30 Ottobre 2025
 
Giovedì XXX Settimana T. O.
 
Rm 8,31b-39; Salmo Responsoriale dal Salmo 108 (109); Lc 13,31-35
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Nella celebrazione del Triduo Pasquale, vertice di tutto l’Anno liturgico, celebriamo “il Mistero centrale della fede: la passione, morte e risurrezione di Cristo. Nel Vangelo di san Giovanni, questo momento culminante della missione di Gesù viene chiamato la sua «ora», che si apre con l’Ultima Cena. L’Evangelista lo introduce così: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Tutta la vita di Gesù è orientata a questa ora, caratterizzata da due aspetti che si illuminano reciprocamente: è l’ora del «passaggio» (metabasis) ed è l’ora dell’«amore (agape) fino alla fine». In effetti, è proprio l’amore divino, lo Spirito di cui Gesù è ricolmo, che fa «passare» Gesù stesso attraverso l’abisso del male e della morte e lo fa uscire nello «spazio» nuovo della risurrezione. È l’agape, l’amore, che opera questa trasformazione, così che Gesù oltrepassa i limiti della condizione umana segnata dal peccato e supera la barriera che tiene l’uomo prigioniero, separato da Dio e dalla vita eterna. Partecipando con fede alle celebrazioni liturgiche del Triduo Pasquale, siamo invitati a vivere questa trasformazione attuata dall’agape. Ognuno di noi è stato amato da Gesù «fino alla fine», cioè fino al dono totale di Sé sulla croce, quando gridò: «È compiuto!» (Gv 19,30).
Lasciamoci raggiungere da questo amore, lasciamoci trasformare, perché veramente si realizzi in noi la risurrezione.” (Benedetto XVI, Udienza Generale 4 Aprile 2012).
 
Prima Lettura - Giuliano Vigini (Il Nuovo Testamento): 8,31 Il primo (“Chi sarà contro di noi?”) dei sei interrogativi presenti nei vv. 31-35 esprime l’assoluta convinzione che non ci sono minacce e ostacoli che possano separare i cristiani dal piano di salvezza di Dio e dal potere invincibile dell’amore che egli ha donato in Cristo, suo Figlio (32).
8,33 Paolo usa l’aggettivo ekletos (eletto) altre cinque volte (16,13; Col 3,12; 1 Tm 5,21; 2 Tm 2,10; Tt 1,1),  riferendolo a chi è stato scelto poi una particolare missione.
Chi è stato chiamato non può essere messo sul banco degli imputati, purché Dio stesso prende le sue difese, dichiarandolo giusto. Ogni accusa si scioglie per effetto dell’azione giustificante di Dio.
8,35 L’amore che Cristo ha manifestato all’uomo donando se stesso è il vincolo che nessuno potrà spezzare o da cui nulla lo potrà separare (39).
8,36 Citando il Sal 44,23, Paolo prepara in questo versetto la dichiarazione successiva (37). Le tribolazioni fanno sì parte della condizione cristiana, ma non costituiscono una prova che Dio non ami coloro che soffrono.
Anzi, è proprio grazie al dono di Gesù (“colui che ci ha amati”, 37) che anche noi conseguiamo la vittoria sul male, sul dolore e sulla morte.
 
Vangelo
Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme.
 
Erode Antipa (cf. Lc 3,1), molto probabilmente non palesemente ma con manovre astute cercava di sbarazzarsi di Gesù; a questa manovra scaltra farebbe allusione l’epiteto di «volpe».
“Questa notizia non manca di sorprendere il lettore; infatti sembra poco probabile che il tetrarca, il quale si era mostrato incerto e titubante nel far decapitare Giovanni Battista (cf. Mc., 6, 17-29; si veda anche Lc., 9, 7-9; 23, 8), voglia ora uccidere Gesù; inoltre appare ancora più improbabile che proprio i Farisei, dichiarati avversari del Maestro, lo avvertano di mettersi al sicuro; essi in verità dovevano essere molto contenti che Erode facesse morire una persona tanto indesiderata. È tuttavia verosimile che il tetrarca avesse fatto ricorso a questa abile manovra, mettendo in giro tale minaccia, per non aver a che fare con Gesù; così si spiega anche l’appellativo «volpe» (vers. seguente), con il quale il Salvatore designa l’astuto monarca, svelando così il vero scopo di quel sottile ed abile raggiro” (Benedetto Prete).
Il terzo giorno è una espressione che indica un lasso di tempo molto breve. La passione è a una passo, e allora tutto sarà compiuto (Gv 19,28.30), un compimento che include insieme la fine e il compimento di Gesù, reso «perfetto» dai patimenti e dalla morte (Eb 2,10; 5,9; cf. Gv 19,30).
Vi sono ancora delle opere da compiere: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni  oggi e domani”, e nessuno può ostacolare o mettere a termine il “cammino” di Gesù sulla strada di Gerusalemme, dove deve compiersi il suo destino (cf. Lc 2,38). Come in Gv 7,30; 8,20 (cf. Gv 8,59; 10,39; 11,54), i nemici di Gesù non possono attentare alla sua vita, finché «la sua ora non è giunta».
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,31-35
 
In quel momento si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere».
Egli rispose loro: «Andate a dire a quella volpe: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”.
Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”».

Parola del Signore.
 
Alcuni farisei di buona pasta avvisano Gesù che Erode vuole ucciderlo, e le minacce di questo uomo non vanno prese alla leggera. Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea, è un uomo dissoluto e sanguinario. Figlio di Erode il grande, al pari del padre, è un uomo lussurioso, scaltro, pronto a tutto. Di tal uomo si ricorderà una triste e perversa vicenda: accalappiato da una ballerina non esiterà a far decapitare Giovanni il Battista.
Il perché Erode voglia uccidere Gesù non viene detto, ma la notizia, conoscendo il personaggio, è da ritenere veritiera.
Invece di fuggire, Gesù manda un messaggio molte eloquente ad Erode: Andate a dire a quella volpe. Il lemma alopex (volpe) sia nella letteratura ellenistica che in quella rabbinica era sinonimo di astuzia e di malizia.
Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta, questa espressione molto comune in aramaico, esprime un breve lasso di tempo, e ricorda Os 6,2. La risposta ai farisei fa intendere che il destino di Gesù non appeso ai sotterfugi di Erode, la libertà di Gesù è piena.
Però è necessario, sarà Gesù, quando sul quadrante della volontà di Dio scoccherà l’ora, a consegnasi nelle mani dei carnefici per portare a compimento il progetto di salvezza tracciato ab aeterno a favore di tutti gli uomini. Naturalmente i tre giorni  stanno ad indicare anche i giorni della passione-morte di Gesù, della sepoltura, e, al terzo giorno, della risurrezione.
Gerusalemme, Gerusalemme, Gesù ancora una volta denuncia la perfidia degli israeliti, sempre pronti ad armarsi di pietre per scagliare contro chi ragiona diversamente, è la sorte che è toccata ai profeti scomodi, la stessa sorte toccherà a Gesù. Il lamento su Gerusalemme è composto da un riferimento veterotestamentario, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto, un’immagine che ricorda l’affetto paterno di Dio verso il suo popolo (cfr. Sal 90 [91],4; Dt 32,11) e da una profezia la vostra casa è abbandonata a voi: una profezia oscura, indeterminabile, ma che si possono approntare due soluzioni. La prima, se l’affermazione allude a Ger 22,1-9, la casa non si riferirebbe al tempio di Gerusalemme, né “deserta” alla sua distruzione, avvenuta nel 70, ma alla casa del re di Giuda. La seconda ipotesi protenderebbe, molto probabilmente, al tempio, la casa di Dio, che sarà abbandonata dalla Gloria di Dio e abbandonato nelle mani dei pagani che lo distruggeranno, non lasciando pietra su pietra (cfr. Lc 21,5).
 
Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere - Don Silvio Longobardi: È solo un frammento del ministero di Gesù ma permette di capire in quali condizioni egli realizza l’opera che il Padre gli ha affidato. Le folle lo cercano, il potere lo osserva. I discepoli lo ascoltano con fiducia perché lo considerano un profeta; i farisei, invece, lo ritengono un impostore. Sono proprio i farisei che lo invitano a partire per sfuggire all’ira di Erode. In apparenza è un gesto di amicizia, in realtà cercano pretesti per liberarsi di Gesù. Lo considerano un pericolo, un rabbi che stravolge la tradizione dei padri. La minaccia ha un suo nucleo di verità. È vero, Gesù non si presenta come un agitatore politico, ma è vero anche che l’entusiasmo popolare viene visto con diffidenza, anzi con un certo fastidio, una possibile causa di sommosse popolari. Meglio allontanare un uomo come Gesù, abbiamo meno problemi. Gesù si trova ancora in Galilea ma è in cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51). Non può rinunciare ad andare nella città santa dove troverà compimento la sua missione. Gesù considera i farisei come gli ambasciatori di Erode e chiede loro di rispondere al re con queste parole: “è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” (13,32-33). Gesù non si lascia intimidire dalle minacce, non si nasconde, non ha intenzione di rinunciare al compito che gli è stato affidato, anzi ribadisce che andrà fino in fondo.
Queste parole invitano anche noi ad evitare ogni forma di mediocrità. Lungo il cammino incontriamo spesso ostacoli, piccoli e grandi. A volte all’esterno ma tante altre volte all’interno. Il Signore ci chiede di rimanere fedeli al compito che ci è stato affidato. C’è una storia da costruire, ci sono ancora tante pagine da scrivere, nessuno deve fermarsi a metà. Un santo eremita diceva: “Non riposarci, dopo aver incominciato, non venir meno alle fatiche, non dire abbiamo coltivato a lungo l’ascesi; accresciamo invece la prontezza della nostra volontà, come se incominciassimo ogni giorno” (Sant’Antonio Abate).
 
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?» - Settimio Cipriani (Le Lettere di Paolo): 31-34 Gioia, serenità e sicurezza sprizzano dal pensiero dell’immenso «amore» di Dio verso gli uomini, perché tutto il piano della salvezza in Cristo non è altro che frutto dell’amore. E allora perché temere? «Se Dio è per noi, chi (sarà) contro di noi» (v. 31)? Egli, che ha dato per noi alla morte il «proprio Figlio» (v. 32), non ci concederà la salvezza e tutto quanto è necessario per raggiungerla? Chi ci potrà «accusare», se proprio lui ci assolve «giustificandoci» (v. 33)? Ci potrà forse condannare Cristo, che non solo è «morto e risorto», ma è addirittura nostro «intercessore» «alla destra» (v. 34) del Padre (cfr. Ebr. 1, 3; 12, 2; 1Giov. 2, 1)? Chi ci ha dato il più, non potrà negarci il meno! È un inno davvero commosso e sublime, pur nella sua stringatezza e concisione, all’amore di Dio verso i redenti, che niente varrà a spezzare: «Chi ci separerà mai dall’amore di Cristo» (v. 35)? Né i pericoli esterni e visibili (v. 35), derivanti dalla rischiosa attività apostolica («tribolazione, persecuzione, fame, spada, morte» ecc.); né quelli invisibili, derivanti dalle oscure e misteriose forze del cosmo («altezza, profondità»: v. 39) o dagli spiriti del male («angeli, principati, potenze»: v. 38), potranno giammai «separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, Signore nostro» (v. 39). «L’amore di Dio» verso di noi (v. 39), che raggiunge il suo apice nel dono che egli ci ha fatto di Cristo (v. 39), è una forza così travolgente, una catena così attanagliante che nessuna potenza creata potrà mai infrangerla, salvo l’uomo stesso in un gesto di follia! «Solo chi vince Dio, ci può fare del male. Ma chi può vincere l’Onnipotente?» (S. Agostino).
Per quanto dipende dall’«amore di Dio», abbiamo il potere non solo di vincere ma di «stravincere» (v. 37) contro tutte le difficoltà e tentazioni che ci vorrebbero staccare dall’Autore della nostra salvezza. Quale incrollabile base di fiducia per ogni cristiano, degno di questo nome!
 
Giovanni Crisostomo (Exp . in Matth., LXXIV, 3): … non mi vedrete più sino a quando non direte: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!: queste sono parole di un amante ardente, che vigorosamente vuole attrarli a Sé con le predizioni dell’avvenire e non solo confondendo col ricordo del passato. È chiaro infatti, in queste parole, l ‘accenno al giorno del suo secondo avvento.
 
Il Santo del Giorno - 30 Ottobre 2025 - San Marciano da Siracusa. Le radici apostoliche della fede in Sicilia: Un sottile filo rosso lungo le pieghe dei secoli collega la nostra storia a quella degli Apostoli e quindi a quella del Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto. Siracusa in san Marciano ritrova proprio le radici apostoliche e quindi il legame profondo con Cristo. Le fonti sulla vita di questo santo martire in realtà sono tardive, ma questo non sminuisce la portata storica e di fede della figura di Marciano, che, secondo la tradizione, ad Antiochia era divenuto discepolo di san Pietro. Quest’ultimo lo inviò poi in Sicilia a portare il Vangelo. A Siracusa l’impegno di Marciano ebbe un notevole successo, portando a numerose conversioni, ma attirandosi l’inimicizia e l’odio di «coloro che in quel tempo avevano indegnamente lo scettro del comando». Per questo il protovescovo di Siracusa venne catturato e martirizzato. Alcune sue reliquie, poi, giunsero fino in Lazio, forse per mare, e sono conservate nella cripta della Cattedrale di Gaeta, che lo celebra come compatrono. (Matteo Liut)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
29 Ottobre 2025
 
Mercoledì XXX Settimana T. O.
 
Rm 8,26-30; Salmo Responsoriale dal Salmo 12 (13); Lc 6,12-19
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Catechismo della Chiesa Cattolica 2736 Siamo convinti che «nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26)? Chiediamo a Dio «i beni convenienti»? Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chiediamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio.
2737 « Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri » (Gc 4,2-3). 200 Se noi chiediamo con un cuore diviso, « adultero », 201 Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita. « O forse pensate che la Scrittura dichiari invano: "Fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi"? » (Gc 4,5). Il nostro Dio è « geloso » di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi.
 
