1 Giugno 2024
 
San Giustino, Martire
 
Gd 17,20-25 ; Salmo Responsoriale dal Salmo 62 (63); Mc 11, 27-33
 
Colletta
O Dio, che attraverso la stoltezza della croce
hai donato al santo martire Giustino
la sublime conoscenza di Gesù Cristo,
concedi a noi, per sua intercessione,
di respingere gli inganni dell’errore
per conseguire fermezza nella fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
San Giustino, Martire - Benedetto XVI (Udienza Generale 21 Marzo 2007): Nel complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per questo di «empietà» e di «ateismo». In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia, condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui come diabolici «depistaggi» nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione pagana e ai suoi falsi miti. «La nostra filosofia...»: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il Vescovo Melitone di Sardi (citato in Eusebio, Storia Eccl. 4,26,7).
Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione – ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini – dalla verità dell’essere. Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit – Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (La velazione delle vergini 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo».
In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione – come pure nel dialogo interreligioso –, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo – e così concludo – le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: «Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire» (Dial. 7,3).
 
I Lettura: Giuda, all’inizio di questa lettera, si dichiara costretto a scriverla per esortare tutti i cristiani alla fedeltà. Nella comunità, infatti, si sono infiltrati alcuni individui empi che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo. A fronte di tutto questo, i cristiani dovranno ordinare la propria vita secondo la verità del Vangelo, l’amore salvifico di Dio Padre, la misericordia di Gesù Cristo. La brevissima lettera può essere divisa in quattro parti: 1. Indirizzo, saluto e scopo della lettera (1-4), 2. contro i falsi maestri, sobillatori pieni di acredine, che agiscono secondo le loro passioni (5-16), 3. esortazioni ai credenti (17-23), 4. Preghiera di lode a Dio (24-25). Il testo odierno comprende la terza e la quarta parte. I credenti, oltre a costruire il loro edificio sopra la loro santissima fede, devono esercitare in sommo grado la carità convincendo quelli che sono vacillanti, e salvando chi è già sul punto di precipitare nel fuoco. Infine siano perseveranti nella preghiera, nella lode all’unico Dio per mezzo di Gesù Cristo.
 
Vangelo
Con quale autorità fai queste cose?
 
Con quale autorità fai queste cose?: se nel contesto la domanda dei capi dei sacerdoti si riferisce all’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme e alla cacciata dei mercanti dal Tempio, possiamo pensare che voglia abbracciare anche tutto il suo ministero pubblico. Gesù, come ha già fatto tante altre volte, risponde con una contro domanda, ponendo così i suoi avversari in difficoltà: Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi. Incapaci, per malizia e per paura della folla, di esprimere una decisione autorevole circa il battesimo di Giovanni, gli scribi e gli anziani preferiscono tacere. Dinanzi a tanta ipocrisia Gesù replica con forza e dice loro: Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose. Il cuore del racconto marciano è in questa solenne affermazione di Gesù; è una tacita rivendicazione di possedere un’autorità messianica concessagli da Dio. Le autorità religiose, per la loro caparbia ostinazione, ancor una volta hanno sciupato l’occasione di conoscere la Verità, accoglierla e custodirla nel loro cuore.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 11, 27-33
 
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli andarono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose?
O chi ti ha dato l’autorità di farle?».
Ma Gesù disse loro: «Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi».
Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: “Dal cielo”, risponderà: “Perché allora non gli avete creduto?”.
Diciamo dunque: “Dagli uomini”?». Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta. Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo».
E Gesù disse loro: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose».
 
Parola del Signore.
 
Il problema dell’autorità di Gesù - Jacques Hervieux (Vangelo di Marco): È la terza volta che Gesù entra a Gerusalemme e penetra nel recinto del tempio (11,11.15): egli ha fatto del luogo sacro il centro del suo insegnamento (1.1,17). E lì che affronterà i rappresentanti del giudaismo in una serie di tre dispute che costituiscono la replica di quelle avvenute in Galilea all’inizio della sua missione (da 2,1 a 3,6). Al di là del quadro specifico in cui queste dispute si svolgono, si ha davvero l’impressione che Gesù subisca in questo modo un interrogatorio in piena regola: il suo processo è già incominciato prima del tempo.
Gli argomenti delle dispute ora iniziate sono questi: l’autorità di Gesù (11,27-33); il tributo da pagare a Cesare (12,13-17); la risurrezione dei morti (12,18-27): per il momento, il «caso» del tempio è ancora troppo scottante (11,15-17). La domanda dei capi dei sacerdoti degli scribi è di evidente attualità: «Con quale autorità fai queste cose?» (v. 28). Non a caso si tratta di membri del sinedrio, l’alta corte di giustizia, che pongono a Gesù questa domanda: con quale diritto è intervenuto nello svolgimento del culto? L’interrogativo è tanto più insidioso in quando costoro non ignorano che essi sono gli unici a proporsi come maestri in questo specifico campo e si ritengono depositari di un potere che proviene da Dio. Gesù non risponde direttamente alla loro domanda, ma ne oppone loro una preliminare (v. 29), assai accorta, che pone i suoi interlocutori di fronte a una scelta difficile: se essi dichiarano che Giovanni Battista e la sua missione venivano «dal cielo», cioè da Dio, dovrebbero ammettere anche l’origine divina dell’autorità del messia (vv. 30-31); se pensano che l’opera di Giovanni è esclusivamente umana, si trovano in contrasto con l’opinione pubblica che la considera profetica (v. 32).
Marco evidenzia il timore delle autorità giudaiche: decisi alla rovina di Gesù, costoro hanno paura, senza con­fessarlo, dell’enorme popolarità di cui egli gode, proprio come Giovanni Battista (11,18; 12,12). La loro risposta perplessa alla sfida di Gesù («Non lo sappiamo!») è chiaramente un battere in ritirata (v. 33a). Gesù ne trae la conseguenza: egli non rivelerà il segreto della sua autorità (v. 33b).
 
Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi - Vincent Taylor (Marco): La domanda di Gesù non riguarda tanto il battesimo di Giovanni come tale, ma tutto il ministero del Battista e la sua persona: cfr. Atti 1, 22; 18, 25. Bultmann sostiene che l’apoftegma palestinese originale terminava con queto versetto; ma si tratta di posizione gratuita, come quella che vi vede una formazione della comunità. Così Lohmeyer, 243, il quale osserva che non ci sono altre situazioni della comunità primitiva in cui la «autorità» di Gesù sia stata fondata sul battesimo di Giovanni.
vv. 31-33. Gesù percepisce il dilemma dei sacerdoti. Se essi riconoscono che l’autorità di Giovanni è divina, possono essere accusati di incredulità nei suoi confronti; più ancora: sarebbero anche costretti ad ammettere che pure l’autorità di Gesù proviene da Dio.
La seconda proposizione condizionale, al v. 32, s’interrompe d’improvviso, dato che l’apodosi viene sostituita dall’affermazione che essi avevano paura della folla. Tutti consideravano Giovanni come un profeta, e quindi ispirato dallo Spirito Santo. Per echein nel senso di «considerare» cfr. Lc. 14, 18; Fil. 2, 19. Blass lo ritiene un latinismo: ma la costruzione si trova anche nei papiri.
Alcuni leggono ontàs come qualifica di eichon, e traducono: «pensavano seriamente»; ma - con la maggior parte dei MSS - è meglio leggerlo con én: «pensavano che fosse veramente un profeta».
Il v. 33 riprende la domanda del v. 30. Incapaci di dare una risposta, i sacerdoti dicono che essi non sanno, e Gesù, riferendosi alla loro risposta negativa, dice: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose». Ma in realtà Gesù l’ha già detto con la sua contro-domanda, ed essi non possono avere avuto dubbi a riguardo della sua velata rivendicazione.
Matteo Luca apportano al testo di Marco diverse variazioni stilistiche.
 
I farisei - Alice Baum: Il Nuovo Testamento dipinge i farisei come i veri e propri avversari di Gesù; va però considerato, d’altro canto, che Gesù ha molto in comune con i farisei, che egli prende sul serio la loro religiosità e perfino nelle dispute si preoccupa di loro. Il conflitto nasce da una differente posizione nei confronti della Legge. Per Gesù (e per il cristianesimo primitivo - Paolo) la Torah non poteva essere considerata una necessità assoluta per la salvezza. Non la “tradizione dei padri” ma Gesù era l’interprete autentico della volontà assoluta di Dio. Di qui la sua libertà sovrana di fronte alla Legge, cosa che per la credenza dei farisei nell’origine divina della Torah non era possibile imitare. La seconda causa del conflitto era la distanza dei farisei da tutte le attese messianico-escatologiche imminenti, cosicché la pretesa messianica che Gesù avanzava con la parola e l’azione era per loro inaccettabile. Certo, nella concezione della Legge dei farisei c’era il pericolo di una religiosità esteriorizzata, e non di rado vi ci sono caduti. I rimproveri che il Nuovo Testamento solleva contro di loro si trovano anche negli scritti rabbinici.
Tuttavia dedurre dalla radicalizzazione e dalla polemica inasprita del Nuovo Testamento che i farisei fossero tutti indistintamente degli ipocriti e il fariseismo soltanto un adempimento esteriore della Legge, contraddice i dati di fatto storici. Diversamente non avrebbe potuto dar vita alle grandi figure del periodo post-biblico e vitalizzare con una nuova linfa il giudaismo successivo al 70 d.C. e al 135 d.C.
 
Alberto Magno (In ev. Marc. XI): Con quale potere compi questi segni?: sapevano infatti che il suo potere non era umano, ma non volevano credere che fosse divino. Chiedono quindi qual è l’origine di quel potere. Forse cioè il suo potere è come quello dei santi, che fecero miracoli per mezzo dell’intercessione di Dio. O forse è diabolico? E se è come quello dei santi essi volevano sminuirlo, e che Egli riconoscesse che non era Figlio di Dio. E il dirlo costituiva una bestemmia.
 
Il Santo del Giorno - San Giustino. Dal pensiero degli antichi al Risorto, un percorso oltre ogni inquietudine - Inquietudine: ecco cosa ci muove giorno dopo giorno, la sensazione di essere precari, di essere alla ricerca di un senso profondo che sentiamo sfuggirci. E anche quando tocchiamo con la punta delle dita i frammenti di qualcosa che pensiamo possa soddisfare la nostra sete d’Infinito, questi subito si dileguano. È così da sempre, e da sempre i pensatori hanno cercato una strada per riempire questa mancanza, calmare l’inquieto dentro di noi. E così, seguendo le briciole di questo itinerario attraverso il pensiero degli antichi, san Giustino giunse a cogliere nel Risorto l’unica vera fonte in grado di dare un senso all’umano esistere. Nato in una famiglia di origine latina a Flavia Neapolis (oggi Nablus), Giustino si era messo alla ricerca della verità presso diverse scuole filosofiche. Alla fine gli parve di averla trovata nel pensiero platonico, ma poi fu attratto dall’eredità dei Profeti di Israele, giungendo, infine, a conoscere la testimonianza dei cristiani. Comprese quindi che Dio era molto di più di quello che cercavano di definire i pensatori greci. A Efeso, attorno al 130, si fece battezzare e si mise all’opera per conciliare i suoi studi fiolosofici con il Vangelo. Viaggiò molto, ma a Roma, a causa del suo impegno apologetico a favore dei cristiani, venne accusato di essere ateo e condannato a morte: venne decapitato assieme ad alcuni suoi discepoli tra il 163 e il 167, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio. (Matteo Liut)
 
Nutriti dal pane del cielo, ti supplichiamo, o Signore:
concedi a noi di essere docili
agli insegnamenti del santo martire Giustino
e di vivere in perenne rendimento di grazie per i doni ricevuti.
Per Cristo nostro Signore
 


 31 MAGGIO 2024
 
Visitazione Beata Vergine Maria
 
Sof 3,14-18 oppure Rm 12,9-16b; Salmo Responsoriale da Is 12,2-6; Lc 1,39-56
 
La Bibbia e i Padri della Chiesa (I Padri Vivi): Maria si reca dalla sua parente Elisabetta, questo l’avvenimento della storia della salvezza che commemora oggi la Chiesa. Maria saluta Elisabetta, che esclama con gioia: «Benedetta tu fra le donne. A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (Lc 1,42). Maria è stata chiamata benedetta perché aveva creduto nelle parole del Signore: la Madre del Messia è la Madre della fede. L’incontro di Maria e di Elisabetta diviene l’incontro di Giovanni e di Gesù.
Sono di fronte il tempo dell’Antica Alleanza ed il prossimo tempo della Nuova Alleanza; l’attesa sta per finire, inizia la nuova era. Maria canta l’inno di esultanza «Magnificat» - l’anima mia magnifica il Signore -, pieno della sapienza dell’Antica Alleanza, ma rianimato già dallo spirito della Nuova che sta per arrivare. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente - esclama Maria - e la consapevolezza della misura della grazia conduce all’umiltà del cuore. Maria rappresenta in questo momento tutti i «timorosi di Dio» in Israele, tutto «il resto d’Israele», che conformemente alle predizioni dei profeti accoglierà le promesse di Dio.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata: le parole profetiche di Maria si sono adempiute. Benedicono Maria tutte le generazioni per la sua fede e per il suo «avvenga di me secondo la tua parola», per lo spirito di servizio e per la sottomissione alle ispirazioni di Dio.
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
tu hai ispirato alla beata Vergine Maria,
che portava in grembo il tuo Figlio,
di visitare sant’ Elisabetta:
concedi a noi di essere docili all’azione dello Spirito,
per magnificare sempre con Maria il tuo santo nome.
Per il nostro Signore Gesù Cristo. .
 
