17 Novembre 2024

XXXIII Domenica Tempo Ordinario

 Dn 12,1-3; Salmo Responsoriale Dal Salmo 15 (16); Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

 Colletta
O Dio, che farai risplendere i giusti come stelle nel cielo, 
accresci in noi la fede, ravviva la speranza
e rendici operosi nella carità,
mentre attendiamo
la gloriosa manifestazione del tuo Figlio. 
Egli è Dio, e vive e regna con te.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria - Giovanni Paolo II (Omelia, 14 novembre 1982): Il “mondo” mostra quotidianamente all’uomo l’ineluttabilità del morire. Contemporaneamente vuole chiuderlo, in un certo senso, nei limiti della vita che passa insieme con lui. La Parola del Dio Vivente dimostra all’uomo medesimo la prospettiva della vita che non passa: “Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena nella tua presenza, / dolcezza senza fine alla tua destra” [Sal 15 [16],11]. Nella stessa prospettiva della vita che non passa, sta oggi davanti a noi Cristo, quale unico ed eterno sacerdote: il mediatore tra il tempo e l’eternità, tra l’uomo e Dio. Nella lettera agli Ebrei leggiamo: Gesù Cristo “avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso alla destra di Dio, aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi” (Eb 10,12-13). Sappiamo che la vittoria nella lotta tra il bene e il male è stata riportata mediante la Croce. Cristo ha vinto con il sacrificio. E il suo sacrificio sulla Croce per i peccati dura. Non passa, così come non passa la sua parola. Nel raggio di questo Sacrificio si svolge la storia dell’umanità e la storia di ogni uomo. “Poiché con un’unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” (Eb 10,14). Il Sacrificio di Cristo porta in sé la speranza della vittoria definitiva del bene sul male: sul peccato, sulla sofferenza e sulla morte. Esso ci mostra la “via della vita”. Il mondo cammina verso il suo termine. Quanto al giorno della fine, nessuno lo conosce, “neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mc 13,32). Alla luce delle parole dell’odierno Vangelo, questa “fine” o “termine” non chiude la storia dell’uomo, ma l’apre nella dimensione definitiva, l’apre mediante il Figlio dell’uomo, mediante la seconda venuta di Cristo. “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26). Egli verrà per riunire “i suoi eletti dai quattro venti” (Mc 13,27): coloro che sono maturati mediante la verità della sua parola e la potenza della sua Croce.

I Lettura: Questa pagina di Daniele è uno dei testi dell’Antico Testamento più significativi sulla resurrezione della carne. Il libro della vita, nel sentire comune e nella letteratura antica, era il libro divino dove venivano segnati i predestinati (cf. Es 32,32-33; Sal 69,29; Sal 139,16; Is 4,3; Dn 7,10; Lc 10,20; Ap 20,12). Una contabilità necessaria nel giorno del giudizio universale: infatti, chi non sarà trovato scritto nel libro della vita sarà gettato nello stagno di fuoco (cf. Ap 20,15). Coloro che avranno indotto alla giustizia sono i «maestri di giustizia». Per loro è riserbato un destino di gloria.

II Lettura: Il sacrificio consumato da Cristo è unico ed irrepetibile. Seduto alla destra del Padre, Gesù aspetta «ormai solo che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi» e l’ultimo «nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,26). Il cristiano in virtù dell’oblazione del Cristo è già perdonato e riconciliato col Padre e in virtù del Battesimo è già santo, ma nella sua carne non potrà non sentire il pungolo del peccato: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rom 7,18-19).

Vangelo 
Il Figlio dell’uomo radunerà i suoi eletti dai quattro venti.

Sembra che il brano marciano voglia riferirsi esclusivamente alla rovina di Gerusalemme. Inoltre, numerosi critici credono che questa pagina di Marco si sia ispirata a Daniele. I prodigi cosmici, le persecuzioni, i disastri e i cataclismi servono nel linguaggio tradizionale dei profeti a descrivere i potenti interventi di Dio nella storia. Per la Bibbia di Gerusalemme, niente impone «di applicarli alla fine del mondo, come si fa spesso a causa del contesto in cui sono stati inseriti da Matteo [cf. Mt 24,1]». Comunque, nulla vieta di pensare che Gesù annunci un fatto storico più o meno prossimo, intendendo per suo mezzo di annunciarne altri più lontani nel tempo. Così l’imminente distruzione del tempio e di Gerusalemme è preludio della fine delle cose. Il primo evento è segno e pegno degli altri.

Dal Vangelo secondo Marco
 Mc 13,24-32

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
 «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cieloDalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
 In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
 
 Parola del Signore.
 
Dopo quella tribolazione - Dopo la parte destinata alla fine di Gerusalemme (cf. Mc 13,14-23), il testo marciano si sofferma ad annunciare la venuta gloriosa del Cristo (cf. Mc 13,24-27).
 Il linguaggio usato è quello apocalittico adoperato dai profeti dell’Antico Testamento, secondo il quale gli sconvolgimenti cosmici - il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte - annunciano l’irruzione di Dio nella storia dell’uomo: «Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».
 Il Figlio dell’uomo verrà «nella sua gloria con tutti i suoi angeli» (Mt 25,31), i quali riuniranno gli eletti del Cristo «dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
 Tale riunione sarà foriera di speranza per gli abitanti di un mondo destinato a perire. Infatti, nonostante la «grande tribolazione» (Mt 24,21) che attanaglierà Gerusalemme, ci sarà un resto formato dagli eletti, quelli che avranno resistito fino al termine della prova, i quali avranno anche un ruolo di intercessione a beneficio di tutti gli uomini: «Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe. Ma a motivo di quegli eletti che si è scelto ha abbreviato quei giorni» (Mc 13, 20). L’umanità così non andrà definitivamente perduta.
La similitudine del fico vuole insegnare all’uomo ad essere più accorto, a saper leggere i segni dei tempi: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,56-57)È un invito alla vigilanza, lo stesso invito che Gesù rivolgerà a Pietro, a Giacomo e a Giovanni nell’orto del Getsemani (cf. Mc 14,34.37.38).
Questi eventi sono così vicini che «non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute». Queste parole di Gesù, che dai più vengono riferite alla distruzione del tempio di Gerusalemme, si realizzeranno alla lettera appena quarant’anni dopo questo annuncio quando le truppe romane raderanno la città santa al suolo.
Andando indietro nel testo si legge che i discepoli sembravano rapiti dalla magnificenza del tempio fatto erigere dal re Erode il Grande (cf. Mc 13,1).
Eppure tanta bellezza era già segnata dalla rovina: «Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta» (Mc 13,2). Nel 70, dopo la rivolta del 66, le legioni romane al comando di Tito distruggeranno il tempio e con esso cadrà in rovina Gerusalemme e i suoi abitanti saranno deportati. La profezia evangelica si realizzerà alla lettera: tutto venne portato via, anche le pietre, e a tutt’oggi non troviamo nulla che ricordi la grandezza della magnifica costruzione erodiana a parte un muro di contenimento della spianata del tempio, il famoso ‘muro del pianto’. Alla fine del mondo si sovrappone l’annuncio della distruzione del tempio di Gerusalemme: i due eventi si mescolano perché la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio per un giudeo non poteva non essere figura della fine del mondo. L’affermazione - Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno - ribadisce l’evidente eternità e immutabilità divina della Parola di Dio (cf. Is 51,6): «Le parole di Cristo, che traggono origine dall’eternità, possiedono tale forza e tale potere da durare per sempre» (Sant’Ilario).
Nessuno conosce il giorno e l’ora quando si scateneranno questi eventi, neppure il Figlio: un’affermazione che ha messo in difficoltà intere generazioni di cristiani, ma il problema della comprensione depone per la sua genuinità.Per Gregorio Nazianzeno è «fuori dubbio che Cristo, come Dio, conosce l’ora della fine del mondo, ma, poiché qui si parla di Figlio senza alcun riferimento, possiamo ritenere che questa ignoranza la si possa attribuire alla umanità del Cristo, senza coinvolgere la sua Divinità».Se nessuno conosce quel giorno, non sta a noi indagare. Il Padre sa e noi ci fidiamo di lui.