Prima Lettura - Giuliano Vigini (Il Nuovo Testamento): 8,26-27 Questo è l’unico brano di Paolo in cui si presenta l’intercessione dello Spirito Santo. Come Cristo intercede nei cieli, così lo Spirito intercede per i credenti nelle difficoltà della vita terrena. Egli viene in soccorso alla loro debolezza e, in particolare, alla loro incapacità di pregare e perfino di sapere che cosa chiedere a Dio nella preghiera nell’ora della prova e della sofferenza.
8,26 L’azione di intercessione dello Spirito avviene “con gemiti inesprimibili”: espressione spesso considerata un’allusione al canto in lingue dei fedeli (cfr. 1 Cor 12-14), e che, come 8,23 (“gemiamo interiormente”), si riferirebbe alla preghiera in lingue praticata dai corinzi. E più probabile, invece, che essa sia da intendere come supplica dello Spirito che Dio solo può percepire e comprendere, mentre resta “muta” (alalétos, senza parole) per l’uomo, andando al di là di ogni sua capacità di comprensione.
8,27 “Colui che scruta i cuori” è Dio (cfr., ad es., 1Sam 16,7; 1Re 8,39; Sal 7,10; 139,23).
8,29 Quelli che “da sempre ha conosciuto” sono coloro che Dio ha prescelto prima ancora che il mondo fosse (cfr. Ef 1,4), perché riproducessero in sé l’immagine di Cristo, partecipando alla sua risurrezione (cfr. 8,17; 2 Cor 3,18; 4,4-6; Fil 3,20-21).
 
Vangelo
Verranno da oriente a occidente e siederanno a mensa nel regno di Dio.
 
Oggi la liturgia presenta un aspetto fondamentale della salvezza già compiuta in Cristo Gesù, mette in evidenza due temi molto cari al mondo biblico. Da una parte, il Signore Dio apre la porta del suo regno a tutti gli uomini e dall’altra essa si presenta “stretta”, sottintendendo in questo modo il grande impegno necessario per entravi, così come è sottolineato dalla seconda lettura e dalla parte centrale del vangelo. Tutto è grazia, ma il dono esige l’operosa collaborazione dell’uomo.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,22-30
 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
 
Parola del Signore.
 
Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno L’opera evangelizzatrice di Gesù non conosce riposo. Egli è in cammino alla volta di Gerusalemme, il centro geografico verso cui tende tutta la storia della salvezza: nell’opera lucana, la Città santa è il punto di arrivo dell’itinerario di Gesù (Cf. Lc 9,51; 13,22.33; 17,11; 19,11.28) ed anche il punto di partenza della predicazione del vangelo nel mondo (Atti 1-2).
La domanda del tale era una questione molto dibattuta anche nelle scuole rabbiniche. Gesù non risponde a questa domanda, certamente oziosa e capziosa, e si limita a mettere l’interlocutore in guardia da simili considerazioni che non portano a nulla di concreto. Importante invece è sforzarsi di entrare per la porta stretta.
Più che sforzo il testo greco ha lotta: come dire che tutta la vita cristiana è milizia. La «lotta [agon] accentua l’impegno cosciente delle proprie forze per raggiungere una meta [...]. Il lavoro dell’apostolo non è solamente un adempimento fedele del dovere, ma un agon, collegato a pesi e strapazzi [Col 1,29; lTm 4,10]. Si tratta della meta ultima e immutabile, la sola che valga: [...] il premio della vittoria, che il cristiano sarà in grado di raggiungere solo se si impegna, talvolta con il sacrificio di tutta la vita e mediante la comunione con le sofferenze di Cristo [Cf. Fil 3,15]» (A. Ringward).
All’anonimo interlocutore, Gesù sta dicendo, con estrema chiarezza, che per entrare nel regno di Dio non è solo richiesto il massimo impegno, ma anche la massima rinuncia. Qui siamo molto lontano da quel Vangelo edulcorato, infantile, dove tutto si poggia su un preteso buonismo di Dio che perdona tutti e tutto. Per salvarsi non basterà aver mangiato e bevuto in sua presenza, non sarà sufficiente aver avuto l’onore di averlo ospitato come maestro nelle nostre piazze, non serviranno nemmeno i legami di razza, essere figli di Abramo non servirà a nulla per evitare l’esclusione meritata da una condotta iniqua (Cf. Lc 3,7-9; Gv 8,33s).
Quando il padrone di casa si alzerà ... Il padrone di casa è Cristo Gesù, il quale «chiude la porta alla morte di ogni peccatore, il cui tempo per accumulare meriti è ormai finito, poiché la penitenza dopo la morte è infruttuosa. Per questo Egli dirà ai peccatori: Non vi conosco!» (Nicola di Lira, Postilla super Lucam, XIII).
In Luca, gli operatori di ingiustizia non sono i falsi profeti e guaritori come in Mt 7,21-23, ma i Giudei increduli e i pagani convertiti che non fanno la volontà del Padre.
Gli esclusi, quei Giudei che ritenevano di essere giusti davanti agli uomini (Lc 16,15), piangeranno come disperati e saranno in preda del risentimento e della rabbia quando vedranno i pagani sedere a mensa nel regno di Dio.
Verranno da oriente e da occidente ... Quanto sognato dai profeti, cioè il raduno di tutte le genti nell’unico ovile di Cristo (Cf. Is 2,2-5; 25,6-8; 60,1ss; 66,18-21; Gv 10,16), «incomincia a realizzarsi fin d’ora, nel ministero pubblico di Gesù [Cf. Lc 14,21.23,26; 15,32; 16,9], e troverà più pieno compimento nel ministero apostolico [Cf. Atti degli Apostoli]» (Carlo Ghidelli).
In questo modo e con queste immagini (pianto e stridore di denti ... siederanno a mensa), Gesù proclama ai Giudei, che ritenevano di essere i primi e gli unici destinatari delle promesse messianiche fatte ai profeti, l’universalità della salvezza. L’unica condizione che viene chiesta è la libera e gioiosa risposta alla chiamata misericordiosa di Dio.
Alla fine, sarebbe facile metterci noi cristiani al posto dei Giudei e credere, come lo credeva Israele, che le porte ormai sono per sempre spalancate per tutti. Chi dà per scontata la propria salvezza è un illuso e un povero stolto: non «ci sarà neanche salvezza automatica per i cristiani che rimanderanno al domani la riforma, sempre da riprendere, del loro comportamento. La porta è stretta per tutti: quelli che commettono il male non potranno appellarsi alla loro familiarità superficiale con il Cristo per farsi aprire, quando la porta sarà chiusa» (H. Cousin).
 