Il canto del Magnificat Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione 97: Beata colei che ha creduto (Lc 1, 45). Al saluto di Elisabetta, la Madre di Dio risponde lasciando effondere il suo cuore nel canto del Magnificat. Ella ci insegna che è mediante la fede e nella fede che, sul suo esempio, il popolo di Dio diventa capace di esprimere in parole e di tradurre nella sua vita il mistero del disegno della salvezza e le sue dimensioni liberatrici sul piano dell’esistenza individuale e sociale. In realtà, solo alla luce della fede si percepisce come la storia della salvezza sia la storia della liberazione dal male nella sua espressione più radicale e l’introduzione dell’umanità nella vera libertà dei figli di Dio. Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l’icona più perfetta della libertà e della liberazione dell’umanità e del cosmo. È a lei che la Chiesa, di cui ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza.
È veramente da rilevare che il senso della fede dei poveri, come porta ad un’acuta percezione del mistero della croce redentrice, così porta a un amore e a una fiducia indefettibile nella Madre del Figlio di Dio, venerata in numerosi santuari.
 
I Lettura (Sof 3,14-17): Il popolo di Dio, figurato nella figlia di Sion, esulti e canti di gioia per i nuovi prodigi che il Signore Dio, salvatore potente, sta per operare a sua salvezza. Il Signore Dio, come un forte guerriero, disperderà i nemici d’Israele e porrà la sua dimora in mezzo ad esso. Dopo che avrà rinnovato il suo popolo con l’amore, il Signore Dio gioirà per esso ed esulterà con grida di gioia.

oppure

Settimio Cipriani (Le Lettere di Paolo): Si raccomanda la «carità» soprattutto verso i fratelli (v. 10) sottolineandone anche le più delicate sfumature: carità «sincera», «affettuosa», sollecita», «fervente», «perdonante», «ospitale», che «previene» perfino nei segni di stima e di «onore» e ci fa partecipare alle gioie o ai dolori degli altri come se fossero nostri: «Gioite con chi gioisce, piangere con chi piange!» (v. 5). Le grandi «aspirazioni» poi avvelenano la carità e ci fanno ingiusti verso i fratelli: «Lasciatevi invece attirare dalle cose umili» (v. 16). Indispensabile alimento della carità sono la «speranza», sempre gioiosa, dei beni futuri, la «pazienza» e lo spirito di «preghiera» (v.12).

Vangelo
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente: ha innalzato gli umili.
 
Maria non è una donna incredula al pari di Zaccaria. Va a trovare Elisabetta non per sincerarsi delle parole e della profezia dell’angelo, ma perché sospinta dalla carità e dal fuoco ardente dello zelo missionario: per mezzo di Maria, la Buona Novella, Gesù, mette le ali e già attraversa le vie della storia. Maria, pur consapevole della sua bassezza, sospinta dallo Spirito Santo, non può non esclamare la grandezza misericordiosa di Dio che guardando la sua umiltà ancora una volta persegue e conferma il suo eterno agire: scegliere le cose umili per confondere i sapienti (1Cor 1,27-28).
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,39-56
 
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Parola del Signore.
 
Si mise in viaggio - Maria si mette in viaggio verso la montagna e raggiunge una città di Giuda, oggi preferibilmente identificata con Ain-Karim, 6 Km a ovest di Gerusalemme. La fretta con la quale Maria si avvia a trovare Elisabetta, l’anziana sposa di Zaccaria miracolosamente rimasta incinta (Lc 1,5-25), mette in evidenza la sua pronta disponibilità al progetto di Dio. Entrata in casa, il saluto della Vergine raggiunge per vie misteriose il bambino che sussulta nel grembo della madre la quale, «piena di Spirito Santo», saluta con parole profetiche la Madre del Signore.
Con un’espressione semitica che equivale a un superlativo, Elisabetta proclama Maria «benedetta fra le donne»; la Vergine è benedetta «per la presenza di un frutto benedetto [eulogémenos] nel suo seno: benedetta dunque perché madre del Benedetto, perché madre del suo Signore [vv. 42-43;]; la proclama, ancora, beata [makaria] per la fede con la quale ha reagito alla proposta divina: beata dunque perché fedele, perché uditrice della parola del Signore [v. 45]» (Carlo Ghidelli).
Il saluto dell’angelo, - «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28) - e il saluto dell’anziana donna, - «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno» - (Lc 1,42), fusi insieme, saranno ripetuti nei secoli da milioni di credenti: l’Ave Maria è «una delle preghiere più belle e profonde, nella quale Elisabetta, e quindi l’Antico Testamento, si collega con Maria, cioè col Nuovo Testamento» (Richard Gutzwiller).
Il racconto della visitazione ricorda, con evidenti allusioni e coincidenze, il racconto biblico del trasferimento dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme operato dal re Davide (2Sam 6,1 ss).
L’arca sale verso Gerusalemme, Maria sale verso la montagna. L’arca entra nella casa di Obed- Edom e Maria entra nella casa di Zaccaria. La gioia del nascituro e il suo trasalimento nel grembo dell’anziana madre ricordano la gioia di Davide e la sua danza festosa dinanzi all’arca. L’espressa indegnità di Elisabetta dinanzi alla Madre del Signore ricorda ancora l’indegnità del re David di fronte all’arca del Signore. Questi accostamenti, molto precisi nei particolari, ben difficilmente possono essere accidentali.
L’identificazione dei due racconti va allora verso una chiara proclamazione: Maria, la Madre del Signore, è la nuova arca del Signore, e suo figlio, Gesù, è il Signore abitante in quel tempio vivo.
L’anziana sposa di Zaccaria nel proclamare senza indugi Maria «la Madre del Signore» non fa che raccogliere e ripetere le parole del nunzio celeste.
Nella tradizione biblica il Signore è Iahvé, ma anche il grande sovrano (1Cr 29,11; 2Mac 5,20; Sal 48,3), il re (Sir 51,1; Sal 99,4). L’angelo aveva annunciato a Maria che il promesso figlio sarebbe stato chiamato «Figlio dell’Altissimo» (Lc 1,31) e avrebbe regnato per sempre «sul trono di Davide suo padre» (Lc 1,32-33): nel suo annuncio profetico, Elisabetta non fa che ricordare e confermare le parole del messaggero celeste.
Alla fine, sulle labbra di Elisabetta si coglie un’ultima parola di lode che viene rivolta con gioia alla Vergine di Nazaret: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Maria è beata perché «madre del Signore», ed è beata perché perfetta discepola: Ella ha accolto nel suo cuore, prima che nel suo grembo, la Parola viva feconda di vita e di salvezza.
Anche il cantico della Vergine ha un riscontro nell’Antico Testamento (cfr. 1Sam l-10). Ma sulle labbra di Maria il Magnificat ha risonanze e significati molto più profondi. La Vergine non risponde ad Elisabetta, ma si rivolge a Dio lodandolo per la sua misericordiosa accondiscendenza. Egli «mi ha guardato - dice Maria - perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento... così come lo stesso Salvatore, che ha detto: Imparate da Me che sono mite e umile di cuore e troverete pace per le vostre anime» (Origene).
 