La parusia - Giuseppe Barbaglio (Parusia in Schede Bibliche): Nell’Antico Testamento il libro di Daniele aveva annunciato la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. Si trattava di una figura celeste e regale. Da Dio avrebbe ricevuto un regno eterno (Dan 7,13-14). Il Nuovo Testamento scopre l’identità tra il Figlio dell’uomo di Daniele e dell’apocalisse giudaica e la persona di Cristo. Alla fine della storia Gesù si ammanterà di gloria, si rivelerà come re maestoso, apparirà circondato dai santi e dagli angeli che formeranno la sua corte celeste. Le descrizioni fantastiche di Matteo e di Marco non vogliono significare altro (Mt 25,31; Mc 13,26). La tradizione cristiana più antica è testimoniata dalle prime lettere di Paolo (1Tess 4,16; 2Tess 1,6). L’apostolo Pietro trova nella gloriosa trasfigurazione di Gesù sul monte un segno profetico dell’apparizione gloriosa del Signore nell’ultimo giorno (2 Pt 1,16). L’accento è posto sulla gloria, la maestà, lo splendore celeste della apparizione di Cristo alla fine. Il contrasto con la prima venuta in terra è evidente. Il Verbo si era fatto carne (Gv 1,14). Lo splendore della divinità era nascosto dall’umanità fragile, debole, mortale di Gesù di Nazareth. Gesù era il Figlio di Dio diventato in tutto uguale agli uomini, di cui aveva assunto l’aspetto servile (Fil 2,7-8). La gloria divina della sua persona era apparsa, per un istante, sulla montagna della trasfigurazione. Nella risurrezione Dio Padre lo aveva glorificato e lo aveva costituito messia e Signore (Atti 2,36). La fine dei tempi rivelerà davanti a tutti, in forma ufficiale, la gloria divina di Gesù. La sua regalità, acquisita nella risurrezione, sarà proclamata e realizzata pienamente. Gesù apparirà come il Figlio dell’uomo, intronizzato re messianico dal Padre. La storia della rivelazione divina si concluderà nella manifestazione chiara di Cristo alla fine (1Tim 6,14-15). Il tutto, però, non riguarda esclusivamente Cristo.Egli non è separato dai suoi, anzi vi è unito indissolubilmente. La glorificazione regale del Signore è accompagnata dalla rivelazione gloriosa dei santi. La fine dei tempi è manifestazione cristologica e, insieme, ecclesiologica. La Chiesa di Cristo parteciperà alla gloriosa apparizione del suo Signore. Il popolo santo sarà glorificato, insieme con il suo messia. Già il libro di Daniele parlava di «santi dell’Altissimo», beneficiari del Regno. La figura del figlio dell’uomo non è separata dal popolo di Dio (Dan 7,27). La tradizione evangelica conosce l’entrata delle vergini sagge nella sala delle nozze dello sposo (Mt 25,1-13). La grandiosa pagina del giudizio finale è significativa (Mt 25,34). Le lettere ai Tessalonicesi notano la partecipazione dei credenti alla glorificazione di Cristo. Neppure la morte toglierà loro la possibilità di prender parte alla grande festa della venuta maestosa e trionfale del Signore (1Tess 4,15-17; 2Tess 1,6ss.). L’apostolo Paolo si dice certo di ricevere la corona del trionfo dalle mani del Signore che ritornerà; e con lui saranno coronati i fedeli (2Tim 4,8; cf. 1Pt 5,4). La prima lettera di Pietro mette in rapporto causale la partecipazione alle sofferenze di Cristo e la partecipazione alla sua gloria finale (1Pt 4,13). Il rapporto sofferenze-gloria non è di perfetta uguaglianza: Paolo afferma che c’è sproporzione a favore della gloria: questa sarà assai superiore alle sofferenze (Rom 8,17-18). Sempre in forza del parallelismo Cristo-cristiano l’apostolo parla della rivelazione gloriosa dei cristiani in unione alla rivelazione gloriosa di Cristo (Col 3,3-4). Il tema porta, infine, alle due immagini celebri della Chiesa vista da Giovanni nell’Apocalisse come Gerusalemme celeste e come sposa adorna per le nozze (Ap 21,2.9-12). Alla fine dei tempi, insieme con Cristo, anche il popolo messianico avrà la sua rivelazione di gloria. Apparirà nello splendore di popolo purificato dal sangue del suo Signore e santificato dal suo Spirito. La sposa di Cristo risplenderà bella e immacolata, senza macchia né ruga (Ef 5,27).

Quanto però a quel giorno - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Circa a quel giorno e a quell’ora nessuno sa nulla; tale dichiarazione non è in contrasto con quella fatta poco sopra (versetto 30), poiché al versetto 30 Gesù aveva indicato in modo generico il periodo nel quale sarebbe venuta la distruzione di Gerusalemme («questa generazione», cf. versetto 30); in questo versetto invece egli afferma che nessuno conosce la data esatta del terribile evento (quel giorno e quell’ora). Né il Figlio; Cristo, come uomo, ignorava il momento della caduta di Gerusalemme, o meglio ancora, egli non aveva il compito di svelare agli uomini il giorno che il Padre aveva decretato per la rovina della città santa. Comunemente gli esegeti ritengono che questa dichiarazione del Salvatore vada riferita al giorno dell’ultimo giudizio e che tra il versetto 30 ed il versetto 32 vi sia un cambiamento di prospettiva, poiché le affermazioni toccano due fatti differenti e distanziati, cioè: la caduta di Gerusalemme e l’ultimo giudizio alla fine del mondo. Noi, seguendo il Feuillet ... pensiamo che la dichiarazione di Cristo riguarda ancora la rovina di Gerusalemme e che nel versetto non vi è una mutazione, né un passaggio di prospettiva, ma la continuazione dello stesso argomento; ciò non toglie che la punizione della città santa possa essere il tipo del grande giudizio che si avrà alla fine del mondo per tutti gli uomini.

