicata.
Per Cristo nostro Signore.
 
 

 


 30 Gennaio 2025
 
Giovedì III Settimana T. O.
 
Eb 10,19-25; Salmo Responsoriale Dal Salmo 23 (245); Mc 4,21-25
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
guida le nostre azioni secondo la tua volontà,
perché nel nome del tuo diletto Figlio
portiamo frutti generosi di opere buone.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Voi siete la luce del mondo: Benedetto XVI (Omelia, 13 Settembre 2008): “Conservate le vostre lampade accese” (cfr. Lc 12,35): la lampada della fede, la lampada della preghiera, la lampada della speranza e dell’amore! Questo camminare nella notte, portando la luce, parla con forza al nostro intimo, tocca il nostro cuore e dice molto di più che ogni altra parola pronunciata o intesa. Questo gesto riassume da solo la nostra condizione di cristiani in cammino: abbiamo bisogno di luce e, allo stesso tempo, siamo chiamati a divenire luce. Il peccato ci rende ciechi, ci impedisce di proporci come guide per i nostri fratelli, e ci spinge a diffidare di loro e a non lasciarci guidare. Abbiamo bisogno di essere illuminati e ripetiamo la supplica del cieco Bartimeo: “Maestro, fa’ che io veda!” (Mc 10,51). Fa’ che io veda il mio peccato che mi intralcia, ma soprattutto: Signore, fa’ che io veda la tua gloria! Lo sappiamo: la nostra preghiera è già stata esaudita e noi rendiamo grazie perché, come dice san Paolo nella Lettera agli Efesini: “Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14), e san Pietro aggiunge: “Egli vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9). A noi che non siamo la luce, Cristo può ormai dire: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14), affidandoci la cura di fare risplendere la luce della carità. Come scrive l’apostolo san Giovanni: “Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v’è in lui occasione di inciampo” (1Gv 2,10).Vivere l’amore cristiano è fare entrare la luce di Dio nel mondo e, insieme, indicarne la vera sorgente. San Leone Magno scrive: “Chiunque, in effetti, vive piamente e castamente nella Chiesa, chi pensa alle cose di lassù, non a quelle della terra (cfr. Col 3,2), è in certo modo simile alla luce celeste; mentre realizza egli stesso lo splendore di una vita santa, indica a molti, come una stella, la via che conduce a Dio” (Serm. III, 5).
 
Prima Lettura: Bibbia di Gerusalemme: v. 19: Soltanto il sommo sacerdote, una volta all’anno, aveva accesso al Santo dei santi. Ormai tutti i credenti hanno accesso presso Dio attraverso il Cristo (cf. Eb 4,14-16; 7,19.25; 9,11; 10,9, Rm 5,2, Ef 1,4; 2,18; 3,12, Col 1,22).
v. 25: il giorno: il giorno del Signore (1Ts 5,2, 1Cor 1,8+). Questo versetto (cf. 32-36) sembra supporre lotte e calamità che venivano interpretate come preludi della venuta del Signore (cf. 2Ts 2,1+).
 
Vangelo
La lampada viene per essere messa sul candelabro. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi.
 
Se è lapalissiano che Dio e il mondo sono due realtà che si escludono a vicenda, è pur vero che dobbiamo incarnarci in questo mondo: a questo mondo dobbiamo dare sapore; a questo mondo che si avvoltola nel suo peccato dobbiamo portare la luce di Cristo. Se è vero che “una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è [...] conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27), è anche vero che siamo mandati a questo mondo (Mt 16,15), perché “desista dalla sua condotta perversa e viva” (Ez 3,18) della vita di Dio. Questo mondo ha un disperato bisogno della luce di Dio, della nostra testimonianza, della nostra vita, delle nostre opere buone, per conoscere e benedire Dio, il Padre di tutti che sta nei cieli. I cristiani hanno nei confronti del mondo una missione: riconciliarlo con Dio. Per portare a termine questa opera, non “possiamo perdere il sapore e la luminosità del cristianesimo diluendoli in chiacchiere, e neanche in semplici pratiche pie. Vedendo la nostra fede religiosa e la nostra condotta orientate alla fratellanza e all’amore, la gente ci riconoscerà come portatori della luce di Cristo e darà gloria al Padre. Come il sale e la luce, la nostra fede e la nostra condizione cristiana non ammettono mezzi termini: o trasformano e illuminano la vita, o non servono a niente” (Basilio Caballero).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 4,21-25
 
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
Diceva loro: «Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più. Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha».