Un segno dato a Maria - Adriana Zarri (Visitazione in Schede Bibliche Pastorali - Vol VIII): Gli esegeti vedono nella visita di Maria a Elisabetta (Lc 1,39-55) l’episodio che conclude e completa i racconti delle annunciazioni nel Vangelo dell’infanzia. Le due madri si incontrano e commentano gli avvenimenti di quei giorni, riferiti dall’evangelista Luca. I discorsi e gli atteggiamenti delle due donne gettano una nuova luce su Maria, completando in modo essenziale quanto gli altri episodi dicono di lei.
Le ragioni del viaggio di Maria sono comunemente indicate nel suo desiderio di vedere la parente e di esserle di aiuto nel periodo della gravidanza. Gli esegeti moderni, però, ritengono che per l’evangelista i motivi siano più profondi. Maria si mette in viaggio «in tutta fretta» non tanto per correre in aiuto di Elisabetta (che con tutta probabilità aveva altri parenti e aiutanti), quanto per comunicare con lei, per confermare se stessa e la parente nella fede e nella gioiosa intelligenza dei misteri di cui erano favorite.
Possiamo quindi vedere nell’episodio della visitazione un segno, dato a Maria, a conferma della realtà dell’apparizione angelica e dei fatti verificatisi in lei, fatti tanto grandi e sorprendenti per una giovane donna senza importanza e senza particolari titoli umani.
Si capisce così la «fretta» di Maria, un particolare che l’evangelista sente il bisogno di riferire, considerandolo evidentemente ben più di una semplice notizia di cronaca.
Si capisce inoltre come Maria, silenziosa e riservata sinora, esploda dopo l’incontro con Elisabetta in un canto di gioia e di ringraziamento.
«Il cammino di Maria verso la casa di Elisabetta è il cammino della fede in cerca dei suoi necessari appoggi umani» (Ortensio da Spinetoli). L’annunzio del parto miracoloso di Elisabetta, infatti, appare come una riprova degli eventi paradossali comunicati dall’angelo, una conferma della potenza divina, per la quale «nessuna cosa è impossibile» .
Dunque, «è Maria che ha bisogno di Elisabetta e non viceversa» (Ortensio da Spinetoli). Del resto, il «segno di Elisabetta» non è la causa della fede di Maria - essa ha già creduto, accettando unicamente sulla base dell’autorità di Dio il messaggio che le è stato rivelato -; quel segno, però, attesta alla Vergine la realtà di quella rivelazione e, in ultima analisi, di Dio rivelante.
 
Il canto dei poveri - Rosanna Virgili (Vangelo secondo Luca): Forse nessuno è riuscito a cantare e inaugurare le speranze dei poveri come chi ha composto il Magnificat. Un concerto di forza, di meraviglia, di fede e di visione, di speranza e di perfetta carità che Luca mette sulla bocca di Maria. Una parola che arriva direttamente all’orecchio di Gesù e sembra dargli suggerimento per il primo discorso della sua vita pubblica, nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, ad annunciare ai prigionieri la libertà e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4,18). «Beati voi, poveri» è la prima beatitudine che Gesù pronuncerà (cf Lc 6,20). Gesù impara da sua madre. Lei imprime codice genetico, il carattere essenziale alla fede cristiana: la buona novella ai «servi», agli umili, agli affamati.
Una fede «diacona» che annuncia ai «diaconi» l’amore di un Dio «diacono». Rovesciando, così, dai troni i potenti, cioè tutti coloro che pretendono di togliere a chi serve la signoria sulla terra, sulla vita e perfino sulle cose di Dio. «Ti magnifica, Signore, l’anima mia, perché hai avuto misericordia di Israele e l’hai soccorso. Hai rovesciato coloro che lo privavano della sua libertà dinanzi a te, di coloro che usurpavano un potere non consentito: quello di farsi padroni della sua fede. Oggi, Signore. gli affamati possono nutrirsi di te, gli umili possono venire fino a te, i figli di Abramo possono godere della tua promessa». Questa donna di Galilea viene ad annunciare una comunità cristiana che, un domani, dirà per bocca di Paolo: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede, siamo invece i collaboratori della vostra gioia» (2Cor 1,24).
 
Antipatro di Bostra (De S. Ioanne, 12): Dopo aver ascoltato queste cose, la Vergine si recò, alla casetta di Zaccaria, e trovata Elisabetta incinta, la salutò, e il bambino all’interno rispose. Per le orecchie della madre il saluto pervenne a quelle del feto, e poiché per i limiti di natura Giovanni non poteva usare la lingua, parlò in modo che la propria madre attraverso i suoi salti rispondesse con proprie parole alla madre del Salvatore. Infatti Elisabetta non potendo più trattenere il sussultare del figlio, ripiena di Spirito Santo, esclamò dicendo: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del ventre tuo”! (Lc 1,42). Tu, disse, benedetta che dissolvi la maledizione. Tu benedetta, che rechi il dono della sapienza. Tu benedetta, che porti nell’utero colui che ha passeggiato nel paradiso. Tu benedetta, il cui ventre è divenuto tempio santo. “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del ventre tuo!”, dal quale sarà vinto il nemico, dal tempo in cui Adamo mangiò. Frutto benedetto, che è divenuto alimento e vestito del mondo».
 
Il Santo del Giorno - 31 Maggio 2024 - San Vitale d’Assisi, Eremita: San Vitale, monaco ed eremita, nacque a Bastia Umbra nel 1295, dopo aver trascorso la giovinezza compiendo orrendi peccati, pentitosi, cercò di espiare le colpe commesse recandosi in pellegrinaggio nei più importanti santuari italiani ed europei. Ritornato in Umbria, vestì l’abito benedettino e condusse un’esperienza di vita eremitica. Trascorse il resto della sua esistenza nell’eremo di Santa Maria di Viole, presso Assisi, nella più assoluta povertà, coprendosi di stracci, a piedi nudi e lasciando incolta la chioma; unico suo bene era un canestro usato per andare a prendere l’acqua in una vicina fonte. Morì il 31 maggio 1370. La fama della sua santità si sparse presto dappertutto e a causa dei numerosi prodigi compiuti a favore di quanti erano affetti da patologie ai genitali e alla vescica, divenne il protettore di questi ammalati. (Autore: Elisabetta Nardi)
 
Ti magnifichi, o Dio, la tua Chiesa,
perché hai fatto grandi cose per i tuoi fedeli,
e con gioia riconosca sempre vivo in questo sacramento
colui che fece sussultare san Giovanni nel grembo della madre.
Per Cristo nostro Signore.
 