Il mistero dell’ultimo giorno - Gregorio Nazianzeno (Oratio, 30, 15): Affermano alcuni che nessuno, neanche il Figlio, ma il solo Padre, conosca l’ultimo giorno.
Ma com’è possibile che la Sapienza ignori anche una sola delle cose che sono, che l’ignori il creatore e rinnovatore dei secoli, colui che è il fine di tutte le cose create, che conosce le cose di Dio, come lo spirito dell’uomo conosce ciò che ha in se stesso? Che c’è al mondo di più pieno e perfetto di questa conoscenza? E com’è possibile che quello stesso che conosce tutto ciò che precede un evento e ne conosce esattamente lo svolgimento, non ne conosca poi ora? È come se uno dicesse di sapere tutto ciò che è innanzi a un muro e di non saper nulla del muro, o come se uno conoscesse la fine di un giorno, ma ne ignorasse il principio della notte seguente. È fuor di dubbio che Cristo, come Dio, conosce l’ora della fine del mondo, ma, poiché qui si parla di Figlio senza alcun riferimento, possiamo ritenere che questa ignoranza la si possa attribuire alla umanità del Cristo, senza coinvolgere la sua divinità.

Il Santo del Giorno - 17 Novembr 2024 - Sant’Elisabetta d’Ungheria. Sovrana dal cuore aperto a Dio, madre per i poveri e per i bisognosi: È ciò che portiamo nel cuore a qualificarci: se sappiamo aprirlo all’amore di Dio saremo testimoni dell’infinito nella storia, in qualsiasi angolo di mondo viviamo, qualsiasi posizione ci troviamo a occupare. Perché alla fine regine, governanti o semplici “popolani”, tutti possiamo essere costruttori dell’unico regno che conta, quello di Dio. Così fu per santa Elisabetta di Ungheria, la sovrana di Turingia che fece della propria posizione un’occasione per prendersi cura dei bisognosi. Nata nel 1207 a Sárospatak, figlia del re Andrea II d’Ungheria e della regina Gertrude, fu data in sposa nel 1221, giovanissima, all’erede del trono di Turingia, Ludovico IV. Nel 1222 nacque il loro primo figlio, Ermanno, seguito da Sofia nel 1224 e, nel 1227, Gertrude, che però viene alla luce quando il padre era già morto a causa di una malattia a Otranto, sulla via verso la Terrasanta durante la sesta crociata. A quel punto Elisabetta, che avrebbe potuto risposarsi, decise di ritirarsi prima ad Eisenach e poi nel castello di Pottenstein. Seguendo lo spirito francescano donò le proprie ricchezze, con le quali si costruì un ospedale, e infine elesse a dimora una modesta casa di Marburgo, inimicandosi così i parenti che la privarono dei figli. In questo clima di ostilità Elisabetta portò avanti il progetto di una vita offerta a Dio e ai poveri: fece costruire un ospedale ed entrò nel Terz’ordine francescano. Visse da mendicante fino alla morte nel 1231: quattro anni dopo fu proclamata santa. (Matteo Liut)

Nutriti da questo sacramento,
ti preghiamo umilmente, o Padre:
la celebrazione che il tuo Figlio
ha comandato di fare in sua memoria,
ci faccia crescere nell’amore.
Per Cristo nostro Signore.

 

 

 

 16 Novembre 2024
 
Sabato XXXII Settimana Tempo Ordinario
 
3Gv 5-8; Salmo Responsoriale Dal Salmo 111 (112); Lc 18,1-8
 
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
allontana ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te,
perché, nella serenità del corpo e dello spirito,
possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Papa Francesco (Angelus 20 Ottobre 2013): Cari fratelli e sorelle, nel Vangelo di oggi Gesù racconta una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi. La protagonista è una vedova che, a forza di supplicare un giudice disonesto, riesce a farsi fare giustizia da lui. E Gesù conclude: se la vedova è riuscita a convincere quel giudice, volete che Dio non ascolti noi, se lo preghiamo con insistenza? L’espressione di Gesù è molto forte: «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» (Lc 18,7).
“Gridare giorno e notte” verso Dio! Ci colpisce questa immagine della preghiera. Ma chiediamoci: perché Dio vuole questo? Lui non conosce già le nostre necessità? Che senso ha “insistere” con Dio?
Questa è una buona domanda, che ci fa approfondire un aspetto molto importante della fede: Dio ci invita a pregare con insistenza non perché non sa di che cosa abbiamo bisogno, o perché non ci ascolta. Al contrario, Lui ascolta sempre e conosce tutto di noi, con amore. Nel nostro cammino quotidiano, specialmente nelle difficoltà, nella lotta contro il male fuori e dentro di noi, il Signore non è lontano, è al nostro fianco; noi lottiamo con Lui accanto, e la nostra arma è proprio la preghiera, che ci fa sentire la sua presenza accanto a noi, la sua misericordia, anche il suo aiuto. Ma la lotta contro il male è dura e lunga, richiede pazienza e resistenza come Mosè, che doveva tenere le braccia alzate per far vincere il suo popolo (cfr Es 17,8-13). È così: c’è una lotta da portare avanti ogni giorno; ma Dio è il nostro alleato, la fede in Lui è la nostra forza, e la preghiera è l’espressione di questa fede. Perciò Gesù ci assicura la vittoria, ma alla fine si domanda: «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Se si spegne la fede, si spegne la preghiera, e noi camminiamo nel buio, ci smarriamo nel cammino della vita.
Impariamo dunque dalla vedova del Vangelo a pregare sempre, senza stancarci. Era brava questa vedova! Sapeva lottare per i suoi figli! E penso a tante donne che lottano per la loro famiglia, che pregano, che non si affaticano mai. Un ricordo oggi, tutti noi, a queste donne che col loro atteggiamento ci danno una vera testimonianza di fede, di coraggio, un modello di preghiera. Un ricordo a loro! Pregare sempre, ma non per convincere il Signore a forza di parole! Lui sa meglio di noi di che cosa abbiamo bisogno! Piuttosto la preghiera perseverante è espressione della fede in un Dio che ci chiama a combattere con Lui, ogni giorno, ogni momento, per vincere il male con il bene.
 
Prima Lettura: Gaio, nome molto comune tra i cristiani, è encomiato per la sua fedeltà e per la sua carità, e allo stesso tempo è invitato a non stancarsi ad accogliere i missionari di Dio, i quali per “il nome di Dio sono partiti senza accettare nulla dai pagani.”. Sostenere, accogliere i missionari cristiani significa diventare collaboratori della verità.
 
Vangelo
 Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui.
 
La parabola è facile da comprendere: se persino l’uomo più iniquo cede di fronte ad una supplica incessante, Dio, che è buono, non ascolterà e salverà prontamente chi lo invoca? Ma non si confonda la giustizia umana con quella di Dio. L’agire di Dio è molto diverso da quello umano.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,1-8
 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
Parola del Signore.
 
Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? - Prima di entrare nei dettagli bisogna ricordare che il racconto lucano è una parabola e che «la parabola è una storia che sovente comprende alcuni dati umoristici con lo scopo di far risaltare un’idea fondamentale. Bisognerà perciò stare attenti a non architettare teorie sulla base di un solo dettaglio. Che il giudice di questa parabola sia un disonesto è provocante, ma ciò non ha nulla a che vedere con Dio» (I Quattro Vangeli Commentati, ELLEDICI).
Il brano lucano va posto nel suo contesto e cioè tra il diciassettesimo e il ventunesimo capitolo che sono dominati da una domanda insistentemente posta a Gesù: «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17,20).
La risposta di Gesù non lascia spazio a dubbie interpretazioni: il «Regno di Dio in parte è già presente, in parte deve ancora venire. Nel suo primo stadio, il regno “è già in mezzo a voi”; nel suo secondo stadio esso verrà di sorpresa. Nel tempo intermedio i credenti devono cooperare al suo avvento e perseverare nella preghiera» (Adrian Schenker - Rosario Scognamiglio).
La parabola odierna si inserisce in questa cornice di tempo intermedio, che spiega così la domanda finale, apparentemente senza alcun nesso immediato con la parabola: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il fine della parabola poi è abbastanza chiaro: Gesù vuole insegnare ai suoi discepoli la necessità di «pregare sempre, senza stancarsi mai» e di attendere con perseveranza il suo ritorno perché Egli certamente ritornerà come giudice degli uomini.
Luca ama soffermarsi sulla preghiera di Gesù: è l’orante perfetto in continua comunione di amore con il Padre. Gesù prega sopra tutto nei momenti più importanti della sua vita: è orante nelle acque del Giordano (Lc 3,21); è orante sul monte Tabor (Lc 9,28); prega prima di compiere il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Lc 9,16); prega nel Cenacolo quando istituisce l’Eucarestia (Lc 22,19-20); prega prima di consegnarsi alla sua beata Passione (Lc 22,39-46); confitto sulla croce prega per i suoi aguzzini (Lc 23,34); muore pregando: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
In quella città c’era anche una vedova … La vedova fa parte degli anawim, i poveri di Dio.
Spesso abbandonati alla loro sorte vengono maltrattati, vessati, derubati. Un’accusa mossa ai Farisei è proprio quella di divorare le case delle vedove (Lc 20,47) con pretestuosi e interessati consigli.
Nonostante che la legge ammonisse i giudici ad emettere giuste sentenze (Cf. Dt 16,18), nella prassi contavano molto le regalie e le influenze degli amici potenti.
La sentenza iniqua che condannò Nabot alla lapidazione fu confezionata solo per soddisfare i capricci del re Acab e della regina Gezabele (Cf. 1Re 21,1-16). Anna, Caifa e compagni di congrega si serviranno di falsi testimoni per emettere la sentenza di morte che porterà sulla croce il Figlio di Dio (Cf. Mt 26,60-61).
Che il giudice sia iniquo quindi non sorprende chi ascolta la parabola, la sorpresa sta nel fatto che alla fine il giudice, pur consapevole della sua empietà e del suo disprezzo verso il prossimo, si arrenda alle suppliche della vedova. Una manovra meschina pensata unicamente per liberarsi delle noiose insistenze della donna.
Che le istanze fossero veramente insistenti a suggerirlo è il verbo che Luca usa: hypopiazo, alla lettera «sbattere sotto gli occhi».
Nel commentare la parabola, Gesù mette in evidenza il punto focale del racconto: se quel giudice disonesto e crudele accondiscese ad aiutare una povera vedova unicamente per togliersela di torno, come potrebbe Dio, buono, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), non aiutare i suoi eletti che si rivolgono a lui «giorno e notte» con grande fede?
Un’altra grande differenza tra i due attori principali della parabola sta nel loro intervenire: il giudice per la sua iniquità ha obbligato la vedova ad attendere penosamente la sentenza, Dio che è buono (Cf. Lc 18,19) invece interverrà prontamente.
Rifacendoci sempre alla lingua greca, l’espressione corrispondente all’avverbio prontamente può significare sia la prontezza di Dio, sia improvvisamente, di sorpresa: in tal caso il monito che Gesù rivolge al suo uditorio - Dio farà loro giustizia prontamente - assume una valenza preziosissima: è un’incitazione all’attesa e alla vigilanza escatologica: «Sì, vieni presto, Gesù!» (Cf. Ap 22,20).
Se vale quest’ultima lettura, allora si comprende nel suo significato più genuino la domanda di Gesù «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Negli ultimi tempi la fede avrà vita difficile, ma sarà salvato chi vigila nella preghiera con spirito pentito e umile.
 
Alois Stöger (Commenti Spirituali del Nuovo Testamento): E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
La spiegazione della parabola si riallaccia alle parole del giudice iniquo e non all’insistente preghiera della vedova. Il punto saliente della parabola non è la costanza nella preghiera, ma la certezza dell’esaudimento. Se un uomo tanto empio verso Dio e tanto privo di riguardi verso gli uomini come questo giudice si lascia convincere dall’insistente preghiera della vedova a venirle in aiuto per puro egoismo e solo allo scopo d’esser lasciato in pace, quanto più Dio esaudirà l’implorazione dei suoi eletti! Dio è ben diverso da quest’empio giudice! L’evangelista sposta l’accento e considera innanzi tutto l’insistente preghiera della vedova. Già nell’introduzione della parabola egli ce lo fa capire: è necessario pregare sempre, senza stancarsi mai. Agli eletti che gridano a lui giorno e notte, Dio fa giustizia.
«I gemiti degli oppressi trovano sollievo, e la loro preghiera giunge fino al cielo. La preghiera dell’oppresso penetra le nubi, e finché non raggiunge Dio non si dà pace, né si allontana finché l’Altissimo non le presta attenzione; e il Signore non indugia, ma giudica in favore dei giusti e fa giustizia» (Eccli. 35, 20-22).
La Chiesa perseguitata può sperare con ogni fiducia che la sua preghiera sarà esaudita, perché essa è la comunità degli eletti di Dio. Egli ha già dimostrato loro la sua misericordia, perché ha scelto proprio coloro che meno degli altri avrebbero potuto vantarne il diritto (14, 16-24). In essi Dio ama l’immagine del Figlio suo, dell’Eletto per eccellenza (9, 35; 23, 35), dell’Unto (Cristo) di Dio. Anche se la preghiera degli eletti non viene immediatamente accolta, quando essi si trovano nella
persecuzione e nel dolore, li consoli la sorte dell’Eletto per eccellenza, il Cristo, Figlio di Dio. Gesù non ottiene il titolo di eletto senza la croce.
Egli viene manifestato come eletto quando nella trasfigurazione viene proclamata la sua strada, che attraverso la croce giunge alla glorificazione. Con questo titolo Gesù sulla croce viene deriso, perché ai giudei appare impossibile che l’eletto sia un crocifisso (23, 35).
Gesù è l’Eletto, perché giunge alla gloria attraverso la passione. Per questo stesso cammino del grande Eletto di Dio dovranno passare anche tutti gli altri eletti.
La preghiera perseverante degli eletti oppressi non rimane inascoltata. Dio rende loro giustizia prontamente; per amore degli eletti Dio abbrevia i giorni della sventura (cf. Mc. 13, 20-23).
Egli non tarda a venire in soccorso dei suoi eletti. Il giorno della salvezza di Dio sta per venire; essa consiste nella nuova presenza di Gesù. È molto ricco di significato il fatto che la Chiesa preghi, innumerevoli volte e senza stancarsi mai, con le parole: «Venga il tuo regno», e che ogni anno celebri l’Avvento, tenendosi sempre pronta alla venuta del Figlio dell’uomo mediante il sacrificio dell’eucaristia (cf. 1Cor. 11, 26).
 