Penitenza e opzione fondamentale - Maria Ignazia Danieli (Penitenza in Schede Bibliche Pastorali): Nella odierna civiltà «del benessere», ma anche all’epoca dei grandi profeti biblici, la parola penitenza suona dissueta e lontana. L’aver sottolineato poi a tante riprese, e giustamente, che i termini con cui la bibbia parla di penitenza vogliono sostanzialmente dire «convertirsi; tornare indietro; tornare all’origine della salvezza, cioè al Signore», ha portato oggi a considerare quasi esclusivamente l’aspetto della penitenza come atteggiamento interiore dell’uomo, trasmutazione del suo essere desideroso di ricongiungersi a Dio da cui lo distoglie il peccato.
È certo che quel che conta davanti a Dio è l’orientamento fondamentale della vita. Poiché non siamo noi che scegliamo Dio, ma è lui che ci ha scelti; non siamo noi che lo amiamo per primi, ma è lui che ci ha amati (Gv. 15,16; 1Gv. 4,10; Rom. 5,8), Gesù può chiederci dove poniamo il punto di convergenza della nostra vita, quale è la intensità della nostra risposta al suo dono infinito. La vita conosce solo due possibili dimensioni, che la rivelazione cristiana rende irrefutabili e consapevoli: l’amore di Dio fino al disprezzo di sé (caritas) o l’amore di sé fino al disprezzo di Dio (cupiditas); sono i due amori dai quali, secondo Agostino, si generano le due città, celeste e terrena, mischiate nel crogiuolo del mondo fino a che la forza purificante del fuoco divino avrà tutto assunto e bruciato in sé.
La verità del nostro guardare a Dio, del nostro essere rivolti a lui, della nostra penitenza, consiste nell’aver gettato nella fornace divina il nostro cuore, il nostro pensiero, la nostra volontà (Dt. 6,4ss).
La conversione non si dà senza la rinuncia radicale a se stessi e la opzione fondamentale di vivere di Dio e per Dio (Dt. 30,14-20; Mc. 8,34-35). La opzione interiore necessariamente si traduce in atti esteriori. Ricor­diamo la parola di Gesù nel discorso della montagna: «Se dunque stai offrendo il tuo dono all’altare e lì ti ricordi che il fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e prima va’, riconciliati con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt. 5,23-24).
Per essere di Cristo e, nel Cristo, di Dio, è necessario fare dei gesti esterni, riconciliarsi, qualunque nube di divisione ci fosse tra noi e i fratelli, nella forza della parola del Signore. Siamo tutti un popolo di riconciliati (Cf. Rom. 5,10-11): la parola del vangelo ci dice che bisogna mettersi in sintonia con la grande onda di unità che Gesù è venuto a portare a tutta la creazione: questo il senso della incarnazione e della redenzione. Quando parliamo della riconcilia­zione - che è poi uno dei gesti più veri e significativi della nostra penitenza - sappiamo bene che basta un piccolo gesto per ritrovarsi nell’unico essere, nella verità: ogni faziosità non è solo errore morale, ma una frantumazione dell’essere, una rottura della verità. Per questo abbiamo il dovere di praticare un abito di unità e di mortificazione che esprima il nostro desiderio di dilatazione, la nostra sete di Dio. Tutto questo non avviene senza sforzo, senza penitenza: è stato detto che si va verso una via di spoliazione e di secolarizzazione; ma queste forme che si svuotano di esteriorismi vanno riempite di contenuti. Sempre più si parla di una vita da «cristiano indistinto»; ma se questa è un’esigenza vera, va compiuta ripudiando ciò che è sbagliato ed egoistico, ecco la croce, il sacrificio, la mortificazione: «Non avete ancora resistito fino  al sangue nella lotta  contro  il peccato» (Ebr. 12,4).
Questa frase della lettera agli Ebrei dice il senso cristiano della penitenza che, così intesa, diventa la nostra massima contestazione e insieme il vertice della nostra unità col mondo. Certo la mortificazione non vale nulla senza l’amore, ma al vero amore non si arriva senza mortificazione; e senza mortificazione non si arriva a quella preghiera umile che fa perdere il proprio io nell’Io divino, conforme all’operazione del Signore che è Spirito (Cf. 2Cor. 3,18).                                                                                                                                                                                                     
Lumen gentium 14: Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso, inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv 3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell’assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore». Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati.
 
Il numero di quelli che si salvano - Agostino: Certo son pochi quelli che si salvano. Ricordate la domanda fatta nel Vangelo: “Signore, son pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,21). E che cosa risponde il Signore? Non dice: Non sono pochi; né sono molti, ma: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta (ibid.)”. Allora, ha confermato che son pochi, perché solo pochi possono entrare, se la porta è stretta. In altra circostanza, dice anche: “È stretta la via che porta alla vita e pochi ci si mettono; è larga e spaziosa invece la via che porta alla morte, e molti la prendono” (Mt 7,13-14). Come facciamo a sognar moltitudini? Sentitemi, voi pochi. Siete molti a sentire, ma pochi a darmi ascolto. Vedo un’aia, ma cerco il grano. A stento si vedono i chicchi di grano, quando si batte il grano; ma verrà la ventilazione. Son pochi, allora, quelli che si salvano, se si pensa ai molti che si dannano; ma i pochi sono una gran massa. Quando verrà il ventilatore col ventilabro in mano, pulirà l’aia; raccoglierà il grano nei suoi granai; la pula la brucerà in un fuoco inestinguibile (cf. Lc 3,17). La pula non si permetta di irridere il grano: quello che si dice è vero, non trae nessuno in inganno. Siate pure molti tra molti, ma al confronto con altri molti sembrate pochi. Da quest’aia uscirà una massa così grande da riempire il regno dei cieli. Cristo Signore non si può contraddire. Disse che son pochi quelli che entrano per la porta stretta e che molti si perdono per la via larga, e disse anche: “Molti verranno da Oriente e Occidente” (Mt 8,11). Molti, certamente pochi: e pochi, e molti. Vorrà dire alcuni pochi e alcuni molti? No. Proprio quei pochi sono i molti; pochi in confronto di quelli che si perdono, ma tanti, se riferiti alla moltitudine degli Angeli. Sentite, carissimi. L’Apocalisse dice: “Poi vidi gente d’ogni lingua e stirpe e razza, che veniva con palme e in vesti bianche, ed era una moltitudine innumerevole” (Ap 7,9). Questa è la massa dei santi. Con quanto più chiara voce l’aia ventilata, purgata dalla turba degli empi e falsi cristiani, separati quelli che fanno ressa ma non toccano il corpo di Cristo; allontanati, dunque, quelli che si dannano, la massa che sta alla destra, senza timore di alcun male, senza timore di perdere alcun bene, sicura di regnare con Cristo, con quanta fiducia dirà: “So bene quanto è grande il Signore” (Sal 134,5).
 