 30 MAGGIO 2024

 Giovedì della VIII Settimana T. O.
 
1Pt 2,2-5.9-12; Salmo Responsoriale dal 99 (100); Mc 10,46-52
 
Colletta
Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo
si svolga secondo la tua volontà di pace
e la Chiesa si dedichi con gioiosa fiducia al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
  
Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! - Catechismo della Chiesa Cattolica 2616: La preghiera a Gesù è già esaudita da lui durante il suo ministero, mediante segni che anticipano la potenza della sua Morte e della sua Risurrezione: Gesù esaudisce la preghiera di fede, espressa a parole, oppure in silenzio. La supplica accorata dei ciechi: “Figlio di Davide, abbi pietà di noi” (Mt 9,27) o “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10,47) è stata ripresa nella tradizione della Preghiera a Gesù: “Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di me peccatore!”. Si tratti di guarire le malattie o di rimettere i peccati, alla preghiera che implora con fede Gesù risponde sempre: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato!”. Sant’Agostino riassume in modo mirabile le tre dimensioni della preghiera di Gesù: “Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in lui la nostra voce, e in noi la sua voce”
 
I Lettura: San Pietro tratteggia con parole efficaci la dignità sacerdotale di tutti i cristiani. Possiamo così riassumere i rapporti dei cristiani sacerdoti con Cristo sacerdote: «Cristo fu sacerdote in croce per l’umanità e tutti i cristiani devono portare la propria croce per i fratelli [Mt 20,22; 26,39]. Tutti devono divenire come Cristo “sacrificio e oblazione” [Fil 2,17] mediante la fede e offrire se stessi come ostia vivente, santa e gradita a Dio [Rom 12,1]. Ma tutti sono sacerdoti anche perché capaci di un ministero liturgico nella partecipazione attiva al sacrificio eucaristico, ai sacramenti, alla preghiera liturgica» (Vincenzo Raffa).
 
Vangelo
Rabbunì, che io veda di nuovo!
 
Con l’episodio della guarigione di Bartimèo si conclude la sezione dedicata alla sequela di Gesù. La guarigione del figlio di Timeo segna anche una svolta: Gesù non cerca più di mantenere il segreto della sua identità. Accetta di essere chiamato Figlio di Davide e in seguito all’ingresso in Gerusalemme si designerà apertamente come il Messia. Gesù è detto anche Nazareno ed è chiamato con il titolo di Rabbunì. Il primo - Nazarenos - figura solo in Marco, mentre il secondo titolo è l’equivalente aramaico dell’ebraico rabbi. È usato solo qui e in Gv 20,16. Il significato potrebbe essere “mio Maestro” o “Maestro” (cfr. Gv 20,16). La sequela del cieco Bartimèo diventa il prototipo di ogni discepolato: solo la luce della grazia riesce a far sentire all’uomo la presenza di Gesù. Solo il Dio salvatore dell’uomo e la grazia muovono l’uomo a invocare l’intervento liberatore di Dio, l’uomo, a tanta condiscendenza divina, può rispondere all’amore salvifico di Dio solo con la fede.
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 10,46-52
 
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Parola del Signore.
 
Silenzio profetico, non diplomatico - Felipe F. Ramos (Vangelo secondo Marco in Commento della Bibbia Liturgica): Non possiamo dimenticare che l’evangelista Marco inquadra questi fatti - fra gli altri, la guarigione del cieco Bartimeo - nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, la città che, nel pensiero del secondo evangelista, non era solo una nozione geografica, ma anche un concetto teologico. È la città santa, la capitale d’Israele, nella quale hanno il loro domicilio i capi del popolo. Sullo sfondo, si sente la tensione della comunità di Cesarea rispetto a quella di Gerusalemme, nella ricerca ingenua d’un accordo col vertice israelita.
Gesù è presentato come un coraggioso profeta, cosciente della sorte che gli è riservata nella città santa; e per questo cammina precedendo gli altri. Il gruppo dei suoi ascoltatori, non conoscendo la situazione, si mostra sorpreso. Tuttavia i discepoli, «quelli che lo seguivano», quelli che erano coscienti dei sentimenti di Gesù, «avevano timore». Gesù si esprime con maggior chiarezza, annunziando senza misteri la sua prossima passione, morte e risurrezione.
Subito dopo aver fatto un altro annunzio della passione, l’evangelista intende chiarire ancora una volta che cosa si intenda per fede e che cosa comporti seguire Gesù.
Il caso del cieco è esemplare: un uomo che prega con perseveranza, che invoca Gesù a dispetto delle difficoltà, è incoraggiato e va incontro a Gesù; è da lui interrogato, gli sono aperti gli occhi ed egli lo segue nel suo viaggio.
Solo con quest’animo è possibile comprendere e seguire la via del Figlio dell’uomo verso la sofferenza. L’evangelista osserva che Bartimeo chiama Gesù «Figlio di Davide» e che «molti lo sgridavano per farlo tacere».
La presenza d’uno straccione avrebbe potuto rovinare l’ingresso trionfale del. Figlio di Davide. Come vediamo, la tentazione del trionfalismo perseguita la chiesa «ab utero»: oseremmo dire che le è consostanziale. Per questo, l’insistenza profetica su quest’argomento non può essere frutto di ossessione, ma d’una semplice lettura dei testi fondamentali della nostra fede cristiana.
Il grande nemico della Chiesa è sempre quella componente umana che ama il potere terreno e tende a quell’aggancio pacifico che soffoca la sua essenza profetica.
 