L’esempio di Cristo orante: «E passò la notte in preghiera a Dio [Lc 6,12]. Ecco che ti viene indicato un esempio, ti viene offerto un modello da imitare. Cosa non dovrai tu fare per la tua salvezza, mentre per te Cristo passa la notte in preghiera? Cosa ti conviene fare, quando vuoi intraprendere qualche opera buona, se consideri che Cristo, al momento di inviare gli apostoli, ha pregato, e ha pregato da solo? Se non mi sbaglio, in nessun luogo si trova che egli abbia pregato insieme con gli apostoli: ovunque egli prega da solo. Il disegno di Dio non può essere disturbato da desideri umani, e nessuno può essere partecipe dellintimo pensiero di Cristo.» (Ambrogio, Commento al Vangelo di san Luca, 5,43).
 
Il Santo del Giorno - 16 Novembre 2024 - Santa Margherita di Scozia. Così la vita matrimoniale può essere strumento per mostrare Dio al mondo: La vita di coppia, la condivisione nel matrimonio, la costruzione di una famiglia possono diventare strade verso la santità, strumenti per realizzare un frammento del Regno di Dio nella storia. Così avvenne nella coppia formata da Malcolm III di Scozia e santa Margherita di Scozia, sua sposa e regina. Il marito non conduceva una vita di fede, non conosceva il Vangelo, non sapeva leggere e non capiva bene le preghiere della donna che aveva sposato forse solo per una questione politica, ma provava rispetto e ammirazione per la vita spirituale di Margherita, al punto da arrivare a baciare i libri su cui lei pregava. La regina, d’altra parte, univa la preghiera a una vita di carità e di cura dei bisognosi, divenendo una “madre” per il popolo che si era trovata a guidare accanto a Malcolm. Figlia di Edoardo, re inglese in esilio, Margherita era nata in Ungheria attorno al 1046. A 9 anni seguì il padre che avevo potuto rientrare in patria, per fuggire, però, di nuovo nel 1066, ma in Scozia. Qui a 24 anni sposò il re Malcom III, da cui ebbe otto figli: sei maschi e due femmine. Il marito e il figlio maggiore furono uccisi nella battaglia di Alnwick: quando Margherita ricevette la notizia era già malata ed espresse la volontà di offrire questa ulteriore sofferenza come riparazione dei propri peccati. Morì pochi giorni dopo, a Edimburgo il 16 novembre 1093. Venne canonizzata nel 1250 da papa Innocenzo IV. (Matteo Liut)
 
Nutriti dei tuoi santi doni ti rendiamo grazie, o Signore,
e imploriamo la tua misericordia:
per il tuo Spirito, comunicato a noi in questi sacramenti,
ci sia data la grazia di rimanere fedeli nel tuo servizio.
Per Cristo nostro Signore.
 
 15 Novembre 2024
 
Venerdì XXXII Settimana Tempo Ordinario
 
2Gv 1a.3-9; Salmo Responsoriale Dal Salmo 118 (119); Lc 17,26-37
 
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
allontana ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te,
perché, nella serenità del corpo e dello spirito,
possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 24 marzo 2010): Sant’Alberto Magno ci ricorda che tra scienza e fede c’è amicizia, e che gli uomini di scienza possono percorrere, attraverso la loro vocazione allo studio della natura, un autentico e affascinante percorso di santità.
La sua straordinaria apertura di mente si rivela anche in un’operazione culturale che egli intraprese con successo, cioè nell’accoglienza e nella valorizzazione del pensiero di Aristotele. Ai tempi di sant’Alberto, infatti, si stava diffondendo la conoscenza di numerose opere di questo grande filosofo greco vissuto nel quarto secolo prima di Cristo, soprattutto nell’ambito dell’etica e della metafisica. Esse dimostravano la forza della ragione, spiegavano con lucidità e chiarezza il senso e la struttura della realtà, la sua intelligibilità, il valore e il fine delle azioni umane. Sant’Alberto Magno ha aperto la porta per la recezione completa della filosofia di Aristotele nella filosofia e teologia medioevale, una recezione elaborata poi in modo definitivo da S. Tommaso. Questa recezione di una filosofia, diciamo, pagana pre-cristiana fu un’autentica rivoluzione culturale per quel tempo. Eppure, molti pensatori cristiani temevano la filosofia di Aristotele, la filosofia non cristiana, soprattutto perché essa, presentata dai suoi commentatori arabi, era stata interpretata in modo da apparire, almeno in alcuni punti, come del tutto inconciliabile con la fede cristiana. Si poneva cioè un dilemma: fede e ragione sono in contrasto tra loro o no?
Sta qui uno dei grandi meriti di sant’Alberto: con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto che tutto ciò che è realmente razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture. In altre parole, sant’Alberto Magno, ha così contribuito alla formazione di una filosofia autonoma, distinta dalla teologia e unita con essa solo dall’unità della verità. Così è nata nel XIII secolo una chiara distinzione tra questi due saperi, filosofia e teologia, che, in dialogo tra di loro, cooperano armoniosamente alla scoperta dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine: ed è soprattutto la teologia, definita da sant’Alberto “scienza affettiva”, quella che indica all’uomo la sua chiamata alla gioia eterna, una gioia che sgorga dalla piena adesione alla verità.
Sant’Alberto Magno fu capace di comunicare questi concetti in modo semplice e comprensibile. Autentico figlio di san Domenico, predicava volentieri al popolo di Dio, che rimaneva conquistato dalla sua parola e dall’esempio della sua vita.
 
Prima Lettura: Questa Lettera, anche se breve e semplice, è un documento preziosissimo della organizzazione della Chiesa. In questa struttura il Presbitero ha un ruolo vitale. È per lui che la comunità viene ancorata alla verità di Cristo Gesù. È per lui che la comunità viene salvaguardata da ogni errore, falsità, inganno. Due sono i moniti che Giovanni consegna ai suoi lettori: camminare nella verità, secondo il comandamento che hanno ricevuto dal Padre e camminare nell’amore. Inoltre, non devono avere rapporti con i seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne. Chi si fa compagno degli eretici non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Soltanto chi rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio.
 
Vangelo
Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà.
 
Anche noi, come i contemporanei di Gesù, ci chiediamo cosa dobbiamo fare per essere attenti e pronti nel momento decisivo? Come si deve vivere l’attesa? Il riferimento ai contemporanei di Noè e di Lot ci aiutano a rispondere a queste domande. Questi abitanti non sono presentati qui come esempi di immoralità, ma soltanto di disattenzione. Non sono distratti a causa della dissolutezza o dei stravizi o altre scostumatezze, sono distratti semplicemente per gli impegni della vita: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano. Senza la vigilanza anche la vita ordinaria può appesantire il cuore, renderlo distratto, e assopire la fede.
 
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,26-37
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti.
Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell’uomo si manifesterà.
In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot.
Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva.
Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata».
Allora gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi».

Parola del Signore.
 