Il Santo del giorno - 29 Ottobre 2025 - San Narciso: Aveva quasi cent’anni quando venne eletto 30° vescovo di Gerusalemme. Era nato nel 96 da famiglia non israelita. Nonostante l’età, governò a lungo e con fermezza. Presiedette il Concilio in cui si decise che la Pasqua dovesse cadere di domenica. E a lui si attribuisce, proprio nel giorno di Pasqua, il miracolo di aver mutato l’acqua in olio per le lampade della sua chiesa, rimaste a secco. Per il suo rigore furono sparse calunnie sul suo conto. Si allontanò da Gerusalemme e, creduto morto, vennero eletti uno dopo l’altro due successori. Ma lui, alla morte del secondo, ricomparve. L’ultima notizia su di lui è in una lettera del coadiutore sant’Alessandro: si dice che aveva compiuto 116 anni. (Avvenire)
 
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.
 
 
 28 OTTOBRE 2025
 
Santi Simone e Giuda Apostoli
 
Ef 2,19-22; Salmo Responsoriale dal Salmo 18 (19); Lc 6,12-19
 
Colletta
O Dio, che per mezzo degli apostoli
ci hai fatto giungere alla conoscenza del tuo nome,
per l’intercessione dei santi Simone e Giuda
concedi alla tua Chiesa di crescere sempre
con l’adesione di nuovi popoli alla fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.
 
Benedetto XVI (Udienza Generale 28 Ottobre 2012): Simone riceve un epiteto che varia nelle quattro liste: mentre Matteo e Marco lo qualificano “cananeo”, Luca invece lo definisce “zelota”. In realtà, le due qualifiche si equivalgono, poiché significano la stessa cosa: nella lingua ebraica, infatti, il verbo qanà’ significa “essere geloso, appassionato” e può essere detto sia di Dio, in quanto è geloso del popolo da lui scelto (cfr Es 20,5), sia di uomini che ardono di zelo nel servire il Dio unico con piena dedizione, come Elia (cfr 1 Re 19,10). È ben possibile, dunque, che questo Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l’identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina. Se le cose stanno così, Simone si pone agli antipodi di Matteo, che al contrario, in quanto pubblicano, proveniva da un’attività considerata del tutto impura. Segno evidente che Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.
Per quanto riguarda poi Giuda Taddeo, egli è così denominato dalla tradizione, unendo insieme due nomi diversi: infatti, mentre Matteo e Marco lo chiamano semplicemente “Taddeo” (Mt 10,3; Mc 3,18), Luca lo chiama “Giuda di Giacomo” (Lc 6,16; At 1,13). Il soprannome Taddeo è di derivazione incerta e viene spiegato o come proveniente dall’aramaico taddà’, che vuol dire “petto” e quindi significherebbe “magnanimo”, oppure come abbreviazione di un nome greco come Teodòro, Teòdoto. Di lui si tramandano poche cose. Solo Giovanni segnala una sua richiesta fatta a Gesù durante l’Ultima Cena. Dice Taddeo al Signore: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?». E’ una questione di grande attualità, che anche noi poniamo al Signore: perché il Risorto non si è manifestato in tutta la sua gloria ai suoi avversari per mostrare che il vincitore è Dio? Perché si è manifestato solo ai suoi Discepoli? La risposta di Gesù è misteriosa e profonda. Il Signore dice: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,22-23). Questo vuol dire che il Risorto dev’essere visto, percepito anche con il cuore, in modo che Dio possa prendere dimora in noi. Il Signore non appare come una cosa. Egli vuole entrare nella nostra vita e perciò la sua manifestazione è una manifestazione che implica e presuppone il cuore aperto. Solo così vediamo il Risorto.
 
Prima Lettura: I cristiani di Efeso che provengono dal mondo pagano un tempo esclusi dalla cittadinanza d’Israele, ora, mediante il battesimo, non sono più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e di profeti. I profeti, qui si tratta di quelli del Nuovo Testamento (Ef 3,5; 4,11; At 11,27), costituiscono con gli apostoli, “la generazione dei primi testimoni che hanno ricevuto la rivelazione del piano divino (Ef 3,5) e che hanno predicato il vangelo [cfr. Lc 11,49, Mt 23,34, Mt 10,41). Sono dunque come il fondamento sul quale si edifica la chiesa” (Bibbia di Gerusalemme).
 
Vangelo
Ne scelse dodici ai quali diede anche il nome di apostoli.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 6,12-19
 
In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.
Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.
 
Parola del Signore.
 
Silvano Fausti (Una comunità legge il Vangelo di Luca): La creazione dei Dodici è la settima azione potente di Gesù, dove si compie e trova riposo tutto il suo lavoro: è il mondo nuovo, l’umanità che nell’ascolto entra nel giorno di Dio e raggiunge il suo riposo. I Dodici sembrano piccola cosa di fronte alla vastità del mondo al quale sono inviati. Ma è stile costante di Dio operare tutto attraverso poco (cf. Gdc 7,1-8). La sua azione è sempre sacramentale: in un piccolo segno d’amore, dona una realtà infinita, se stesso come amore. Questa sacramentalità, per cui l’infinito opera nella piccolezza, è necessaria perché Dio è infinito e l’uomo finito, ma fatto per l’infinito. Ma è anche necessaria per rispettare la libertà dell’uomo che Dio ama e dal quale vuole essere amato in libertà. Il piccolo non si impone: solo si propone e può essere accolto a meno.
Non bisogna mai dimenticare l’efficacia reale e infinita del piccolo segno, né a livello personale né a livello ecclesiale. Si cadrebbe in deliri di onnipotenza, vecchi come il peccato di Gn 3!
La chiamata all’apostolato, mattino della piccola chiesa che sta sorgendo (cf. 12,32), nasce dalla notte di preghiera di Gesù. Come a dire che la chiamata che fonda la chiesa nasce dalla sua comunione con il Padre fin dentro la notte, cioè dall’obbedienza e dall’amore a lui fino alla morte. Ed è una chiamata alla tessa comunione, fine di ogni apostolato.
 