La tua fede ti ha salvato - La fede, che Gesù richiede fin dall’inizio del suo ministero (cf. Mc 1,15) e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede.
Un movimento di fiducia e di abbandono necessario per ottenere innanzi tutto la salvezza: «Credere in Gesù Cristo e in colui che l’ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati [Mc 16,16; Gv 3,36; Gv 6,40]. “Poiché senza la fede è impossibile essere graditi a Dio” [Eb 11,6] e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non “persevererà in essa sino alla fine” (Mt 10,22; Mt 24,13)”» (Catechismo della Chiesa Cattolica 161).
Da qui la necessità di perseverare nella fede: «La fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito, mette in guardia Timoteo: combatti «la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede» (1Tm 1,18-19). Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; [cf. Mc 9,24; Lc 17,5; Lc 22,32] essa deve operare “per mezzo della carità” [Gal 5,6; cf. Gc 2,14-26] essere sostenuta dalla speranza [cf. Rom 15,13] ed essere radicata nella fede della Chiesa» (Catechismo della Chiesa Cattolica 162).
Se la fede è dono di Dio significa forse che Dio lascia qualcuno da parte? Questo è impossibile, perché Dio vuole che «tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità« (1Tm 2,4). E nel vangelo di Giovanni leggiamo questa parola di speranza proferita da Gesù: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,31).
L’affermazione la fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente quindi non deve trarre in inganno: se la fede è una grazia, cioè «una virtù soprannaturale da Dio infusa» (Catechismo della Chiesa Cattolica 153), è anche un atto umano: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse [come, per esempio, quando un uomo e una donna si sposano], per entrare così in reciproca comunione. Conseguentemente, ancor meno è contrario alla nostra dignità “prestare, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà a Dio quando si rivela” [Concilio Vaticano I: Denz.-Schönm., 3008] ed entrare in tal modo in intima comunione con lui» (Catechismo della Chiesa Cattolica 154).
Tra grazia e atto umano v’è l’ampio spazio della responsabilità dei credenti di fronte alle nuove forme religiose inequivocabilmente aggressive. Se lo scenario sembra avvicinarsi al catastrofico non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa ci insegna che con esse è necessario confrontarsi proprio sul piano culturale, dottrinale, teologico. Ma senza indulgere a falsi ecumenismi.
Scrive Massimo Introvigne: «Sia il pessimismo radicale che demonizza l’interlocutore e chiude anticipatamente la discussione, sia l’ottimismo ingenuo che rischia di condurre più che verso la conversione verso sincretismi infecondi, “doppie appartenenze” inaccettabili, tentativi sterili di conciliare l’inconciliabile. Fermezza e dialogo sono invece i due atteggiamenti di cui deve essere capace chi intende rivolgersi agli adepti dei nuovi movimenti religiosi e magici, senza blandirli né incoraggiarli, ma insieme prendendoli, come ogni uomo merita, assolutamente sul serio».
Fermezza e dialogo dunque, e se è vero, come diceva Cicerone, che siamo nati «con l’istinto dell’unione, dell’associazione e della comunanza propri del genere umano», è anche vero che è da sciocchi voler dialogare a tutti i costi con chi ti vuole tagliare la testa se non ti converti al suo credo.
Allora, fermezza, dialogo e intelligenza!
 
Il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco … - Il cieco non può diventare sacerdote (Lv 21,18). Nemmeno animali ciechi possono essere sacrificati, perché soltanto ciò che è senza difetto può avvicinarsi all’altare ed essere posto su di esso. Ma il cieco non è escluso dalla comunità, poiché Dio crea i vedenti i ciechi. Il cieco sta anzi sotto la protezione particolare di Dio. Avere cura dei ciechi è un comandamento di Dio. In pratica, però, essi facevano parte dei mendicanti. (Maria Stumpf-Konstanzer)
I libri profetici dell’AT intendono la cecità soprattutto in senso traslato, come incapacità dell’uomo di riconoscere l’agire e la volontà di Dio e di vivere in conformità ad essi. La cecità mantiene questo significato anche nel NT. I farisei credono di vedere, in realtà sono essi stessi “ciechi guide di ciechi” (Mt 15,14; Lc 6,39). Autore di questa cecità è il “dio di questo mondo” cioè Satana (2Cor 4,4). La cecità, dunque, è lo stato, non voluto da Dio, dell’allontanamento dell’uomo da Dio, dell’incredulìtà. Secondo la promessa dei profeti veterotestamentari il tempo messianico della salvezza è caratterizzato, fra l’altro, dal fatto che i ciechi vedranno. Su questo sfondo vanno viste le guarigioni dei ciechi da parte di Gesù: esse confermano Gesù come il potente realizzatore delle profezie veterotestamentarie e sono segni della signoria di Dio che in lui irrompe (cf. Mt 11,5).
Per questo, Gesù rifiuta l’interpretazione giudaica della cecità come castigo inflitto da Dio: il cieco non viene riconosciuto automaticamente come peccatore grave a partire dalla sua sofferenza, ma diventa occasione per la realizzazione del progetto salvifico di Dio (Gv 9,3). Non la cecità fisica deriva dal peccato, ma l’illusione farisaica che crede di vedere, ma che di fatto è inguaribilmente cieca, essendosi chiusa nei confronti di Dio (Gv 9,41). (Hildegard Gollinger)
 
Rabbunì, che io veda di nuovo!: «Fratelli, se voi... in qualche modo avete elevato il vostro intimo per vedere il Verbo, e, abbagliati dalla sua luce, siete ripiombati nei comuni pensieri mortali, pregate il medico che vi dia un collirio efficace, e cioè i precetti della giustizia. C’è, infatti, ciò che desideri vedere; ma tu non hai i mezzi per vederlo. Prima non credevi che esistesse ciò che vuoi vedere: ma ora, sotto la guida della ragione, ti sei sì avvicinato, hai visto, ma sei rimasto abbagliato e sei fuggito. Sai con certezza che esiste ciò che desideri vedere: ma anche che non sei ancora in grado di fissarvi lo sguardo. Dunque, curati. Cos’è, in realtà, quello di cui il collirio è il simbolo? Non mentire, non essere spergiuro, non essere adultero, non rubare, non ingannare. Ti eri abituato a queste cose e provi dolore a staccartene: tutto ciò punge, ma risana» (Sant’Agostino).
 
Il Santo del giorno - 30 Maggio 2024: Sant’Anastasio di Pavia, vescovo - Di famiglia lombarda, nobile, fu il vescovo ariano di Pavia al tempo di re Rotari (metà del VII secolo). Nel 668 ripudiò l’eresia, si convertì e fu eletto vescovo cattolico di Pavia. Partecipò al sinodo milanese contro l’eresia monotelita e partecipò al Concilio di Roma del 679. Morì a Pavia il 30 maggio 680. (Autore: Adriano Disabella).
 
Saziati dal dono di salvezza,
invochiamo la tua misericordia, o Signore:
questo sacramento, che ci nutre nel tempo,
ci renda partecipi della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 
 
 29 MAGGIO 2024
 
Mercoledì della VIII Settimana T. O.
 
1Pt 1,18-25; Salmo Responsoriale dal Salmo 147; Mc 10,32-45
 
Colletta
Concedi, o Signore, che il corso degli eventi nel mondo
si svolga secondo la tua volontà di pace
e la Chiesa si dedichi con gioiosa fiducia al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
  
... il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire - Papa Francesco (Discorso, 8 maggio 2013): ... non dobbiamo mai dimenticare che il vero potere, a qualunque livello, è il servizio, che ha il suo vertice luminoso sulla Croce. Benedetto XVI, con grande sapienza, ha richiamato più volte alla Chiesa che se per l’uomo spesso autorità è sinonimo di possesso, di dominio, di successo, per Dio autorità è sempre sinonimo di servizio, di umiltà, di amore; vuol dire entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi agli Apostoli (cfr. Angelus, 29 gennaio 2012), e che dice ai suoi discepoli: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse... Tra voi non sarà così; proprio il motto della vostra assemblea, “tra voi non sarà così” - ma chi vuole essere grande tra voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,25-27).
Pensiamo al danno che arrecano al Popolo di Dio gli uomini e le donne di Chiesa che sono carrieristi, arrampicatori, che “usano” il popolo, la Chiesa, i fratelli e le sorelle – quelli che dovrebbero servire -, come trampolino per i propri interessi e le ambizioni personali. Ma questi fanno un danno grande alla Chiesa. Sappiate sempre esercitare l’autorità accompagnando, comprendendo, aiutando, amando; abbracciando tutti e tutte, specialmente le persone che si sentono sole, escluse, aride, le periferie esistenziali del cuore umano. Teniamo lo sguardo rivolto alla Croce: lì si colloca qualunque autorità nella Chiesa, dove Colui che è il Signore si fa servo fino al dono totale di sé.
 