Come avvenne nei giorni di Noè … - Javer Pikaza (Commento della Bibbia Liturgica): In primo luogo, il giudizio si presenta in forma di sorpresa (17,26-32). Come al tempo di Lot e di Noè, gli uomini continuano a occuparsi dei piccoli problemi della loro vita: fortuna, divertimenti, cibo, sesso, clan familiare, affari. Questi problemi sono così assorbenti, che si dimentica la dimensione di profondità: Dio che è presente in noi, Dio che chiama e vuole convertirci agli autentici valori della vita. Di fronte a questa chiamata, si possono dare due tipi diversi di insuccesso: quello di coloro che sono eccessivamente occupati nelle loro cose e preferiscono non semplicemente ascoltare (come gli abitanti di Sodoma), o quello di coloro che, ascoltando inizialmente la chiamata, sentono la nostalgia del mondo che hanno abbandonato e vi tornano (la moglie di Lot).
La venuta del regno stabilisce nel mondo le sue frontiere. I giudei supponevano che la salvezza sarebbe andata di preferenza agli uomini del loro popolo e, nello stesso tempo, che i gentili sarebbero stati condannati. La parola di Gesù distrugge questo modo di pensare. Salvezza e condanna corrispondono alla profondità radicale del destino di ciascun uomo. Perciò, vi saranno due nello stesso letto: dormiranno marito e moglie, come formando un unico sogno, avvolti negli stessi ideali, pieni delle stesse speranze, con le stesse virtù e gli stessi difetti; e il giudizio passerà nel mezzo di questo letto, separando il destino e la verità di ciascuno degli sposi. Così accadrà anche per i servi che lavorano nello stesso campo o per le serve che macinano nella stanza più oscura della casa. Apparentemente, hanno condiviso successi ed insuccessi; ma li attende il giudizio e, allora, appariranno diversi nella profondità della loro vita (17,34-35). Di fronte a simile prospettiva è necessario scendere fino alle più profonde radici della vita. Qui appunto sarà deciso il giudizio. Dio non si occupa di apparenze, e la vita degli uomini non si realizza semplicemente a questi livelli. Quello che importa è l’atteggiamento, la decisione fondamentale, quella profondità in cui si deciderà il vero valore dell’esistenza. Tenendo conto di questo, il testo ci ricorda due verità importanti: una di carattere più giudaico (17,37) e una di senso ormai cristiano (17,33).
 
Tenersi pronti per il ritorno del Signore - Marcel Didier (Dizionario di Teologia Biblica): Nei vangeli sinottici l’esortazione alla vigilanza è la raccomandazione principale che Gesù rivolge ai suoi discepoli a conclusione del discorso sui fini ultimi e sull’avvento del figlio dell’uomo (Mc 13,33-37). «Vegliate dunque, perché non sapete in qual giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24,42). Per esprimere che il suo ritorno è imprevedibile, Gesù si serve di diversi paragoni e parabole che stanno all’origine dell’uso del verbo vegliare (astenersi dal dormire). La venuta del figlio dell’uomo sarà imprevista come quella di un ladro notturno (Mt 24,43s), Come quella del padrone che rientra durante la notte senza avere preavvisato i suoi servi (Mc 13,35s). Come il padre di famiglia prudente, oppure il buon servo, il cristiano non deve lasciarsi vincere dal sonno, deve vegliare, cioè stare in guardia e tenersi pronto per accogliere il Signore. La vigilanza caratterizza quindi l’atteggiamento del discepolo che spera ed attende il ritorno di Gesù; consiste innanzitutto nell’essere sempre all’erta, e per ciò stesso esige il distacco dai piaceri e dai beni terreni (Lc 21,34ss). Poiché l’ora della parusia è imprevedibile, bisogna prendere le proprie disposizioni per il caso che si faccia attendere: è l’insegnamento della parabola delle vergini (Mi 25, 1-13).
Nelle prime lettere paoline, dominate dalla prospettiva escatologica, si trova l’eco dell’esortazione evangelica alla vigilanza, specialmente in 1Tess 5,1-7. «Noi non siamo della notte, né delle tenebre; non dormiamo quindi come gli altri, ma vegliamo, siamo sobri» (5,5ss). Il cristiano, essendosi convertito a Dio, è «figlio della luce», quindi deve rimanere sveglio e resistere alle tenebre, simbolo del male, altrimenti corre il rischio di essere sorpreso dalla parusia. Questo atteggiamento vigilante esige la sobrietà, cioè la rinuncia agli eccessi «notturni» ed a tutto ciò che può distrarre dall’attesa del Signore; esige nello stesso tempo che si indossi l’armatura spirituale: «rivestiamoci della fede e della carità come di corazza, e della speranza della salvezza come di elmo» (5,8). In una lettera posteriore S. Paolo, temendo che i cristiani abbandonino il loro fervore primitivo, li invita a risvegliarsi, ad uscire dal loro sonno ed a prepararsi per ricevere la salvezza definitiva (Rom 13,11-14).
Nell’Apocalisse il messaggio che il giudice della fine dei tempi rivolge alla comunità di Sardi è una esortazione pressante alla vigilanza (3,1ss). Questa Chiesa dimentica che Cristo deve ritornare; se non si risveglia, egli la sorprenderà come un ladro. Viceversa, beato «Colui che veglia e Conserva le sue vesti» (16, 15); egli potrà partecipare al corteo trionfale del Signore.
 
Ambrogio (In Lucam, VIII, 49-51): Se due donne saranno insieme a macinare...: consideriamo dunque queste donne che macinano, che cosa macinano e che cos’è il mulino... Il mulino è il corpo umano, nel quale la nostra anima è come chiusa in prigione, per produrre, se essa ha cura del bene, il pane celeste. In questo mulino dunque l’anima presa nei peccati macina un grano molle, marcio per l’eccessiva umidità, e non può quindi separare l’interiore dall’esteriore: essa sarà quindi lasciata perché la sua farina risulterà sgradita. Al contrario l’anima non macchiata né insozzata da alcuna colpa, macina un grano asciugato dal calore del sole eterno, che Dio ha vestito come ha voluto [Lc 12,28] e che gli Angeli hanno purificato da ogni macchia di impurità.
 
Il Santo del Giorno 10 Novembre 2024 - Sant’Alberto Magno. È l’anima il luogo privilegiato dove Dio incontra l’umanità: Se vuoi conoscere un essere umano devi guardare nella sua anima, perché lì si trova il centro della sua identità ed è lì che l’umanità incontra Dio. Un incontro che poi si esprime all’esterno, testimoniando così al mondo il nostro destino universale. A questa affascinante visione sull’anima dell’essere umano dedicò tutto il suo impegno di studioso sant’Alberto Magno. Conciliando in sé la visione mistica radicata in Dionigi l’Aeropagita e le teorie filosofico-naturali di Aristotele egli indicò appunto la strada per mettersi sulle tracce dell’anima, una ricerca che gli fruttò il titolo di “dottore universale”. Il campo della sua ricerca teologica e filosofica, infatti, era vastissimo e la sua eredità in questo campo fu raccolta dal più famoso dei suoi allievi, san Tommaso d’Aquino. Ma Alberto portò nel suo ordine, i Domenicani, anche quella tensione mistica che sarà poi sviluppata da Meister Eckhart. Alberto era nato in Baviera attorno al 1206, studente a Padova, nel 1223 era entrato tra i Domenicani, insegnando poi in diverse città. Dopo un’esperienza a Parigi tornò con il suo allievo Tommaso a Colonia per dirigere il nuovo studium. Tra il 1260 e il 1262 fu anche vescovo di Ratisbona; nel 1274 partecipò al Concilio di Lione. Morì nel 1280. Proclamato beato da papa Gregorio XV nel 1622, fu canonizzato da Pio XI nel 1931, quando venne anche dichiarato dottore della Chiesa. Il 16 dicembre 1941 per volere di Pio XII è stato scelto come patrono dei cultori e degli studiosi delle scienze naturali. (Matteo Liut)
 
Nutriti dei tuoi santi doni ti rendiamo grazie, o Signore,
e imploriamo la tua misericordia:
per il tuo Spirito, comunicato a noi in questi sacramenti,
ci sia data la grazia di rimanere fedeli nel tuo servizio.
Per Cristo nostro Signore.
 