Xavier Lèon-Dufour (Apostoli Dizionario di Teologia Biblica): Nel NT numerose persone ricevono il titolo di apostolo: i dodici discepoli, scelti da Gesù per fondare la sua Chiesa (Mt 10, 2; Apoc 21, 14), e così pure Paolo, apostolo delle nazioni per eccellenza ( Rom 11, 13), son ben conosciuti. Ma, secondo l’uso antico di Paolo, Silvano, Timoteo (1 Tess 2, 7) e Barnaba (1 Cor 9, 6) portano lo stesso titolo di Paolo; a fianco di Pietro e dei Dodici, ecco «Giacomo e gli Apostoli» (1 Cor 15, 5 ss; cfr. Gal 1, 19), per non parlare del carisma dell’apostolato (1 Cor 12, 28; Ef 4, 11), né dei «falsi apostoli» e degli «arciapostoli» che Paolo denuncia (2 Cor 11, 5. 13; 12, 11). Un uso così esteso di questo titolo solleva un problema: quale rapporto c’è tra questi diversi «apostoli»? Per risolverlo, in mancanza di una definizione neotestamentaria dell’apostolato che convenga a tutti, bisogna collocare al loro posto le diverse persone che portano questo titolo, dopo aver raccolto le indicazioni concernenti il termine e la funzione non specificatamente cristiana. Il sostantivo apòstolos è ignoto al greco letterario (salvo Erodoto e Giuseppe che sembrano riflettere la lingua popolare), ma il verbo da cui deriva (apostello), «inviare», ne esprime bene il contenuto, che è precisato dalle analogie del VT e dagli usi giudaici. Il VT conosce l’uso degli ambasciatori che devono essere rispettati come il re che li manda (2 Sam 10); i profeti esercitano missioni dello stesso ordine ( cfr. Is 6, 8; Ger 1, 7; Is 61, 1 ss), benché non ricevano mai il titolo di apostolo. Ma il giudaismo rabbinico, dopo il 70, conosce l’istituzione di inviati speciali (šelîhîm), il cui uso sembra molto anteriore, secondo i testi stessi del NT. Paolo «domanda lettere per le sinagoghe di Damasco» al fine di perseguitare i fedeli di Gesù (Atti 9, 2 par.): è un delegato ufficiale munito di lettere ufficiali (cfr. Atti 28, 21 s). La Chiesa eredita questo uso quando, da Antiochia e da Gerusalemme, manda Barnaba e Sila con le loro lettere (Atti 15, 22), oppure fa di Barnaba e Paolo i suoi delegati (Atti 11, 30; 13, 3; 14, 26; 15, 2); Paolo stesso manda due fratelli che sono gli apòstoloi delle Chiese (2 Cor 8, 23). Secondo la frase di Gesù, che ha degli antecedenti nella letteratura giudaica, l’apostolo rappresenta colui che lo manda: «Il servo non è maggiore del suo padrone, né l’apòstolos maggiore di colui che l’ha mandato» (Gv 13, 16). Così, a giudicare dall’uso dell’epoca, l’apostolo non è in primo luogo un missionario, od un uomo dello spirito, e neppure un testimone: è un emissario, un delegato, un plenipotenziario, un ambasciatore.
DODICI E L’APOSTOLATO - Prima di dar diritto ad un titolo, l’apostolato fu una funzione. Di fatto soltanto al termine di una lenta evoluzione alla cerchia ristretta dei Dodici fu attribuito in modo privilegiato il titolo di apostolo (Mt 10, 2), messo poi, in epoca tarda, sulle labbra di Gesù (Lc 6, 13). Ma se questo titolo di onore non appartiene che ai Dodici, si vede pure che altri esercitano con essi una funzione che può essere qualificata come «apostolica».
1. I dodici apostoli. – Fin dall’inizio della sua vita pubblica Gesù volle moltiplicare la sua presenza e diffondere il suo messaggio per mezzo di uomini che fossero altri se stesso. Chiama i quattro primi discepoli perchè siano pescatori d’uomini (Mt 4, 18-22 par.); ne sceglie dodici perché siano «con lui» e perché, come lui, annuncino il vangelo e scaccino i demoni ( Mc 3, 14 par. ); li manda in missione a parlare in suo nome (Mc 6, 6-13 par.), muniti della sua autorità: «Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 40 par.); sono incaricati di distribuire i pani moltiplicati nel deserto (Mt 14, 19 par), ricevono un’autorità speciale sulla comunità che devono dirigere (Mt 16, 18; 18, 18). In una parola, essi costituiscono i fondamenti del nuovo Israele, di cui saranno i giudici nell’ultimo giorno (Mt 19, 28 par.); ed è questo che il numero 12 del collegio apostolico simboleggia. Ad essi il risorto, sempre presente con essi sino alla fine dei secoli, dà l’incarico di ammaestrare e di battezzare tutte le nazioni (Mt 28, 18 ss). L’elezione di un dodicesimo apostolo in sostituzione di Giuda appare quindi indispensabile perchè la figura del nuovo Israele si ritrovi nella Chiesa nascente (Atti 1, 15-26). Essi dovranno essere i *testimoni di Cristo, cioè attestare che il Cristo risorto è quel medesimo Gesù con il quale sono vissuti (1, 8. 21); testimonianza unica che conferisce al loro apostolato (inteso qui nel senso più stretto del termine) un carattere unico. I Dodici sono per sempre il fondamento della Chiesa: «Il muro della città poggia su dodici basamenti che portano ciascuno il nome di uno dei dodici apostoli dell’ agnello» ( Apoc 21, 14).
2. L’apostolato della Chiesa nascente. – Se i Dodici sono gli apostoli per eccellenza, nel senso che la Chiesa è «apostolica», l’apostolato della Chiesa, inteso in un senso più largo, non si limita tuttavia all’azione dei Dodici. Come Gesù, «apòstolos di Dio» (Ebr 3, 1), ha voluto istituire un collegio privilegiato che moltiplichi la sua presenza e la sua parola così i Dodici comunicano ad altri non già il privilegio intrasmissibile che li costituisce per sempre corpo dei testimoni del risorto, bensì l’esercizio della loro missione apostolica. Già nel VT Mosè aveva trasmesso a Giosuè la pienezza dei suoi poteri (Num 27, 18), ed anche Gesù ha voluto che l’ufficio pastorale affidato ai Dodici continui attraverso i secoli: pur conservando un legame speciale con essi, la sua presenza di risorto trascenderà infinitamente la loro cerchia ristretta. Del resto, già nella sua vita supplica, Gesù stesso ha aperto la via a questa estensione della missione apostolica. Accanto alla tradizione prevalente che raccontava la missione dei Dodici, Luca ha conservato un’altra tradizione, secondo la quale Gesù «designò ancora 72 altri [discepoli] e li mandò davanti a sé» (Lc 10, 1). Stesso oggetto di missione che per i Dodici, stesso carattere ufficiale: «Chi ascolta voi, ascolta me, chi rigetta voi rigetta me, e chi rigetta me, rigetta colui che mi ha mandato» (Lc 10, 16; cfr. Mt. 10, 40 par.). Nel pensiero di Gesù la missione apostolica non è quindi limitata a quella dei Dodici. I Dodici stessi agiscono in questo spirito. Al momento della scelta di Mattia essi sanno che un buon numero di discepoli possono soddisfare alle condizioni necessarie ( Atti 1, 21 ss): Dio non designa propriamente un apostolo della stessa fama di Paolo (14, 4. 14); e se i Sette non sono chiamati apostoli (6, 1-6), possono tuttavia fondare una nuova Chiesa: così Filippo in Samaria, quantunque i suoi poteri siano limitati da quelli dei Dodici (8, 14-25). L’apostolato, rappresentante ufficiale del risorto nella Chiesa, rimane per sempre fondato sul collegio «apostolico» dei Dodici, ma viene esercitato da tutti gli uomini ai quali questi conferiscono autorità.
 
Ambrogio (In Lucam, V, 41) - … salì sul monte …: sale il monte chi cerca Dio, sale sulla cima chi implora, per la sua ascesa, l’aiuto di Dio. Tutte le anime grandi, tutte le anime levate raggiungono la vetta… Non coi passi del tuo corpo, ma con le tue azioni levate sali questa montagna. Segui Gesù, in modo che tu stesso possa divenire un monte.
 