Parola del Signore.
 
Evangelizzare senza trionfalismi - José Maria González-Ruiz: Il regno di Dio è proclamato, in primo luogo, con la parola; e Marco ci presenta qui tutta una teologia della parola. Gesù comincia a proclamarlo con una formula apparentemente misteriosa: la «parabola».
Occorre assolutamente saper distinguere la parabola dall’allegoria. Una parabola si serve d’un avvenimento di ogni giorno, conosciuto da tutti, per mettere in evidenza la relazione che lo unisce con una cosa che non è conosciuta da tutti e che, in qualche modo, gli può essere paragonata. Al contrario, l’allegoria è un racconto che contiene particolari abbastanza singolari e nel quale ogni elemento richiede una propria interpretazione. L’allegoria cerca ex professo di travestire e nascondere in qualche modo il senso, così che solo gl’iniziati possano riconoscere in essa quello che si vuole dire. È molto simile a quel linguaggio simbolico che si usa in certi movimenti clandestini.
Ora le parabole di Gesù recano quasi sempre qualche mescolanza di elementi allegorici. Questo stile allegorico che, intenzionalmente, illumina e nasconde allo stesso tempo, è inerente alla stessa natura «misteriosa» del messaggio. Non si tratta d’una forma di occultismo, come nel caso della cabala, ma dell’enorme rispetto che Dio dimostra per la libertà umana.
Marco fa molto bene a mettere al primo posto la parabola del buon seme, che è la chiave di tutte le altre, perché illustra il mistero delle scelte di Dio.
L’immagine della semina non è originale: era usata universalmente a cominciare dai tempi di Platone. L’elemento originale è l’ampia descrizione che si fa dell’insuccesso della semina. In Palestina, si arava dopo la semina; quindi si seminava anche sul sentiero o in mezzo alle spine.
Nella spiegazione della parabola che Gesù dà ai suoi discepoli, si insiste assai su quello che potremmo chiamare la «quotidianità» della proclamazione del regno di Dio. Marco, come sempre, intende evitare ogni interpretazione trionfalistica del vangelo. La proclamazione della grande notizia avviene come una semina, a misura che si va sviluppando la storia umana; anzi, sebbene sia destinato a tutti, il vangelo è accettato nelle forme più diverse: senza impegno, con superficialità, con attenzione, con piena dedizione. Per questo, il regno di Dio è considerato come un «mistero». Nel Nuovo Testamento, il termine «mistero» è usato principalmente da san Paolo, che ne definisce chiaramente i contorni. Il mistero designa, in generale, l’adempimento del grande progetto salvifico di Dio, che si realizza in Cristo.
Ci, troviamo dunque, ancora una volta, di fronte al motivo centrale del secondo vangelo: la riservatezza messianica. La proclamazione del regno non avviene in una forma trionfalistica, ma nel pieno rispetto della libertà umana e senza tutta quella battaglia propagandistica che sognavano molti contemporanei di Gesù. Per questo l’evangelizzazione dovrebbe sempre avvenire in punta di piedi, senza ricorrere all’ortopedia delle grandi organizzazioni culturali che soffocano la libertà di opinione del credente e che, per conseguenza, distruggono il «mistero» del regno di Dio.
 
Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? - Jean-Baptiste Brunon: Con la sua luce, la lampada significa una presenza viva, quella di Dio, quella dell’uomo.
1. La lampada, simbolo della presenza divina. - «La mia lampada sei tu, a Jahve» (2Sam 2,29). Con questo grido il salmista proclama che Dio solo può dare luce e vita. Non è egli forse il creatore dello spirito che è nel­
l’uomo come «una lampada di Jahve» (Prov 20,27)? Non rischiara forse egli come una lampada la via del fedele con la sua parola (Sal 119,105), con i suoi comandamenti (Prov 6,23)?
Le Scritture profetiche non sono forse «una lampada che brilla in luogo oscuro, sino a che il giorno incominci a spuntare e l’astro del mattino si levi nei nostri cuori » (2Piet 1,19)? Quando verrà questo giorno supremo non ci sarà più «notte; gli eletti faranno a meno di lampada a di sole per farsi luce», perché «l’agnello sarà la loro lucerna» (Apoc 22,5; 21,23).
2. La lampada, simbolo della presenza umana. - Il simbolismo della lampada si ritrova nel piano più umile della presenza umana. A David, Jahve promette una lampada, cioè una discendenza perpetua (2Re 8,19; 1Re 11,36; 15,4). Per contro, se il paese è infedele, Dio minaccia di fare sparire da esso «la luce della lampada» (Ger 25,10): allora non ci sarà più felicità duratura per il malvagio la cui lampada presto si spegne (Prov 13,9; Giob 18,5s).
Per esprimere la sua fedeltà a Dio e la continuità della sua preghiera, Israele fa ardere in perpetuo una lampada nel santuario (Es 27,20ss; 1 Sam 3,3); lasciarla spegnere, significherebbe far intendere a Dio che lo si abbandona (2Cron 29,7). Per contro, beati coloro che vegliano nell’attesa del Signore, come le giovani donne prudenti (Mt 25, 1-8) od il servo fedele (Lc 12,35), le cui lampade restano accese.
Dio attende ancora di più dal suo fedele: invece di lasciare la sua lampada sotto il moggio (Mt 5,15s par.), egli deve brillare come un luminare in mezzo ad un mondo perverso (Fil 2,15), come già il profeta Elia, la cui «parola bruciava come una fiaccola» (Eccli 48,1), come ancora Giovanni Battista, questa «lucerna che arde e risplende» (Gv 5,35) per rendere testimonianza alla vera luce (1,7s). Così anche la Chiesa, fondata su Pietro e Paolo, « i due olivi e le due lucerne che stanno dinanzi al Signore della terra» (Apoc 11, 4), deve far risplendere fino alla fine dei tempi la gloria del figlio dell’uomo (1,12 s).
 
Un cristiano deve necessariamente diffondere la luce - Crisostomo Giovanni, Omelia 20 (sugli Atti degli apostoli): Niente è più freddo di un cristiano, che non si interessa della salvezza degli altri. Non puoi, a questo proposito, prendere come scusa la tua povertà: la vedova che offrì le due monetine si leverebbe ad accusarti. Anche Pietro disse: Non ho né oro né argento (At 3,6) e Paolo era talmente povero, che spesso soffriva la fame e mancava del cibo necessario. Non puoi appellarti all’umiltà della tua nascita: anch’essi erano gente oscura, nati da umile condizione. Non puoi mettere avanti come pretesto la tua ignoranza: anch’essi erano gente incolta. Anche se tu fossi uno schiavo, un fuggiasco perfino, potresti ugualmente compiere tutto quello che dipende da te, perché anche Onesimo era uno schiavo: eppure guarda a che dignità fu chiamato!... Non puoi prendere come scusa la tua debolezza fisica: anche Timoteo era debole di salute e aveva molti mali. Come testimonianza delle sue infermità senti cosa gli dice san Paolo: Fa’ uso anche di un po’ di vino, a motivo del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni (1Tm 5,23). Qualsiasi persona può portare aiuto al suo prossimo, se desidera fare tutto quello che può. [...].
Non dire: mi è impossibile trascinare gli altri; se tu sei cristiano, è impossibile che questo non avvenga. Come è vero che le realtà naturali non possono essere in contraddizione fra di loro, così anche per quello che abbiamo detto: operare il bene è insito nella natura stessa del cristiano. Se tu affermi che un cristiano è nell’impossibilità di portare aiuto agli altri, offendi Dio e gli dai del bugiardo. Sarebbe più facile per la luce essere tenebra, che per un cristiano non diffondere luce attorno a sé. Non dire: è impossibile. È il contrario che è impossibile. Non fare violenza a Dio.
 