I Lettura: L’apostolo Pietro espone ai destinatari della sua lettera le esigenze della nuova vita che deve essere contrassegnata dall’amore fraterno: Dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri. Questa nuova vita è voluta da due motivi fondanti: innanzitutto perché i credenti  sono stati liberati dalla loro vuota condotta ereditata dai loro padri  non a prezzo di cose effimere, come l’argento e l’oro, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia, e, infine perché rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna: “Germe di vita, la parola di Dio è all’origine della nostra rinascita divina e ci dà la possibilità di agire secondo la volontà di Dio [1Pt 1,22-25; Gc 1,18+; Gv 1,12s; 1Gv 3,9; cfr. 1Gv 2,13s; 5,18], perché essa è piena di potenza (1Cor 1,18; 1Ts 2,13; Eb 4,12). Per Giacomo, la Parola è ancora la legge mosaica [Gc 1,25]; per 1Pt è la predicazione evangelica [1Pt 1,25; cfr. Mt 13,18-23p]; per Giovanni, è il Figlio di Dio in persona (Gv 1,1+). Paolo vede nello Spirito il principio che ci costituisce figli di Dio (Rm 6,4+), ma lo Spirito è il dinamismo della Parola” (Bibbia di Gerusalemme).
 
Vangelo
Ecco, noi saliamo e Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato.
 
Gesù per la terza volta predice ai Dodici la sua Morte e la sua Risurrezione. Giacomo e Giovanni, forse credendo che la loro avventura stava per finire per sempre, pensano di accaparrarsi un futuro sicuro, e così chiedono a Gesù: Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra. I due fratelli forse avevano pensato alla sequela come a una gita fuori porta, e, alla fine, allegramente, arrivare ai primi posti. Gesù non rimprovera i due Apostoli perché non sanno quello che chiedono, ma fa loro ben comprendere che porsi alla sua sequela ha dei costi altissimi: Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato? E poi gettando uno sguardo nel futuro, Gesù predice il loro martirio per il Vangelo. Per Giacomo il martirio si realizzerà nell’anno 44 per opera d’Erode Agrippa, Giovanni invece avrà la sua parte di sofferenze e di tribolazioni, così come ricorda il libro dell’Apocalisse. Mettersi dietro a Gesù occorre tenacia, fermezza, coraggio, e non dimenticare mai che la sequela è un dono non una scelta umana (Gv 15,16), ecco perché il discepolo ha sulle sue labbra le parole del Siracide: “Ricompensa coloro che perseverano in te, i tuoi profeti siano trovati degni di fede” (Sir 36,18).
 
Dal Vangelo secondo Marco
Mc 10,32-45
 
 In quel tempo, mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti ai discepoli ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti.
Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo e Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».
Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Parola del Signore.
 
Cosa volete che io faccia per voi - Il racconto evangelico odierno è posto tra il terzo annuncio della passione (Mc 10,32-34) e la guarigione del mendicante cieco Bartimeo, figlio di Timeo (Mc 10,46-52). Mentre cupe nubi, foriere di morte, si addensano sinistramente sul capo di Gesù, i discepoli fanciullescamente sembrano essere occupati unicamente a guadagnarsi i primi posti. I figli di Zebedeo, appaiono i più risoluti in questa ricerca.
Giacomo e Giovanni, conosciuti come i «figli del tuono» (Mc 3,17), quelli che avrebbero voluto incenerire i samaritani colpevoli di non aver accolto Gesù (Lc 9,54), sembrano bene intenzionati a scavalcare gli altri Apostoli pur di arrivare ai primi posti del comando. La richiesta è perentoria: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Una rivendicazione che pretende inequivocabilmente un assenso.
In quanto era sentire comune che i giusti, accanto al Figlio dell’uomo, avrebbero preso parte al giudizio finale (cf. Mt 19,28 ), i figli di Zebedeo, chiedono questa dignità regale e giudiziaria, ma evidentemente senza rendersi conto delle conseguenze della loro domanda. Gesù, che «sapeva quello che c’è in ogni uomo» (Gv 2,25), sembra stare al gioco. Vuole che dai loro cuori esca tutto il pus, la rogna nauseabonda del comando che rodeva il loro cervello.
Così invita i due fratelli a bere il suo calice e a ricevere il suo battesimo. In questo modo, chiedendo di associarsi alla sua Passione, ma senza pretendere altro, cerca di correggere la loro mentalità ancora carnale. Nell’invitarli a bere il calice della sua amara passione e a immergersi nel suo battesimo di sangue: esige la «disponibilità al martirio e la costanza nella persecuzione che può essere anche mortale. Il discepolo non ha alternativa per giungere alla gloria; egli deve sapere che il calice e il battesimo offertigli sono la sorte di Gesù [“il calice che io bevo ... il battesimo con cui io sono battezzato”], non un destino privo di senso, voluto da una potenza senza volto» (Luigi Pinto).
Con faccia tosta a dir poco, Giacomo e Giovanni, rispondono che lo possono. La risposta non tarda ad arrivare come una secchiata di acqua gelida: sì, morirete ammazzati per la fede, ma sedere alla destra del Cristo è «per coloro per i quali è stato preparato». Questa affermazione non è determinismo. Nulla è scritto, nel senso di predeterminato (cf. Rom 8,29). La salvezza è un dono di Dio e viene accordata ai discepoli, ma non per la via dei privilegi e della grandezza umana: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla sovrana volontà di Dio.
I primi a sedersi «uno alla sua destra e uno alla sinistra» (Lc 15,27) saranno i due ladroni, crocifissi con il Cristo. Ancora una volta si scompagina il solito sentire umano.
«Gli altri dieci si sdegnarono». Una nota che mette in luce una realtà fin troppo scomoda: nel gruppo apostolico serpeggiavano divisioni, liti, manie di grandezza ... La risposta di Gesù va in questo senso. La vera grandezza sta nel servire, nell’occupare gli ultimi posti come il Figlio dell’uomo. Una risonanza di questo insegnamento è nel racconto della lavanda dei piedi (Gv 13,1ss). Con questo detto «non si condanna di aspirare ai posti di responsabilità né si insegna paradossalmente che per raggiungere tali posti bisogna farsi servi e schiavi di tutti, ma più semplicemente si vuol dire che nell’ambito della comunità cristiana i chiamati al comando devono adempiere al loro mandato con spirito di servizio, facendosi tutto a tutti e guardando solo al bene degli altri [cf. 1Cor 9,19-23; 2Cor 4,5]» (A. Sisti).
Per Gesù servire vuol dire essere obbediente alla volontà del Padre fino alla morte, senza sconti e ripiegamenti, come il Servo di Iahvè, che si fa solidale con il peccato degli uomini. Affermando che è venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti», il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte. Donandosi alla morte per la salvezza degli uomini e per la loro liberazione dalla schiavitù del peccato, Gesù offre alla Chiesa un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella storia.
 