Il Santo del Giorno - 28 Ottobre 2025- Santi Simone e Giuda, Apostoli - Il cuore che sa amare è aperto alla vita di Dio: Il cuore che sa amare è pronto a riconoscere lo sguardo di Dio e ad ascoltare la sua voce, per questo chi vive nell’amore non teme nulla, perché percepisce l’abbraccio dell’Infinito. È questo il senso della risposta che Gesù dà alla domanda dell’apostolo Giuda Taddeo (o Giuda di Giacomo): “Perché ti sei manifestato a noi e non al mondo?”. Chiunque ami, nota il maestro, è pronto ad accogliere Dio. La Chiesa oggi celebra questo apostolo assieme a Simone, che era di Cana ed era soprannominato “lo zelota”, probabilmente perché aveva militato tra le fila del movimento che sognava una rivolta violenta contro i Romani per cambiare la storia. Sia Giuda (il cui soprannome Taddeo significa “magnanimo”) che Simone per la tradizione morirono martiri, il segno più grande di un amore al quale hanno offerto la propria vita fino alla fine. (Autore Matteo Liut)
 
O Signore, che ci hai accolti alla tua mensa
nel ricordo della passione dei santi apostoli Simone e Giuda,
per il tuo Spirito operante in questi misteri
confermaci sempre nel tuo amore.
Per Cristo nostro Signore.
 
 27 Ottobre 2025
 
Lunedì XXX Settimana T, O.
 
Rm 8,12-17; Salmo Responsoriale Dal Salmo 67 (68); Lc 13,10-17
 
Colletta
Dio onnipotente ed eterno,
accresci in noi la fede, la speranza e la carità,
e perché possiamo ottenere ciò che prometti,
fa’ che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo.

Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato: Catechismo della Chiesa Cattolica 2171: Dio ha affidato a Israele il sabato perché lo rispetti in segno dell’Alleanza perenne. Il sabato è per il Signore, santamente riservato alla lode di Dio, della sua opera creatrice e delle sue azioni salvifiche in favore di Israele.
2172 L’agire di Dio è modello dell’agire umano. Se Dio nel settimo giorno «si è riposato» (Es 31,17), anche l’uomo deve «far riposo» e lasciare che gli altri, soprattutto i poveri, «possano goder quiete». Il sabato sospende le attività quotidiane e concede una tregua. È un giorno di protesta contro le schiavitù del lavoro e il culto del denaro.
2173 Il Vangelo riferisce numerose occasioni nelle quali Gesù viene accusato di violare la legge del sabato. Ma Gesù non viola mai la santità di tale giorno. Egli con autorità ne dà l’interpretazione autentica: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Nella sua bontà, Cristo ritiene lecito in giorno di sabato fare il bene anziché il male, salvare una vita anziché toglierla. Il sabato è il giorno del Signore delle misericordie e dell’onore di Dio. «Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,28).
 
I Lettura: Il pathos umano ha senso nella speranza della risurrezione - José Maria González-Ruiz: Paolo continua a considerare la legge in una duplice dimensione: 1) la legge sola di fronte all’uomo in sé (l’uomo-carne) è «legge del peccato e della morte»; è una situazione il cui ultimo risultato sono il peccato e la morte. 2) la legge di fronte all’uomo in Cristo (l’uomo-spirito) è la «legge dello spirito e della vita»; è una situazione dominata dallo Spirito, che può, quindi, condurre alla vita. Ed ecco nuovamente l’insistenza su questa tremenda schizofrenia esistenziale: l’uomo conosce il progetto di liberazione (la legge che assolve la sua frustrazione esistenziale), ma questo progetto in sé - questa legge - gli indica solo la via, ma non lo porta alla meta. Per questo, è necessario lo Spirito, il soffio di Dio. L’uomo-spirito è colui che si è lasciato guidare da questo soffio di vita che viene solo da Dio.
Questa liberazione dell’umanità è stata compiuta da Cristo non dal di fuori, ma dal di dentro, attraverso quel processo di «redenzione mediante l’incarnazione» del quale Paolo parla così diffusamente ai filippesi. La liberazione dell’umanità è stata compiuta dal di dentro: Cristo si è fatto «carne», portando nel negativo della carne il positivo dello «spirito», perché qualsiasi uomo-carne che si unisce a lui possa seguirlo efficacemente nella sua ascensione dalla condizione-carne alla condizione-spirito, cioè nel suo passaggio dalla morte alla risurrezione. Quando dice che «Dio mandò il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» («en homoiómati»), Paolo non si riferisce solo all’apparenza, ma alla manifestazione sociale ed esterna d’una realtà più profonda. Sarebbe tremendamente lontano dalla cristologia paolina considerare Cristo come un Dio puramente travestito da uomo. Cristo era un uomo totale e completo; anzi, era «uno dei tanti».
Così dev’essere intesa anche la seguente antitesi che si riferisce alla situazione dell’uomo in sé o dell’uomo appoggiato sulla grazia che Dio gli offre per mezzo del Cristo. «Spirito» può significare questa situazione d’unione con Dio («spirito») o la causa trascendente, lo «Spirito», lo Spirito Santo. Il passaggio da spirito a Spirito e viceversa è impercettibile e, a volte, non è del tutto differenziato.
«Camminare secondo la carne» è, dunque, contentarsi dei propri mezzi senza accettare il dono gratuito di Dio.
Così si spiega come la «carne» tenda alla «morte»: l’uomo-carne - quello che di fatto e coscientemente rigetta l’offerta della salvezza - non ha altra meta finale che la « morte » (nel senso pieno), mentre l’uomo-spirito ha la prospettiva sicura della «vita» e della «pace». «Pace» è un’espressione ebraica («shalóm») che comprende l’insieme di tutti i beni desiderabili da parte dell’uomo.
Come si comprende (e come afferma Paolo), la situazione attuale del cristiano è di «tensione»: da una parte, il vecchio legame col peccato fa di lui un «cadavere», un essere diretto alla morte; ma, per la parte di spirito che ha già, è vita, è «proiettato alla vita per il giudizio divino favorevole» pronunziato sulla sua frustrazione esistenziale.
Le «opere del corpo» («tàs pràxeis toft. sómatos»): qui «corpo» è tutto l’uomo nella sua attività esteriore e visibile: si riferisce all’uomo in sé in quanto che tenta di agire per proprio conto. Il cristiano si distacca da questo modo di agire («pràxis») e lo «consegna alla sfera della morte», sapendo che, per questa strada, si va diritti alla «morte».
Una delle prerogative principali dell’uomo-spirito è che non ha ricevuto uno spirito di schiavitù, ma di filiazione. È un figlio di Dio e può parlare con Dio chiamandolo semplicemente «padre ».
Quindi è erede di Dio e divide questa eredità - come la filiazione divina - con lo stesso Cristo, il Figlio di Dio. Questa eredità si riferisce, come sempre in Paolo, a qualcosa di concreto e tangibile: «saremo anche glorificati insieme con Cristo». Il «pathos» umano comincia ad avere un senso, poiché può condurre a una «doxa» (gloria) al di là della morte biologica.
 