14 Novembre 2024
 
Giovedì XXXII Settimana Tempo Ordinario
 
Fm 7-20; Salmo Responsoriale Dal Salmo 145 (146); Lc 17,20-25
 
Colletta
Dio onnipotente e misericordioso,
allontana ogni ostacolo nel nostro cammino verso di te,
perché, nella serenità del corpo e dello spirito,
possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Ti prego per Onesimo: Spes salvi 4: Prima di affrontare la domanda se l’incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo Volto e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non solo «informativo», ma anche «performativo», vale a dire se possa trasformare la nostra vita così da farci sentire redenti mediante la speranza che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile rendersi conto che l’esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l’esperienza di molte persone picchiate e condannate alla schiavitù nell’epoca del cristianesimo nascente. Il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito. Gesù non era Spartaco, non era un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso: l’incontro col Signore di tutti i signori, l’incontro con il Dio vivente e così l’incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone. Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo padrone - appunto Filemone. Sì, Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando: «Ti supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo» (Fm 1,10-16). Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell’unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle - così i cristiani si chiamavano a vicenda. In virtù del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati dello stesso Spirito e ricevevano insieme, uno accanto all’altro, il Corpo del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro. Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura, ciò è tutt’altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata.
 
Prima Lettura: Lo schiavo Onesimo era fuggito dalla casa del suo padrone, e per lui, se riacciuffato, il castigo sarebbe stato terrificante. Finisce tra le braccia dell’apostolo Paolo che lo catechizza, lo battezza aprendolo alla fede. Paolo lo rimanda dal suo padrone Filemone, cristiano e suo amico, con un biglietto con il quale chiede di accogliere lo schiavo come fratello carissimo… sia come uomo come fratello nel Signore. La Chiesa ha ormai la consapevolezza che tutti coloro che sono stati battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo. Per cui non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti i battezzati sono uno in Cristo Gesù (Gal 3,27-28). Sono i primi passi che permetteranno di abolire la schiavitù. Onesimo ritornerà da Paolo e gli sarà compagno nell’evangelizzazione (Col 4,9).
 
Vangelo
Il regno di Dio è in mezzo a voi.
 
I farisei vogliono sapere quando verrà il regno di Dio. Gesù risponde loro che il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione. Il regno di Dio è già in mezzo a loro in modo misterioso, nascosto agli occhi degli uomini. Sarà luminoso, palese a tutti gli uomini alla fine dei tempi. Allo stesso modo sarà la venuta del Figlio dell’uomo, ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato dalla sua generazione.
 
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 17,20-25
 
In quel tempo, i farisei domandarono a Gesù: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là”. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!».
Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete.
Vi diranno: “Eccolo là”, oppure: “Eccolo qui”; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione».
Parola del Signore.
 
Disse poi ai discepoli - Benedetto Prete (I Quattro Vangeli): Disse ancora ai discepoli; gli insegnamenti intorno alla venuta del Figlio dell’uomo, la quale avrà luogo alla fine del tempo, sono preceduti da questa breve formula introduttiva; da questa risulta che l’importante discorso, pronunziato dal Salvatore nella presente circostanza, non è stato determinato da qualche domanda dei discepoli o dei Farisei, ma rappresenta un’istruzione che il Maestro stesso di propria iniziativa ha impartito «ai discepoli». Questa ampia lezione sul ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi è propria di Luca (versetti 22-37); nella presente sezione il terzo evangelista manifesta di aver penetrato intimamente il senso di questo importante discorso del Salvatore sugli eventi escatologici, perché egli distingue con accuratezza le predizioni che riguardano la fine di Gerusalemme (cf. 21,6-24) e l’annunzio della venuta gloriosa di Gesù alla fine del tempo (cf. Lc., 17,22-27). In Matteo, 24,5-41 la fine di Gerusalemme e quella del mondo sono narrate insieme e i due eventi vengono descritti con immagini catastrofiche di portata cosmica; in Luca invece si parla esclusivamente della venuta del Figlio dell’uomo («il giorno del Figlio dell’uomo»). Come risulta da questo rilievo Matteo nel suo discorso escatologico ha fuso insieme due fonti, le quali invece nel terzo evangelista si trovano distinte (tale distinzione di testi provenienti da due tradizioni o fonti differenti – testi che in Matteo al contrario si trovano combinati insieme - è stata già segnalata altrove; cf. Lc., 10,2-12; 11,39-44). Verrà il tempo; letteralmente: «verranno dei giorni», espressione vetotestamentaria che l’autore ama richiamare (cf. Lc., 19,43; 21,6; 23,29); tale formula nei passi dell’Antico Testamento introduce le predizioni di prove e castighi. Desidererete vedere uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo; Gesù predice ai discepoli che nel futuro subiranno delle prove dure e gravi, nelle quali desidereranno vedere un sol giorno di quelli del Figlio dell’uomo per trovare un po’ di sollievo e di consolazione. I «giorni del Figlio dell’uomo» non indicano qui la sua vita terrena come se i discepoli volessero trovarsi di nuovo accanto al Maestro, né l’inizio della sua manifestazione gloriosa, ma i giorni che seguono tale manifestazione gloriosa. Ma non lo vedrete; vano desiderio che non sarà attuato; i discepoli dovranno subire la prova con l’intima fiducia di superarla, poiché essi hanno la sicura promessa che il regno di Dio si affermerà sulla terra, anche se dovrà far fronte a difficoltà ed ostacoli di ogni genere.
 