Il calice che io bevo, anche voi lo berrete: Paolo VI (Omelia, 10 giugno 1971): L’ESEMPIO DI GESÙ - Perciò ascoltate ancora questo linguaggio, proprio dell’Eucaristia. Vi dicevamo: Gesù sarà presente. Ma come sarà presente? Sarà presente, sia pure in modo incruento, come «l’uomo dei dolori» (Cfr. Is. 53, 3); come vittima, come «agnello di Dio» (Io. 1, 29); sarà presente come era nell’ora della sua passione, del suo sacrificio, come crocifisso. Questo significa la duplice specie del pane e del vino, figure del Corpo e del Sangue del medesimo Cristo. Gesù si offre per noi e a noi com’era sulla croce, immolato, straziato, consumato nel dolore portato al suo più alto grado di sensibilità fisica e di desolazione spirituale; ricordate i suoi spasimi umanissimi: «Ho sete!» (Io. 19, 28); e i suoi ineffabili tormenti: «Dio! Dio! perché mi hai abbandonato?» (Matth. 27, 46); ricordate? Chi ha sofferto quanto Gesù? La sofferenza è proporzionale a due misure: alla sensibilità (e quale più fine sensibilità di quella di Cristo, Uomo-Dio?), e all’amore: la capacità di amare è misurata dalla capacità di soffrire. Comprendete come Gesù è vostro esempio, è vostro collega, uomini e donne, che qua portate le vostre vite doloranti? Comprendete perché proprio con voi abbiamo voluto celebrare la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo?
OFFRIRE IL DOLORE PER LA CHIESA - E vi diremo di più: comprendete ora che cosa è la comunione, e ciò che l’assunzione dell’Eucaristia compie in voi? È la fusione della vostra sofferenza con quella di Cristo. Ciascuno di voi può ripetere, a maggiore ragione d’ogni altro fedele che si comunica, le parole di San Paolo: «... io mi rallegro nelle sofferenze ... e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col. 1, 24). Soffrire con Gesù! quale sorte, quale mistero! Ecco, ecco una grandissima novità: il dolore non è più inutile! Se unito a quello di Cristo, il nostro dolore acquista qualche cosa della sua virtù espiatrice, redentrice, salvatrice! Capite ora perché la Chiesa onora ed ama tanto i suoi malati, i suoi figli infelici? Perché essi sono Cristo sofferente, il Quale, proprio in virtù della sua passione, ha salvato il mondo. Voi, carissimi ammalati, potete cooperare alla salvezza dell’umanità, se sapete unire i vostri dolori, le vostre prove a quelle di Gesù, che ora verrà a voi nella santa comunione.
 
Pseudo Macario, Omelie spirituali, 12,4-5: Tutti i giusti hanno percorso una strada angusta e aspra, sopportando persecuzioni, angustiati e maltrattati... costretti a rifugiarsi nelle spelonche e nelle caverne scavate nella terra [Eb 11,37-38]. Anche gli apostoli, non diversamente, dicono: Sino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete, la nudità; siamo schiaffeggiati e non abbiamo ove poterci stabilire [1Cor 4,11]. Alcuni di loro furono decapitati, altri crocifissi, altri ancora sottoposti alle più diverse torture. E il Signore stesso dei profeti e degli apostoli, dimentico, per così dire, della sua divina gloria, che testimonianza ci ha lasciato? Mostrando a noi il modello da imitare, sopportò l’onta gravissima di recare sul capo la corona di spine, subendo gli sputi, le percosse e la croce. Se Dio, su questa terra, si è comportato a quel modo, a noi toccherà di imitarlo; se gli apostoli e i profeti, poi, non sono stati da meno, anche noi, se abbiamo in animo di costruire sulle fondamenta che il Signore e gli apostoli ci hanno lasciato, dobbiamo seguirli lungo la stessa strada. Raccomanda, infatti, l’Apostolo, dietro suggerimento dello Spirito Santo: Siate miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo [1Cor 11,1]. Se, al contrario, aspiri alla gloria umana e desideri ricevere onori ed essere rispettato e vai cercando una vita comoda, significa che hai già smarrito la strada che dovevi seguire. Occorre infatti che tu sia crocifisso assieme a colui che è stato crocifisso e soffra con chi ha sofferto, per esser glorificato in unione a colui che è stato glorificato [cfr. Rm 8,17]... Non è concesso, insomma, se non a prezzo di sofferenze e procedendo lungo un sentiero aspro, angusto e impervio, di entrare nella città dei santi, per riposare e regnare insieme con il re, nell’infinità dei secoli.
 
Il Santo del Giorno - San Paolo VI: Il Papa del Concilio e della Chiesa aperta: Una Chiesa che è casa di Dio in mezzo agli uomini, con la porta sempre aperta, pronta ad accogliere, e le finestre spalancate per far entrare la luce del Vangelo. Potrebbe essere descritto così il progetto di san Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI, pastore nel mondo e per il mondo. Nato a Concesio (Brescia) nel 1897, fu ordinato sacerdote il 29 maggio 1920 e venne destinato alla carriera diplomatica, assumendo diversi incarichi di rilievo nella Curia Romana. Fu assistente ecclesiastico degli universitari cattolici. Entrò a Milano da arcivescovo il 6 gennaio 1955 e venne creato cardinale da Giovanni XXIII nel 1958. Il 21 giugno 1963 venne eletto Papa, annunciando da subito che avrebbe portato avanti il Concilio ecumenico Vaticano II. Si adoperò per applicarne poi le decisioni e dare forma alla Chiesa del post-concilio. Pubblicò il rinnovato Messale Romano; fu attivo nell’impegno ecumenico; compì nove viaggi apostolici fuori dall’Italia; affrontò le contestazioni con carità e fermezza. Morì nella residenza pontificia di Castel Gandolfo il 6 agosto 1978. È santo del 2018. (Matteo Liut)
 
Saziati dal dono di salvezza,
invochiamo la tua misericordia, o Signore:
questo sacramento, che ci nutre nel tempo,
ci renda partecipi della vita eterna.
Per Cristo nostro Signore.