Il Santo del Giorno - 30 Gennaio 2025 - Santa Batilde, regina: Di origine anglosassone, Batilde durante un viaggio fu catturata da alcuni pirati e venduta in Francia, nel 641, ad Erchinoaldo, dignitario di corte di Neustria, che, dopo essere rimasta vedovo, voleva sposarla. L’ex schiava si rifiutò, accettando poi di sposare Clodoveo II re di Neustria e di Borgogna. Ebbe tre figli, Clotario III, Tierrico III e Childerico II. Nel 657 Batilde divenne vedova e quindi reggente del regno in nome del figlio Clotario; con la guida dell’abate Genesio, si diede alle opere di carità, aiutando i poveri e i monasteri. Lottò strenuamente contro la simonia e contro la schiavitù, che fu interdetta per i cristiani, mentre con proprio denaro restituì la libertà a moltissimi schiavi. Quando il figlio Clotario III raggiunse la maggiore età, Batilde si ritirò nel monastero di Chelles, nella diocesi di Parigi, che lei stessa nel 662, aveva fatto restaurare. Vi morì nel 680. Fu sepolta a Chelles, accanto al figlio Clotario III, morto nel 670. (Avvenire)
 
O Dio, che in questi santi misteri
ci hai nutriti con il Corpo e il Sangue del tuo Figlio,
fa’ che ci rallegriamo sempre del tuo dono,
sorgente inesauribile di vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 29 Gennaio 2025
 
Mercoledì III Settimana T. O.
 
Eb 10,11-18; Salmo Responsoriale Dal Salmo 109 (110); Mc 4,1-20
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
guida le nostre azioni secondo la tua volontà,
perché nel nome del tuo diletto Figlio
portiamo frutti generosi di opere buone.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Quale terra sono? - Giovanni Paolo II (Omelia, 4 giugno 1991) - «La parabola del seminatore, come ogni altra parabola nel Vangelo di Cristo, ha tuttavia il suo senso metaforico, analogico: parla del regno di Dio. Come la storia di questa terra viene attraversata dal lavoro di uomini-seminatori e aratori, così attraverso la storia dell’uomo - degli uomini che abitano la terra - procede il lavoro della parola di Dio e del suo Seminatore. Il Seminatore è Cristo. Già prima di lui vi erano molti seminatori della verità divina: “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi... per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato... per mezzo del Figlio” [Eb 1,1], Egli stesso - il Figlio eterno - è il Verbo consostanziale al Padre. Il Vangelo della nuova ed eterna Alleanza è la parola di questo Verbo. La terra nel corso di duemila anni è stata già abbondantemente seminata con questa parola. È soprattutto Cristo stesso come Verbo ha reso fertile questa terra della storia umana per mezzo della redenzione mediante il sangue della sua croce. È nella parola della croce continua la sua semina, dando inizio a “un nuovo cielo e una nuova terra” [cf. Ap 21,1]. Tutti i seminatori della parola di Cristo attingono la forza del loro servizio da quell’indicibile mistero, quale è diventata - una volta per sempre - l’unione del Dio Verbo con la natura umana, e in un certo senso con ogni uomo (come insegna l’ultimo Concilio, cfr. Gaudium et spes, 22). Cadono le parole del Vangelo sulla terra delle anime degli uomini, ma soprattutto il Verbo Eterno stesso, generato per opera dello Spirito Santo da una Vergine-Madre, è diventato fonte di vita per le anime umane. Nella parabola evangelica Cristo rivolge l’attenzione soprattutto sulla terra delle anime degli uomini e delle umane coscienze - e mostra che cosa avviene alla parola di Dio in dipendenza dalla specie di questa particolare terra. Udiamo dunque parlare di un seme che è stato portato via e non ha attecchito nel cuore dell’uomo, perché questi ha ceduto al Maligno e non ha capito la Parola. Sentiamo parlare del seme caduto sulla terra rocciosa, sulla terra dura - e che non era in grado di mettere le radici, dunque non ha resistito alla prima prova. Udiamo parlare del seme caduto tra i cardi e le spine - che è stato da essi soffocato [questi cardi e spine sono un’illusione della temporaneità e del benessere che passano]. Solamente il seme caduto sulla terra buona, fertile, produce frutto. Chi è questa terra fertile? Colui che ascolta la parola e la comprende. Ascolta e comprende. Non è sufficiente ascoltare, bisogna accoglierla con la mente e con il cuore. “Chi ha orecchi [per udire], intenda” [Mt 13, 9] - dice il Seminatore divino. Tutti abbiamo udito. Ognuno di noi domandi a se stesso: quale terra sono? Che cosa avviene del seme della verità divina nella mia vita?».
 