Vangelo
Questa figlia di Abramo non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?
 
Il capo della sinagoga è sdegnato perché Gesù ha guarito una donna in giorno di sabato. Gesù reagisce alla contestazione ricordando al suo interlocutore sdegnato la pratica corrente di abbeverare il bue o l’asino anche in giorno di sabato. È un argomento a fortiori: se in giorno di sabato si possono portare all’abbeveratoio l’asino e il bue perché non periscano di sete, un gesto per la vita per gli animali che non infrange la Legge, a maggiore ragione anche in giorno di sabato si può restituire la vita a una persona inferma. Un ragionamento sano ed equilibrato che fa precipitare i soliti contestatori nella vergogna: ancora una volta la loro ipocrisia è stata messa a nudo dinanzi alla folla che comprende il sapiente insegnamento e applaude per tutte le meraviglie operate da Gesù.
 
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 13,10-17
 
In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato».
Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.
 
Parola del Signore.
 
La donna curva - Rosanna Virgili (Vangelo secondo Luca): Dal fico sterile alla donna curva: la metafora femminile diventa esplicita. Se il fico era sterile da tre anni, qui abbiamo un simbolico multiplo di tre: diciotto cioè, tre per sei. Vale a dire: tre giri di anni senza l’anno sabbatico (che è il settimo!). Simbolicamente Gerusalemme per tre volte è stata privata dell’anno sabbatico. Del riposo di Dio in lei! Essa è stata, cioè, privata della sua sponsalità e per questo è sterile. Il suo Dio non “entra” in lei. Gerusalemme, sabato di Dio, sposa in cui egli entra ai primi vespri (vene di sera), si vede scippato il piacere del talamo, nella contrazione del tempo del sabato.
La donna è curva (synkyptousa), piegata su se stessa, come a dire pressata da un carico che non può sopportare: forse oppressa sotto la rigidità di una legge che, nata per sollevare i suoi figli «su ali di aquila» (cf Es 19,4), era stata ridotta ad un peso di piombo da portare su fragili spalle? In tal caso la donna sarebbe un’altra metafora di Gerusalemme. Una donna con uno spirito di debolezza (pnéuma asthenéias échousa), cioè sola e, dunque, che non poteva sostenersi, né alzare la testa per guardare il cielo, dove abitava il suo Dio. Gesù ha compassione per questa “figlia di Abramo” che, come tutti gli altri ebrei, ha diritto alla vita. Il suo essere legata da Satana (cf v. 16) richiama il legamento di Isacco (cf Gen 22,9). Il figlio unico di Abramo fu a sua volta legato, benché non da Satana, ma dal suo stesso padre. Fortunatamente, l’angelo del Signore venne a togliere la mano armata di suo padre dalle membra del figlio (cf Gen 22,12). Gesù è pari a quell’angelo di Dio, che “slega” da Satana il corpo avvilito della donna per riaprirlo alla libertà ed alla lode. Questa figlia di Abramo è simbolo di Gerusalemme, la “figlia di Sion” curvata su stessa, incapace di sollevare lo sguardo verso l’alto. Sterile come un tempo privo del seme del sabato, terra impotente e senza germogli, non vive, ma si trascina sopportando l’esistenza, resa ancora più grave dal giogo della legge, come un peso inutile. Il Figlio di Dio si fa madre della figlia di Abramo e la fa rinascere alla visione del Padre. Così Gerusalemme inizia la sua nuova primavera a cominciare dal basso, dai poveri, dai pubblicani (cf Zaccheo, anche lui “figlio di Abramo” in 19,9). Per ricostruire il popolo di Abramo Gesù riparte dalle briciole, dagli scarti e ... dalle donne!
 
La docilità allo Spirito offre all’uomo continue occasioni di vita: Giovanni Paolo II (Omelia, 31 Maggio 1998): Scrive san Paolo nella Lettera ai Romani poc’anzi proclamata: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Queste parole offrono ulteriori spunti per comprendere l’azione mirabile dello Spirito nella nostra vita di credenti. Esse ci aprono la strada per giungere al cuore dell’uomo: lo Spirito Santo, che la Chiesa invoca perché dia “luce ai sensi”, visita l’uomo nell’intimo e tocca direttamente la profondità del suo essere. Continua l’Apostolo: “Se lo Spirito abita in voi, non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito... Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (cfr. Rm 8,9.14). Contemplando, poi, l’azione misteriosa del Paraclito, aggiunge con trasporto: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi..., ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Eccoci al centro del mistero! È nell’incontro tra lo Spirito Santo e lo spirito dell’uomo che si trova il cuore stesso dell’esperienza vissuta dagli Apostoli nella Pentecoste. Quest’esperienza straordinaria è presente nella Chiesa nata da quell’evento e l’accompagna nel corso dei secoli. Sotto l’azione dello Spirito Santo, l’uomo scopre fino in fondo che la sua natura spirituale non è velata dalla corporeità ma, al contrario, è lo spirito che dà senso vero allo stesso corpo. Vivendo, infatti, secondo lo Spirito, egli manifesta pienamente il dono della sua adozione a figlio di Dio. In tale contesto, ben s’innesta la questione fondamentale del rapporto tra la vita e la morte, che Paolo tocca osservando testualmente: “Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (Rm 8,13). È proprio così: la docilità allo Spirito offre all’uomo continue occasioni di vita.
 
Cirillo di Alessandria: Tutti i suoi avversari si vergognavano: «La vergogna si è abbattuta quindi su coloro che hanno manifestato queste disoneste intenzioni, che si sono imbattuti nella principale pietra d’angolo e che sono stati spezzati. Mentre egli era occupato a raddrizzare i suoi vasi incurvati, essi hanno urtato contro il santo Vasaio e si opposti al Medico»..
 
Il Santo del Giorno - 27 Ottobre 2025 - Santa Balsamia: In Francia, nella diocesi di Reims, Balsamia viene onorata come nutrice di San Remigio, vescovo di quella città. Un dato che la rende particolarmente importante per l’Oltralpe. San Remigio, infatti, convertì nel V secolo la regina Clotilde e il marito Clodoveo. E con la conversione del re franco iniziò la storia cristiana della Francia. La figura di Balsamia si accosta a quella della madre di Remigio, Celina, anch’essa santa. Il nome della balia, però, appare tardivamente, nel X secolo quando oltre che nutrice viene identificata anche come madre di santi: san Celsino sarebbe stato, infatti, uno dei suoi figli. La leggenda dice che, benché venerata in Francia, Balsamia sarebbe stata di origine italiana. Da Roma sarebbe giunta a Reims proprio in tempo per svolgere la sua delicata mansione di nutrice. Una lettura della storia che stabilisce un legame forte tra Roma e la Francia: il latte, come un «balsamo», che ha nutrito il «padre della Chiesa francese», sarebbe venuto da Roma. (Avvenire)
  
Si compia in noi, o Signore,
la realtà significata dai tuoi sacramenti,
perché otteniamo in pienezza
ciò che ora celebriamo nel mistero.
Per Cristo nostro Signore.