Uguaglianza di tutti gli uomini e schiavitù - Giorgio Massi (Schiavo in Schede Bibliche Pastorali - Vol. VII): La chiesa primitiva si trovò a dover risolvere un grave problema sociale: la presenza di schiavi nel mondo antico e tra gli stessi cristiani. Già negli stessi Vangeli troviamo un uso abbastanza largo della famiglia linguistica di «schiavo» da parte di Gesù soprattutto in metafore e similitudini.
Tale uso rivela un accettazione dello stato sociologico di fatto senza una particolare giustificazione morale o religiosa. Il termine schiavo serve sia ad esprimere l’assoluta dipendenza dell’uomo da Dio (Mt 24,45-51; Lc 12,35-38.42-48), sia che Dio è assolutamente libero nel suo rapporto con l’uomo (Mt 18,23-35; 25,14-30; Lc 17,7-9), sia l’esclusività della signoria di Dio sull’uomo (Mt 6,24; Lc 16,13).
Ora, se nei Vangeli la schiavitù è una realtà usata nelle metafore e nelle parabole senza farsi problema, nelle lettere di Paolo vediamo che la schiavitù diventa una realtà inquietante, almeno in parte. Ciò che meraviglia l’uomo moderno è che la risposta dell’apostolo non è l’abolizione della schiavitù, bensì il suo mantenimento sia pure in un orizzonte completamente diverso. Viene raccomandata l’obbedienza agli schiavi, la giustizia e la misericordia ai padroni (Col 3,22-4,1; Ef 6,5-9; 1Pt 2,18-21; 1Tm 6,1; Tt 2,9-10). Si dice anche a un padrone di considerare il proprio schiavo come un fratello (Fm 1,15-16). Non si dice però agli schiavi di ribellarsi ai propri padroni, né ai padroni si impone di lasciare liberi i propri schiavi.
Tutto questo sembra contraddire un principio basilare del cristianesimo quale è l’universalismo di cui Paolo stesso è valente assertore. Altrove Paolo infatti afferma l’uguaglianza di tutti gli uomini in Cristo e il superamento di ogni divisione a cominciare da quella che esiste tra liberi e schiavi (Gal 3,28; Col 3,11; 1Cor 12,13). Ma è appunto il fatto che il superamento delle divisioni ha la sua radice in Cristo che ci fa capire perché Paolo non chieda l’abolizione della schiavitù. L’«essere in Cristo», infatti diviene una realtà così centrale nella vita del cristiano che qualsiasi altra condizione o situazione perde ogni significato agli occhi del credente (Ef 6,7-8). Se siamo «in Cristo» poco importa l’essere liberi o schiavi da un punto di vista sociale: la vera libertà è già stata acquistata (1Cor 7,20-24). Ciò che preme a Paolo è che l’interesse dei cristiani non si sposti dalla libertà che Cristo è venuto a portare volgendosi ad un suo ridimensiomento sul piano puramente sociologico.
È chiaro però che il messaggio cristiano di uguaglianza dovrà avere riflessi sul piano sociale, come ogni altra parte del messaggio. E così fu storicamente. Ma è altrettanto chiaro che la schiavitù da cui Cristo ci ha liberati non è solo direttamente quella esterna, ma quella del male di cui tuttavia l’istituzione sociale della schiavitù è manifestazione. Come tale il cristianesimo non la potrà accettare e proprio in virtù di quei principi che Paolo stesso fornisce: l’«in Cristo» dovrà infatti penetrare tutta la realtà umana e la liberazione donata all’uomo dovrà estendersi a ogni relazione, istituzione, fatto di questo mondo (Rm 8,16-25; 2Cor 5,14-21).
 
Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene, lui, che un giorno ti fu inutile, ma che ora è utile a te e a me. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore - Settimio Cipriani (Le lettere di Paolo): versetti 13-16 Per rendere più accetto a Filemone il servo fuggitivo, Paolo ne esalta i meriti acquisiti nel «servizio» prestato a lui stesso nella prigionia. Tanto che avrebbe desiderato «trattenerlo» presso di sé (v. 13); ma non ha voluto far trovare Filemone di fronte al fatto compiuto. Il bene deve essere sempre «spontaneo» (v. 14).
Che anzi la stessa fuga, più che un male, Filemone dovrà considerarla come una provvida benevolenza divina: per la fede, infatti, il servo fuggitivo gli ritornerà non più come schiavo ma come «fratello», carissimo perciò a un duplice titolo (v. 17): «nella carne» (per i legami della servitù) «e nel Signore» (come cristiano). La «separazione» è stata solo di breve durata (v. 15).
Anche senza dirlo esplicitamente, è chiaro che Paolo suggerisce con grande delicatezza la «liberazione» dello schiavo: al v. 21, come vedremo, si augura che Filemone faccia «anche più» di quanto gli richiede.
Comunque, anche se non arriverà a questo (cfr. 1Cor. 7,20-24), è certo che ormai i rapporti fra padrone e servo saranno radicalmente cambiati, perché quest’ ultimo dovrà essere considerato come un «fratello carissimo» (v. 16). Proprio per questo senso profondo di umanità e per il cortese invito ad abolire lo stesso stato di schiavitù, non reggono, al confronto della nostra, due simpaticissime lettere di Plinio il Giovane all’amico Sabiniano per esortarlo a trattar bene un suo liberto fuggito a sua insaputa; la seconda, più propriamente, è un ringraziamento per il perdono accordato al fuggitivo (Lettere, IX, 21 e 24).
Dopo i convenevoli, ecco come Plinio si esprime nella prima lettera: «Tu sei in collera, e in collera con ragione: anche questo lo so. Ma la dolcezza è meritoria soprattutto quando si hanno giusti motivi di collera. Tu hai amato quest’uomo e, spero, lo ami ancora; ora basta che ti lasci commuovere. Potrai anche rimetterti in collera se egli lo meriterà, perché dopo il tuo perdono essa sarà scusabile. Frattanto accorda qualcosa alla sua giovinezza, qualcosa alle sue lacrime, qualcosa alla tua bontà naturale. Cessa di tormentarlo, anzi di tormentare te stesso; poiché la collera è un vero tormento per te che sei così dolce».
Anche se molto nobili, queste espressioni non raggiungono l’altezza di quelle dell’Apostolo: «Perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo ma … quale fratello carissimo» (vv. 15-16).
 
Gesù verrà nella gloria come un lampo guizzante - Cirillo di Alessandria, Commento a Luca, omelia 117: Alla fine del mondo egli non scenderà dai cieli in modo oscuro (cf. 1Tm 6,16). Egli ha affermato che la sua venuta sarà come quella di un lampo guizzante.
Era infatti nato nella carne di una donna per portare a compimento la Legge a nostro vantaggio. Per questo motivo si è svuotato, si è reso povero, e non si è più mostrato nella gloria della natura divina (cf. Fil 2, 7). Il momento e la necessità della Legge lo hanno portato a questa umiliazione. Dopo la sua risurrezione dai morti, l’ascensione al cielo, l’insediamento sul trono con Dio Padre, egli scenderà nuovamente. Non scenderà vestendo la propria gloria a nella miseria della natura umana. Nella maestà del Padre con le compagnie degli angeli intorno a sé, si porrà di fronte a lui come Dio e il Signore di tutti. Giungerà come lampo guizzante, non in modo oscuro.
 
Il Santo del Giorno - 14 Novembre 2024 - Sant’Ipazio di Gangra. Fedele alla verità sempre misericordiosa: La verità per i cristiani è sempre compagna della misericordia, così, anche se l’errore viene condannato senza sconti, chi compie l’errore non può non trovare il perdono di cui ha bisogno per recuperare la speranza.
Nel IV secolo, quando visse sant’Ipazio di Gangra, vescovo e martire, erano diffuse alcune eresie, come quella sostenuta dei novaziani, seguaci dell’antipapa Novaziano, i quali non volevano riammettere nella comunità i cristiani “lapsi” che durante la persecuzione avevano ceduto all’idolatria. Ipazio, invece, difese il volto misericordioso della Chiesa, capace di accogliere chi aveva sbagliato. Della biografia di Ipazio, in realtà, si sa poco: nato in Cilicia, fu vescovo di Gangra (oggi Cankiri, in Turchia), succedendo ad Atanasio, e secondo i Sinassari bizantini partecipò al Concilio di Nicea del 325, oltre che a quello di Gangra del 340. Il Martirologio romano racconta che egli fu ucciso per strada (secondo la tradizione in una gola nei pressi di Luziana), lapidato dai novaziani, che rifiutavano la possibilità del perdono per chi aveva abiurato.
 
Nutriti dei tuoi santi doni ti rendiamo grazie, o Signore,
e imploriamo la tua misericordia:
per il tuo Spirito, comunicato a noi in questi sacramenti,
ci sia data la grazia di rimanere fedeli nel tuo servizio.
Per Cristo nostro Signore.