I Lettura: Felipe F. Ramos: I sacerdoti dell’antica legge non hanno riposo nel loro ufficio sacerdotale. Devono celebrare ogni anno il grande giorno dell’espiazione. In più, devono osservare le prescrizioni della legge che ordina loro di offrire sacrifici tutti i giorni. Questo sta a indicare chiaramente che la loro opera non è mai finita. Cristo, invece, una volta offerto il suo sacrificio, « si è assiso alla destra di Dio ». Questo « essere assiso» vuol dire, fra le altre cose, che ha terminato la sua opera, l’ha portata a compimento e non ha bisogno di ripeterla; vuol dire che il suo sacrificio è stato perfetto … L’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera è perfetta e Don ha bisogno d’essere completata con ripetizioni (come accadeva al sacerdozio di Aronne). La sua autodedizione avvenne una volta per per sempre e ottenne tutto il fine a cui è destinato il sacerdozio.
 
Vangelo
Il seminatore uscì a seminare.
 
La parabola del seminatore può essere divisa in due parti: nella prima parte vi è il racconto della semina del seme che cade ora lungo la strada, oppure sul terreno sassoso, o tra i rovi, e infine, altre parti cadono sul terreno buono; nella seconda parte v’è la spiegazione della parabola. Il seme è la Parola che ha una forza intrinseca (Is 55,10-11), ma la sua maturazione è determinata anche dal terreno e dalla azione degli eterni nemici della Parola. I diversi terreni sono gli uditori, la loro capacità e disponibilità nell’accogliere la Parola, mentre gli operatori che tendono a neutralizzare la Parola sono Satana, la tribolazione o la persecuzione a causa della Parola, le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, che soffocano la Parola. L’insegnamento della Parabola sta nell’invito a farsi terreno buono per portare frutto: ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre (Gc,1,17), ma “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Sant’Agostino, Sermo CLXIX,13).
 
Dal vangelo secondo Marco
Mc 4,1-20
 
In quel tempo, Gesù cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva.
Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli diceva loro: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato».
E disse loro: «Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole? Il seminatore semina la Parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la Parola, ma, quando l’ascoltano, subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro. Quelli seminati sul terreno sassoso sono coloro che, quando ascoltano la Parola, subito l’accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della Parola, subito vengono meno. Altri sono quelli seminati tra i rovi: questi sono coloro che hanno ascoltato la Parola, ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e tutte le altre passioni, soffocano la Parola e questa rimane senza frutto. Altri ancora sono quelli seminati sul terreno buono: sono coloro che ascoltano la Parola, l’accolgono e portano frutto: il trenta, il sessanta, il cento per uno».
 
Parola del Signore.
 
Evangelizzare senza trionfalismi - José María González-Ruiz: Il regno di Dio è proclamato, in primo luogo, con la parola; e Marco ci presenta qui tutta una teologia della parola. Gesù comincia a proclamarlo con una formula apparentemente misteriosa: la «parabola».
Occorre assolutamente saper distinguere la parabola dall’allegoria. Una parabola si serve d’un avvenimento di ogni giorno, conosciuto da tutti, per mettere in evidenza la relazione che lo unisce con una cosa che non è conosciuta da tutti e che, in qualche modo, gli può essere paragonata. Al contrario, l’allegoria è un racconto che contiene particolari abbastanza singolari e nel quale ogni elemento richiede una propria interpretazione. L’allegoria cerca ex professo di travestire e nascondere in qualche modo il senso, così che solo gl’iniziati possano riconoscere in essa quello che si vuole dire. È molto simile a quel linguaggio simbolico che si usa in certi movimenti clandestini.
Ora le parabole di Gesù recano quasi sempre qualche mescolanza di elementi allegorici. Questo stile allegorico che, intenzionalmente, illumina e nasconde allo stesso tempo, è inerente alla stessa natura «misteriosa» del messaggio. Non si tratta d’una forma di occultismo, come nel caso della cabala, ma dell’enorme rispetto che Dio dimostra per la libertà umana.
Marco fa molto bene a mettere al primo posto la parabola del buon seme, che è la chiave di tutte le altre, perché illustra il mistero delle scelte di Dio.
L’immagine della semina non è originale: era usata universalmente a cominciare dai tempi di Platone. L’elemento originale è l’ampia descrizione che si fa dell’insuccesso della semina. In Palestina, si arava dopo la semina; quindi si seminava anche sul sentiero o in mezzo alle spine.
Nella spiegazione della parabola che Gesù dà ai suoi discepoli, si insiste assai su quello che potremmo chiamare la «quotidianità» della proclamazione del regno di Dio. Marco, come sempre, intende evitare ogni interpretazione trionfalistica del vangelo. La proclamazione della grande notizia avviene come una semina, a misura che si va sviluppando la storia umana; anzi, sebbene sia destinato a tutti, il vangelo è accettato nelle forme più diverse: senza impegno, con superficialità, con attenzione, con piena dedizione. Per questo, il regno di Dio è considerato come un «mistero». Nel Nuovo Testamento, il termine «mistero» è usato principalmente da san Paolo, che ne definisce chiaramente i contorni. Il mistero designa, in generale, l’adempimento del grande progetto salvifico di Dio, che si realizza in Cristo.
Ci, troviamo dunque, ancora una volta, di fronte al motivo centrale del secondo vangelo: la riservatezza messianica. La proclamazione del regno non avviene in una forma trionfalistica, ma nel pieno rispetto della libertà umana e senza tutta quella battaglia propagandistica che sognavano molti contemporanei di Gesù. Per questo l’evangelizzazione dovrebbe sempre avvenire in punta di piedi, senza ricorrere all’ortopedia delle grandi organizzazioni culturali che soffocano la libertà di opinione del credente e che, per conseguenza, distruggono il «mistero» del regno di Dio.
 
Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole? - D. Sesbüé: Nel vangelo. - Il mistero del regno e della persona di Gesù è talmente nuovo che anch’esso non può manifestarsi se non gradualmente, e secondo la ricettività diversa degli uditori. Perciò Gesù, nella prima parte della sua vita pubblica, raccomanda a suo riguardo il «segreto messianico», posto in così forte rilievo da Marco (1, 34. 44; 3, 12; 5, 43 ...). Perciò pure egli ama parlare in parabole che, pur dando una prima idea della sua dottrina, obbligano a riflettere ed hanno bisogno di una spiegazione per essere perfettamente comprese. Si perviene così a un insegnamento a due livelli, ben sottolineato da Mc 4, 33-34: il ricorso a temi classici (il re, il banchetto, la vite, il pastore, le semine...) mette sulla buona strada l’insieme degli ascoltatori; ma i discepoli hanno diritto a un approfondimento della dottrina, impartito da Gesù stesso. I loro quesiti ricordano allora gli interventi dei veggenti nelle apocalissi (Mt 13, 10-13. 34 s 36. 51; 15, 15; cfr. Dan 2, 18 ss; 7, 16). Le parabole appaiono così una specie di mediazione necessaria affinché la ragione si apra alla fede: più il credente penetra nel *mistero rivelato, più approfondisce la comprensione delle parabole; viceversa, più l’uomo rifiuta il messaggio di Gesù, più gli resta interdetto l’accesso alle parabole del regno. Gli evangelisti sottolineano appunto questo fatto quando, colpiti dalla ostinazione (*indurimento) di molti Giudei di fronte al vangelo, rappresentano Gesù che risponde ai discepoli con una citazione di Isaia: le parabole mettono in evidenza l’accecamento di coloro che rifiutano deliberatamente di aprirsi al messaggio di Cristo (Mt 13, 10-15 par.). Tuttavia, accanto a queste parabole affini alle apocalissi, ce ne sono di più chiare che hanno di mira insegnamenti morali accessibili a tutti (così Lc 8, 16 ss; 10, 30-37; 11, 5-8).
L’INTERPRETAZIONE DELLE PARABOLE - Se ci si pone in questo contesto biblico ed orientale in cui Gesù parlava, e si tiene conto della sua volontà di insegnamento progressivo, diventa più facile interpretare le parabole. La loro materia sono i fatti umili della vita quotidiana, ma anche, e forse soprattutto, i grandi avvenimenti della storia sacra. I loro temi classici, facilmente reperibili, sono già pregni di significato per il loro sfondo di VT, al momento in cui Gesù se ne serve. Nessuna inverosimiglianza deve stupire nei racconti composti con libertà ed interamente ordinati all’insegnamento; il lettore non dev’essere urtato dall’atteggiamento di taluni personaggi presentati per evocare un ragionamento a fortiori od a contrario (ad es. Lc 6, 1-8; 18, 1-5). Ad ogni modo bisogna anzitutto mettere in luce l’aspetto teocentrico, e più precisamente cristocentrico, della maggior parte delle parabole. Qualunque sia la misura esatta dell’allegoria, in definitiva il personaggio centrale deve per lo più evocare il Padre celeste (Mt 21, 28; Lc 15, 11), o Cristo stesso - sia nella sua missione storica (il «seminatore» di Mt 13, 3. 24. 31 par.), sia nella sua gloria futura (il «ladro» di Mt 24, 43; il «padrone» di Mt 25, 14; lo «sposo» di Mt 25, 1); e quando ve ne sono due, sono il Padre ed il Figlio (Mt 20, 1-16; 21, 33. 37; 22, 2). Infatti l’amore del Padre testimoniato agli uomini con l’invio del suo Figlio è la grande rivelazione portata da Gesù. A questo servono le parabole che mostrano il compimento perfetto che il nuovo *regno dà al disegno di Dio sul mondo.
 
Nerses Snorhali, Jesus, 468-469
 
La parabola del seminatore (Mt 13,3-9)
 
Io mi sono indurito come roccia;
Son divenuto simile al sentiero;
Le spine del mondo m’hanno soffocato,
Hanno reso infeconda la mia anima.
 
Ma, o Signore, Seminator del bene,
La pianta del Verbo fa’ in me crescere:
Perché in uno dei tre io porti frutto:
Tra il cento (per cento), il sessanta o anche il trenta.
 
Il Santo del Giorno - 29 Gennaio 2025 - Sant’Afraate. Dalla spiritualità orientale una voce che c’insegna la radice della fratellanza: «All’uomo che ama Dio si addice ed è giusto amare l’umiltà e restare nella sua condizione di umiltà. Poiché se la sua radice è piantata nella terra, i suoi frutti salgono davanti al Signore di grandezza». Se sapessimo riconoscere il debito che nutriamo verso la vita, che è dono gratuito, forse sarebbe più facile riconoscerci come fratelli e costruire un mondo di pace. Un saggio insegnamento che trova forza nell’eredità spirituale di sant’Afraate, anacoreta siriano vissuto tra il III e il IV secolo, testimone di una tradizione cristiana orientale non ancora influenzata dal pensiero classico greco e libera dalle controversie cristologiche che segnavano all’epoca l’Occidente. Nato attorno al 270, la sua famiglia era originaria dell’Adiabene, regione della Mesopotamia del nord, parte dell’Impero persiano e oggi in Iraq. Conosciuto come “il sapiente persiano”, Afraate è trai più antichi autori cristiani di lingua siriaca, testimone di una Chiesa di lingua semitica molto vicina alla tradizione giudaica. Sono giunte fino a noi le sue «Demonstrationes», una raccolta di 23 opere tra discorsi e omelie, ordinati secondo il criterio alfabetico, dalla prima alla 22ª lettera dell’alfabeto siriaco. Il 23° testo, un’appendice, è una lettera indirizzata ai “Figli dell’Alleanza”, la comunità monastica alla quale apparteneva Afraate. Visse probabilmente nel monastero di Mar Mattai e secondo alcuni studiosi fu abate e poi vescovo.
 
O Dio, che in questi santi misteri
ci hai nutriti con il Corpo e il Sangue del tuo Figlio,
fa’ che ci rallegriamo sempre del tuo dono,
sorgente inesauribile di vita nuova.
Per Cristo nostro Signore.